Incontro con uno dei più bravi sceneggiatori italiani. Autore di film come “Le Fate Ignoranti” e “La Finestra di Fronte”: visitatore dei generi, poeta e teorizzatore della felicità “diversa”, ma anche e soprattutto di un diverso cinema.
di As Chianese
Il nostro incontro era convenuto. Anche se il cinquantenne sceneggiatore romano Gianni Romoli mi premette di essere “…invaso di e – mail che mi chiedono di leggere sceneggiature e soggetti, proprio in un momento in cui non ho nemmeno il tempo per leggere il giornale”.
Mi è toccato l’ingrato compito di ricordargli che eravamo stati a un passo dal parlarci, dal poter finalmente fare questa attesissima intervista, nel dicembre del 2002: quando dal cielo chiesero di Massimo Girotti, aspettando che l’attore finesse le riprese dell’ultimo film prodotto e scritto da Romoli, “La Finestra di Fronte”. Per un motivo o per un altro era saltato tutto, si erano interrotti i legami, ma adesso a distanza di parecchio tempo finalmente il momento convenuto è arrivato, a nulla serve l’ennesima premessa di “Ti prego di non farmi tremila domande. Mi è già successo di fare interviste via e – mail. Ma l’ultima volta, dopo che ho acconsentito, mi sono arrivate talmente tante domande che mi ci volevano cinque giorni per rispondere e allora ho rinunciato”. Gianni Romoli, partendo da “soli” 15 quesiti, mi ha raccontato di se e del suo cinema, del suo modo di scrivere e vedere la sceneggiatura e di infondere i suoi lavori di un messaggio specifico e personalissimo.
Chianese: Mi parli un po’ dei suoi inizi, delle sue passioni. So che tutto iniziò con i Cineclub e poi ci fu un incontro con Giancarlo Giannini…
Romoli: Ho iniziato aprendo un cineclub insieme a un gruppo di amici. In realtà il cineclub era già stato aperto prima del mio arrivo. Io dopo essermi laureato ero stato nove mesi in America e al mio ritorno l’ho trovato aperto da poco. Si chiamava “L’Occhio l’orecchio e la bocca” era a Trastevere ed era il secondo cineclub a Roma dopo il Filmstudio. Non era però specificatamente un cineclub, era qualcosa di meno ma anche di più. Per capirlo bisogna rifarsi al clima dei primi anni ’70: il post-sessantotto e le esperienze di politica alternativa che gravitavano soprattutto intorno ai movimenti di autocoscienza, di liberazione sessuale, eccetera. Femministe in primis. L’associazione culturale infatti era uno spazio gestito da una serie di transfuga da gruppi femministi, del men’s liberation, dei movimenti omosessuali ed era nello stesso tempo uno spazio per cinema, teatro, musica, sala da tè… insomma uno spazio polivalente di cultura alternativa. Io subentrai ad una socia che si era stancata e decisi subito di occuparmi esclusivamente del cinema. Sceglievo i film, preparavo i programmi, proiettavo, stavo alla cassa. Ognuno si occupava del suo spazio creativo ma tutti a turno facevamo anche i lavori fisici e pratici. Con il passare del tempo il Cinema ha prevalso, molti dei soci si persero per strada, altri ne arrivarono e gli ultimi tre anni, “i più gloriosi”, “L’Occhio…” era un vero e proprio cineclub, molto innovativo e diverso da tutti gli altri ed eravamo solo in tre: io, Roberto Farina e Silvia Viglia. Inventammo le maratone, riproponemmo il cinema di genere e soprattutto quello americano in un periodo in cui l’America era culturalmente “out” perché considerata troppo reazionaria, era il “nemico”. Ma soprattutto facemmo un lavoro di lettura del cinema non verticale (il culto degli autori) ma orizzontale (la produzione, la serialità, cinema alto e basso, la sperimentazione, non il singolo film ma il cinema oltre il film: trailer, scene tagliate, super8, eccetera). Andammo anche alla riscoperta di molti film classici che non si vedevano da decenni (non esistevano ancora le televisioni private) cercandoli nelle cineteche europee e americane. Ogni programma del cineclub lo consideravamo quasi una “opera” in sé e c’era un continuo stimolo di sfida con gli altri cineclub, una rivalità molto creativa e amichevole che poi ha generato Massenzio, l’Estate Romana di Nicolini e tutta una serie di fenomeni culturali più o meno alternativi tipici di quegli anni. La mia passione per il Cinema, avuta sin da bambino, si sfogò all’inizio soprattutto lì. Gestire un cineclub era insieme fare critica viva ed era come girare un film con i film degli altri. Poi quando questa esperienza si allargò a Massenzio diventò come produrre e creare rassegne e festival che somigliassero quasi a dei Kolossal (eravamo passati dai cento spettatori al giorno del cineclub ai diecimila a notte di Massenzio). Un periodo molto felice, anche se poverissimo, ognuno di noi aveva lavori normali (io insegnavo, per esempio) perché da queste attività non ricavavamo alcun reddito. Tutto quello che incassavamo lo investivamo nella ricerca del film più raro, in viaggi alla scoperta di film perduti. Ricordo tutto ciò con passione, come un periodo di grande avventura. Ma era anche il periodo dei miei vent’anni e quindi non potrei ricordarlo che così. Verso la fine degli anni ’70 conobbi Giancarlo Giannini. Dovevo fargli una intervista che mi serviva per un libro sul Cinema Italiano che avrebbe accompagnato una grande mostra al Palazzo dell’Esposizione. Ma conoscevo bene il suo collaboratore più stretto di allora, Ezio Busso, che frequentava anche il mio cineclub. E fu proprio di Ezio l’idea di farmi scrivere. Io non avevo mai scritto per il cinema. Avevo scritto poesie, racconti, molti articoli sul cinema, ero stato anche critico per due o tre anni di un giornale anarchico UMANITA’ NOVA, grazie al quale riuscivo ad avere l’accredito per andare ai festival. Una volta soltanto, quasi per scherzo, avevo scritto una sceneggiatura erotica per un mio amico che faceva l’Agente di attori e attrici (Pino Pellegrino, che ora è un affermato “casting”) e che la voleva portare ad Aristide Massaccesi, il Joe D’Amato pre-porno. Si intitolava “Isabelle Clyto Duemila” ed era un film di fantascienza erotica, anche un po’ comico. Piacque molto ma sarebbe stato un film troppo costoso dato il genere. Un giorno Ezio Busso mi telefonò (era un giovedì) e mi chiese se me la sentivo di scrivere una sceneggiatura tratta dal racconto “Il Piccolo Assassino”. Mi avrebbero pagato comunque “cinquecentomila lire” ma dovevo scriverla in quattro giorni. Il lunedì successivo sarei dovuto andare a cena da Giannini e portargliela. Cominciò così.
Chianese: Il racconto che doveva sceneggiare per Giannini era di Ray Bradbury: tratto dalla raccolta “Omicidi di Annata”? Perché non si fece più?
Romoli: Sì, era quel racconto. In realtà la proposta che mi aveva fatto Ezio Busso conteneva una premessa, che molto onestamente mi fece subito. Giannini aveva deciso di dirigere per la televisione un tv-movie tratto da quel racconto e da tempo ne stava scrivendo la sceneggiatura, insieme alla sua compagna di allora, Eurilla Del Bono (che poi diventò sua moglie). Era però curioso di vedere che cosa ne avrebbe fatto di quel racconto un altro sceneggiatore. Ovviamente incaricare uno sceneggiatore affermato significava non solo pagarlo un po’ troppo per togliersi uno sfizio, ma anche non poterlo poi escludere dal progetto finale. Insomma un vero professionista avrebbe preteso un contratto. Così, visto che era solo uno “sfizio”, ad Ezio venne l’idea di affidarlo a me che non ero un professionista ma ero abbastanza esperto di cinema e appassionato da garantire un qualsivoglia risultato. La mia sceneggiatura, che era molto diversa dal racconto, piacque molto a Giannini e fece nascere l’idea di scrivere una serie di altre sceneggiature, originali stavolta, per farne una vera e propria serie televisiva che fosse qualcosa tra i telefilm di Hitchcock e “Ai Confini della Realtà”. L’idea di questa serie e i soggetti (ben nove) e le sceneggiature (tre) che ne seguirono seppellirono in qualche modo il progetto “Piccolo Assassino”. Per due anni tentammo di realizzarle e alla RAI erano molto interessati, ma anche un po’ spaventati sia perché le storie erano un po’ troppo “forti” per la televisione di allora, sia perché Giannini voleva legarsi al progetto come regista e allora lui era soprattutto considerato un grande attore, con una fama più comica e grottesca che non di autore di thriller o di horror. Piacquero molto anche ad Elio Petri. E io ormai lavoravo fisso a casa di Giannini, scrivendo persino un film horror, “Midriasi”, ma anche quello non fu mai fatto. Fu un periodo strano, di apprendistato, molto entusiasmante perché tra me e Giannini c’era una forte complicità creativa ma anche frustrante perché niente di quello che facevamo arrivava ad essere prodotto. Finché a Giannini capitò l’offerta di fare un film con Sergio Corrucci, “Bello Mio Bellezza Mia”, e io ne scrissi con loro la sceneggiatura. Fu il mio primo film ma anche il mio primo flop.
Chianese: Per capire la genesi di uno sceneggiatore è d’obbligo domandare che letteratura ha amato. Lei che romanzi ha prediletto, che autore ha preferito… come è stata la sua formazione artistico/culturale e che messaggio, che impronta, particolare ha il suo cinema?
Romoli: Sin da piccolissimo sono stato un lettore onnivoro. A scuola sono sempre andato benissimo soltanto in italiano. Ho imparato a leggere sin da prima della scuola perché volevo capire i titoli dei film nei manifesti di cui era ricoperta la città. Mio padre mi portava moltissimo al cinema e la lettura dei romanzi e dei fumetti (soprattutto “L’Intrepido” e “Capitan Micky”, ma anche i fotoromanzi completi di “Grand Hotel”) erano come delle supplenze ai film. Leggendo un romanzo immaginavo già che fosse un film e, da piccolo, era fondamentale che i libri avessero le figure. Mi piacevano più “Piccole Donne” o “I ragazzi della via Paal” che non “I tre moschettieri” o “Ivanhoe”. Passai ai libri per adulti prestissimo. Credo che già ad undici anni lessi “La Ciociara” di Moravia e poi di seguito “La Disubbidienza” e “Agostino”. Poi lessi di tutto, ma più che i classici, gli autori che mi erano contemporanei. L’influenza però non mi è mai venuta dalla letteratura, ma sempre e soltanto dal cinema. A casa mia la televisione è entrata tardissimo: avevo già 16 anni quando i miei la comprarono. Per cui andavo a cinema almeno due o tre volte alla settimana e vedevo di tutto. E spesso rivedevo i film anche due volte di seguito lo stesso pomeriggio. Il mio film preferito in assoluto era “Scarpette Rosse” di Powell, ma ho un ricordo molto forte anche per i Peplum (“Maciste nella valle dei re” che preferii a “Ben-Hur”, allora…) e gli horror, che mi attiravano soprattutto perché erano vietati e riuscire ad entrare in qualche saletta di seconda o terza visione era un miracolo. Il primo in assoluto che vidi da solo con grande paura fu “I racconti del terrore” tratto dai racconti di Poe e ricordo che in sala tremavo quasi prima ancora che iniziasse il film. Passare attraverso tutta la visione uscendone indenne, cioè “vivo” e senza mai aver chiuso gli occhi, fu quasi un viaggio “iniziatici”. Da piccolo mio padre mi portava a vedere molti western, gli indiani mi facevano molta paura e ad ogni attacco io mi chiudevo gli occhi e mio padre doveva avvisarmi quando era finito. Insomma questo per dire che sin dall’inizio avevo un rapporto molto emotivo con il cinema e che i miei amori erano soprattutto legati ai film americani e di genere. Poi crescendo mi sono infilato in tutte le fasi tipiche dell’età e del periodo storico. Al liceo per esempio già pure per me il cinema americano era tabù e reazionario. Ero tutto per Godard e avevo una passione sfrenata per il cinema underground americano, che avevo visto tutto in un cineforum quando Jonas Mekas venne in Italia negli anni ’60 a portare per la prima volta una cinquantina di film indipendenti americani. Da tutto questo sproloquio si può dedurre che sono uno sceneggiatore fondamentalmente “manierista”. Nel senso che la mia ispirazione parte più dal Cinema che non dalla Realtà e che le storie che racconto non raccontano quasi mai soltanto una “vicenda” ma anche la sua costruzione stilistica, con ampi riferimenti (che però non sono citazioni) ai generi di riferimento a cui potrebbero appartenere. Mi diverte molto sperimentare anche la contaminazione tra generi diversi. Cosa che ho fatto soprattutto quando ho scritto per alcuni anni la serie televisiva di “Fantaghirò” e altre favole, che sono state un vero e proprio laboratorio di gemmazione di un genere dall’altro: favola che diventava fantasy che diventava horror che generava avventura e poi melodramma, eccetera.
Chianese: Lei ama il fantastico e quindi anche l’horror… mi può parlare della genesi e del decorso di un bellissimo film come “Dellamorte Dellamore”, del suo rapporto con Soavi e col romanzo di Tiziano Sclavi, e sopratutto del nuovissimo progetto: “Il Demone Meridiano”. Mi può dire qualcosa di specifico su quest’ultimo punto?
Romoli: Stavo lavorando da tempo ormai con Mediaset alle favole di Natale scritte in totale libertà da me e dirette da Lamberto Bava e avevo già fatto con Michele Soavi “La Setta” quando, proprio nei corridoi di Mediaset, incontrai Tilde Corsi che allora stava lavorando anche lei con loro come producer. Avevo conosciuto Tilde anni prima come moglie di Manuel De Sica, grande appassionato di horror che mi aveva contattato in un momento di mia grande depressione perché aveva incidentalmente letto i famosi (e “famigerati” perchè non si realizzarono mai) telefilm scritti per Giannini. Io e Tilde eravamo “conoscenti” affettuosi ma non amici all’epoca. Lei inoltre ogni tanto andava a giocare a Tennis con Michele Soavi. Fu lei a chiedermi se volevamo provare a produrre insieme “Dellamorte Dellamore”. Il figlio di Tilde, Andrea, allora dodicenne, aveva ricevuto il libro di Sclavi in regalo dalla madre e lo aveva portato nella biblioteca scolastica suscitando le proteste di alcuni genitori degli altri alunni. Tilde era stata convocata dal preside della scuola che la aveva avvisata della immoralità e pericolosità del libro. Insomma ce n’era abbastanza per incuriosire Tilde che lesse il libro, le piacque molto e decise di tentare di farne un film. Per cercare i soldi però il libro non bastava e nemmeno la fama in quel periodo sempre crescente di Dylan Dog. Ci voleva un “pacchetto” più strutturato. La sua idea fu quella di trovare uno sceneggiatore adatto e un regista adatto che lavorassero gratis, almeno fino a che non si trovassero i soldi per fare il film. E così ci incontrammo tutti e tre a casa di Tilde che ci propose di fare una società (l’Audifilm) per tentare di produrre il film. Io e Michele accettammo. Io già leggevo Dylan Dog all’epoca (e continuo a leggerlo) ma non avevo letto il libro. La lettura del libro mi convinse proprio per le sue difficoltà: non c’era una trama, era quasi intraducibile cinematograficamente nonostante una scrittura piena di riferimenti cinematografici e apparentemente scritta quasi per lo schermo. Insomma era una impresa molto difficile. Ma era quanto di meglio avessi letto sulla depressione e sulla paura di vivere (temi che mi riguardavano anche a livello privato). Mi misi a studiare attentamente il libro. Feci riassunti di ogni capitolo, annotando a parte battute e dialoghi, lo scarnificai studiandolo quasi scientificamente e riducendolo a una sorta di puzzle di cui potevo buttar via pezzi e aggiungerne altri. Rilessi anche tutti i Dylan Dog usciti fino ad allora e poi, chiuso e sbarrato da solo in casa per un lunghissimo agosto, dopo tre mesi di studio del testo, scrissi in un mese la sceneggiatura. Ovviamente poi la corressi insieme a Michele, ne scrissi altre versioni. La cosa più difficile da far accettare ad eventuali finanziatori fu che era un film apparentemente senza trama, fedelissimo allo spirito di Sclavi, in bilico tra humour nero e meditazione esistenziale, un meta-horror che non faceva paura ma raccontava la difficoltà di distinguere la vita dalla morte attraverso un ritratto tutto metaforico della società italiana di allora piena, anche politicamente, di Zombi e Ritornanti. La sceneggiatura piacque moltissimo a Rupert Everett che accettò subito di fare il film, pur non sapendo niente di Dylan Dog e soprattutto ignorando che in quel fumetto l’eroe aveva il suo volto. Non fu facile trovare i soldi. Ne trovammo meno di quanti ne servissero ma con l’incoscienza dei neofiti iniziammo lo stesso il film, aiutati come produttori esecutivi da Conchita Airoldi e Dino Di Dionisio con la loro società che aveva già prodotto molti film, tra cui alcuni di Gianni Amelio. La lavorazione in pieno inverno, quasi tutta di notte, in cimiteri sconsacrati in parte riarredati, tra fango pioggia e gelo fu affascinante ma infernale e lunghissima. Andammo fuori budget ma realizzammo il film al meglio delle nostre possibilità con scelte anche coraggiose, come quella di realizzare tutti gli effetti speciali dal vero, senza usare mai il computer, a costo che i “trucchi” fossero visibili, come se fosse una rappresentazione teatrale da Grand Guignol. Ne uscì un film molto “forte”, che miracolosamente riuscimmo a non far vietare a nessuno in Italia, ma solo in Italia. Nel resto del mondo è stato vietato e spesso anche bandito (in Inghilterra per esempio) perché accusato di amoralità. In Italia ebbe molto successo sia di pubblico che di critica. All’estero iniziò bene vincendo al Festival di Gerardmer (il migliore per l’horror) il “premio speciale della giuria” (composta tra gli altri da Carpenter, Chuck Russell e Tobe Hooper) e il “premio del pubblico”. Lo vendemmo in tutto il mondo, ma sia in Francia che in America fu un vero flop. Solo anni dopo, con i suoi passaggi nelle pay tv, è diventato un vero e proprio “cult” anche all’estero. Il film stesso è diventato con il tempo un vero e proprio Ritornante e io lo amo molto, forse è il mio preferito tra i film che ho scritto. Michele Soavi ha fatto un lavoro magnifico, credo che sia il regista italiano più visionario e quello che ha maggior talento nell’uso della macchina da presa e mi dispiace che si sia impantanato in televisione. Per quanto riguarda “Demone Meridiano” posso solo dire che è una storia che mi sta molto a cuore. Ho iniziato a pensarla per Michele Soavi, poi però ne sono diventato geloso perché ho scoperto che in qualche modo è molto autobiografica e allora ho deciso di tentare di girarla io, ma non per ora. Prima devo finire altri lavori già iniziati. Il nuovo film di Ozpetek, “Cuore Sacro”, e un remake de “La Corona di Ferro” il grande fantasy di Alessandro Blasetti di cui ho comprato i diritti e che non so chi dirigerà. Per questo è prematuro parlare di “Demone Meridiano”, è ancora chiuso tutto dentro di me. C’è ancora pochissimo di già scritto. Posso solo dire che la protagonista è una scrittrice americana di horror seriali e che si svolge tutto a Sabaudia, d’inverno.
Chianese: Ha lavorato con Dario Argento. Che persona è Dario… come si comporta sul set e sopratutto come ha lavorato nei progetti in cui era
impegnato anche lei (“La Setta” e “Trauma”). Quale è il suo rapporto con gli sceneggiatori?
Romoli: Dario Argento era sempre stato un mio mito. Soprattutto da “Profondo Rosso” in poi. Il suo film che preferisco è “Suspiria”. Ma amo molto anche la prima parte di “Inferno” e tutto “Opera”, tranne il finale. Prima ancora di conoscerlo avevo in mente di scrivere una monografia su di lui, magari per “Il Castoro”. Ma già ero molto pigro. L’ho conosciuto e ci ho lavorato per caso. C’è stato un periodo, dopo il film di Corbucci “Sono un Fenomeno Paranormale”, in cui avevo cominciato a lavorare con Mario Cecchi Gori, che mi aveva preso in simpatia e mi voleva fare un contratto di esclusiva con lui, che però ho sempre rifiutato. Fu lui a chiedermi di scrivere un film horror per Luca Verdone, fratello documentarista di Carlo. Iniziammo così una serie di lunghe riunioni che diedero vita a un copione che si chiamava “Katacumba” e che era la storia (tutta ambientata in Italia) di una Setta che aveva avuto origini nell’Antica Roma. Il copione piacque ai Gori, ma Vittorio suggerì di cambiare il titolo in “La Setta” e cercò di convincere Dario Argento, che allora lavorava per loro, di diventarne il produttore in modo di poter avere legata al film la dicitura “Dario Argento presenta”. Dario lesse la sceneggiatura e non gli piacque per niente. E io pensai che la cosa fosse finita lì. Ma mi ero sbagliato. Dario infatti ritornò alla carica, dicendo che il film lo avrebbe fatto se si fosse conservato del vecchio progetto solo il titolo, qualche situazione horror (poche) e se si fosse cambiato il regista. Non perché non stimasse Luca Verdone, ma perché voleva qualcuno che avesse più esperienza e che lui conoscesse già bene, qualcuno come Michele Soavi con cui aveva da poco fatto “La Chiesa”. Così io, Dario e Michele cominciammo a lavorare insieme ad un nuovo soggetto e allora capii anche perché non gli era piaciuta la mia sceneggiatura: Dario è “autore assoluto” di tutto quello che fa e quindi se scrive o pensa un film l’idea e l’origine del film deve assolutamente partire da lui. Non poteva accettare un copione pensato da altri. E così nacque “La Setta” e poi “Trauma”, che scrivemmo insieme a Franco Ferrini. Dario è un lavoratore instancabile e parte da intuizioni visive, impressioni, suggestioni notturne che poi cerca con l’aiuto dei suoi collaboratori di trasformare in trama e struttura. Si rimprovera sempre ai suoi film la mancanza di un copione ferreo, dei dialoghi spesso risibili, di un disinteresse per la trama. Al contrario di questa sua fama, Dario dedica invece moltissimo tempo alla stesura della sceneggiatura ed è puntigliosissimo. Per “Trauma”, che all’inizio si intitolava “L’Enigma di Aura”, facemmo lunghe ricerche sull’anoressia e pretese che io e Ferrini ci documentassimo anche su Boston, dove voleva girare il film. Arrivammo al punto, scrivendo un lungo e dettagliatissimo (quasi dialogato) trattamento, che all’inizio di molte scene c’erano scritti addirittura gli indirizzi veri delle location di Boston in cui le scene sarebbero state girate. Tanto più il copione è strutturato, logico, conseguenziale tanto più poi il Dario “regista” può scompaginare il gioco, lavorare di fantasia, sfogare il suo estro sperimentale e avanguardistico. Dario è forse il più audace stilisticamente dei registi italiani. E le forme del narrare sono per lui più importanti della narrazione stessa, per questo poi nei suoi film c’è una prevalenza del segno sul senso.
Chianese: Quale fu l’apporto che lo scrittore americano T.E:D. Klein diede a “Trauma”?
Romoli: Io e Ferrini fummo esclusi dalla stesura definitiva del film un po’ di nascosto. Sapevamo sin dall’inizio che uno sceneggiatore americano ci si sarebbe affiancato perché il film doveva essere girato in America e in inglese e quindi questo sarebbe stato inevitabile. Però il tutto avvenne un po’ in segreto. Dario partì per l’America e quando tornò la sceneggiatura era già fatta. Così io e Ferrini rimanemmo titolari solo del “soggetto” pur avendo scritto un trattamento anomalo che era già in parte una sceneggiatura. Il film è abbastanza fedele al nostro lavoro originario. L’apporto di Klein fu soprattutto quello di abbassare il tono del film, addolcirlo, togliere molta violenza, insomma renderlo più digeribile per un pubblico americano. Il bambino del film nel nostro copione veniva ucciso e poi era sua madre che avrebbe “giustiziato” l’ assassina del film, chiudendo così il cerchio “tutto femminile” del film. Questo fu tolto e ammorbidito. A quell’epoca poi anche in Italia i film iniziavano ad essere prodotti con molti soldi della televisione e non erano più graditi i film vietati ai minori, per cui Dario si mise in testa di fare con “Trauma” il suo primo film non vietato e questo non gli ha giovato. Il risultato, per quanto ancora molto affascinante soprattutto visivamente, con alcune sequenze memorabili, risente di molti tagli sia alle situazioni che ad alcuni personaggi secondari, che erano più sviluppati nel nostro copione. Lo stesso rapporto tra Aura (Asia Argento) e il ragazzo che la aiuta nella sua “indagine” era più complesso e morboso. Insomma senza gli “americani” forse il film sarebbe stato più “tosto”, ma forse non si sarebbe potuto produrre.
Chianese: In un periodo in cui si parla di un Argento in declino a causa della carente sceneggiatura de “Il Cartaio” lei cosa si sente di dire? le è piaciuto il film?
Romoli: E’ molto difficile per un “fan” di Dario Argento parlare di declino o mettersi in posizione nettamente critica rispetto ai suoi film. Tutti i veri appassionati di horror sanno di appartenere in qualche modo a una vera e propria “setta”, sono dei “fedeli” che difficilmente mettono in discussione quella che è quasi una “religione”. Un vero appassionato vede in un film horror o di genere cose che spesso un normale spettatore nemmeno intravede: sottotesti, esperimenti, rimandi, tentativi di ribaltare regole e spesso anche i risultati meno convincenti sono apprezzati come “momenti di passaggio” verso nuove e differenti reincarnazioni di un autore amato. “Il Cartaio” ha alcuni difetti tecnici talmente esibiti da essere quasi dei segnali estranianti (alla Bertold Brecht?) che possono far supporre un voluto raggelamento del materiale “caldo” tipico del genere. Altrimenti come giustificare il doppiaggio che azzera la recitazione di quasi tutti gli attori o l’esibizione sfrontata dei “falsi” cadaveri, perfetti come simulacri di “body art” ma assolutamente non credibili come “effetti” di supplenza della realtà, visto che sono serviti da una fotografia che non ne maschera la simulazione rendendola “realistica” ma anzi ne amplifica l’elemento di finzione? E perché una prima parte appiattita sul modello “telefilm americano alla CSI” e una seconda invece barocca e rutilante, fino al delirio della scena finale presa di petto da un film muto alla “I pericoli di Pauline”? Perché un commento musicale elettronico così petulante e piatto si supponga che non sia “consapevole” della propria piattezza se poi la stessa protagonista lo “spara via” nel finale con un bellissimo colpo di pistola? Insomma un film così, che cerca continuamente di autoannullarsi, quale messaggio cifrato lancia ai suoi spettatori appassionati? Io spero che sia l’abbandono definitivo del thriller, credo che sia il “lungo addio” di Dario a un genere che non è più consono alla sua forza espressiva che ha bisogno di deliri e non delle gabbie narrative proprie del “giallo”. Dario deve tornare all’horror puro e spero sia vero che voglia concludere la sua trilogia sulle Tre Madri. Dario è un maestro del cinema astratto come Stan Brakhage e di quello surreale come Cocteau.
Chianese: Tornerebbe a lavorare con Dario? E se si, lavorerebbe più a un thriller o a un horror?
Romoli: Ormai — per il momento e finché mi va bene – io scrivo solo film che produco io stesso e quindi è difficile che potrei scrivere di nuovo un film di Dario, visto che anche lui è produttore di se stesso. Se proprio capitasse io non mi tirerei indietro e sicuramente opterei, anzi pretenderei, un horror.
Chianese: Secondo lei perchè è morto il cinema di genere in Italia?
Romoli: Per tanti motivi: storici, economici, sociali. La televisione ha inghiottito il genere trasformandolo in serialità. L’horror poi soprattutto ha bisogno di essere vietato, trasgressivo, sperimentale: tutte cose per cui è difficile ormai trovare i soldi. Il Cinema in “sala” ha bisogno di grossi budget per attirare il pubblico e quindi il “genere” o “filone” (per essere più precisi in Italia si sono sempre fatti film di un “filone” non di un “genere”) hanno bisogno spesso di “piccoli” budget più adatti a una produzione televisiva che però non reggerebbe la forza dirompente del genere, soprattutto se “puro”. E poi per dirla tutta gli unici due veri generi italiani bene o male sopravvivono e sono: La Commedia e Il Film d’Autore e tutte e due sono stati generati dalla dittatura (anche dovuta alla “critica”) del Neorealismo. La Commedia nasce dal Neorelismo “rosa” e sfocia in Totò ma anche in Dino Risi. Ieri c’era lui, Monicelli, Comencini, Steno ma i film erano ‘di’ Sordi, Tognazzi, Gassman, Giannini…insomma si andava a vedere un film dell’Attore (anche se alle spalle avevano fior di autori). Oggi si continua ad andare a vedere i film di Benigni, Pieraccioni, Aldo Giovanni & Giacomo (anche se alle spalle non hanno più gli autori). Così come, sull’altro fronte, ieri c’erano Fellini, Visconti, Pasolini, Rossellini, De Sica, Ferreri e tanti altri. Oggi si va a vedere il nuovo film di Bellocchio, Giordana, Ozpetek, Muccino e gli altri. In mezzo manca il prodotto medio, quello che si strutturava in “filoni”, cioè dei microgeneri che nascevano per gemmazione dal successo di un film: come i thriller alla Dario Argento (con gli animali nei titoli); i peplum; il western italiano, eccetera. Noi siamo arrivati alla paralisi da questo punto di vista. Per il “genere” e l’horror in particolare ormai si guarda o al Cinema del Far Est, soprattutto asiatico, o alla Spagna, alla Francia, alla Germania. Per ricominciare bisogna sparare in alto: fare nuovi film horror ad alto budget, magari con una forte commistione di genere e forse facendoli in inglese per trovare i soldi anche all’estero. Ma qualcosa sta succedendo: già questa stagione sono pronti molti film che occhieggiano al genere. Penso al nuovo film di Alex Infascelli (“Il Siero delle Vanità”) o a quello di Eros Puglielli (“Occhi di Cristallo”). Basta aspettare che escano e vederli per capire se è già in atto un ritorno e se è in grado di generare una tendenza.
Chianese: Come avverte il passaggio dalla sceneggiatura alla regia? è un fatto naturale?
Romoli: No, assolutamente. Non è detto che un bravo sceneggiatore sia un bravo regista o un regista “mancato”. Io ho sempre evitato di cimentarmi con la regia per motivi del tutto personali e autobiografici. Ho sempre cercato di non confrontarmi in modo diretto con il mondo esterno, di cui evidentemente ho paura e mi sono sempre nascosto o nel lavoro di gruppo (cineclub, festival) o scrivendo per qualcun altro. La mia creatività ha bisogno di un giudice esterno, su cui mi illudo di avere il controllo. Come un diplomatico preferisco lavorare ai fianchi o nascosto dietro le quinte. Se mai girerò un film – e forse potrebbe succedere – non sarà per iniziare una nuova “carriera” o un nuovo lavoro ma solo per fare un esperimento soprattutto su me stesso. Diciamo: per fare una esperienza terapeutica. Mi rendo conto che è un “lusso”. E infatti se lo farò sarà solo se potrò permettermelo. E senza “inguaiare” nessuno. Quindi autoproducendomi.
Chianese: Mi parla del suo rapporto con Ozpetek? perchè le piace questo regista? Come lo ha conosciuto? E come nasce e si sviluppa il vostro modo contiguo di vedere il cinema?
Romoli: Ho conosciuto Ferzan nel 1984. Me l’ha presentato Maurizio Ponzi, di cui era l’aiuto regista. Fu durante una delle ultime Rassegne di Massenzio di cui avevo curato la programmazione, quella che si svolse all’Eur. Regalai a Ferzan e a Maurizio una “tessera d’oro” per poter entrare gratis a tutte le proiezioni e così Ferzan venne quasi tutte le sere e cominciammo a diventare amici. Eravamo tutti e due già dei professionisti nel cinema, anche se lavoravamo in settori diversi, ma tutti e due ancora abbastanza agli inizi. Lui lavorava soprattutto solo per Ponzi e io solo per Corbucci. Così cominciammo ad aiutarci anche a vicenda, presentandoci scambievolmente gente di cinema che ognuno dei due conosceva. Poi cominciammo ad invitarci reciprocamente a cena, condividendo anche le nostre rispettive “famiglie” private e tutti gli amici che non c’entravano niente con il cinema. Nonostante l’incontro avvenuto durante una rassegna cinematografica, presentati da un regista, la nostra amicizia però non è stata una amicizia “cinematografica”: quello era il “nostro” lavoro e la nostra passione, ma l’amicizia si sviluppò sulla vita reale, su vacanze, amicizie in comune, viaggi, chiacchiere, confidenze di pene d’amore, aiuti reciproci (anche economici) insomma su tutte quelle cose che formano l’amicizia di tutti, più o meno. Tanto è vero che quando Ferzan decise di fare il gran passo dall’aiuto regia alla regia e mi chiese di scrivere insieme a lui “Il Bagno Turco” io mi rifiutai. Proprio perché eravamo amici al di fuori del cinema, avevo paura che un eventuale insuccesso del suo tentativo avrebbe potuto minare il nostro rapporto. Però gli fui molto vicino, dandogli consigli, seguendolo per telefono anche durante le riprese del film. Sono stato il primo, insieme a Tilde Corsi, a vedere a Cinecittà il primo montaggio del film, che mi piacque da subito. Ci mise cinque anni di tentativi per riuscire ad arrivare a farlo e poi una volta finito non riusciva nemmeno a trovare un distributore a cui piacesse. Fu un periodo nero per lui e io lo aiutai insieme a Tilde dandogli un lavoro per andare a fare una ricerca di location in Turchia per una serie televisiva sui Miti greci che poi però non si realizzò mai. Dopo il successo del suo primo film non ebbi più scupoli: Ferzan aveva già dimostrato di saper girare e quindi io ero libero di poter scegliere se scrivere per lui o no. Per questo decidemmo di continuare insieme e tutt’ora lo facciamo, anche se il lavoro (come in qualche modo prevedevo) ha attutito o modificato il rapporto di amicizia. Non so se in senso negativo o positivo, ma è un fatto che da quando lavoriamo insieme, piano piano abbiamo iniziato a frequentarci sempre di meno a livello privato. Ma è abbastanza normale. Già ci si vede così tanto per il lavoro che alla fine vedersi privatamente troppo significa un po’ anche portarsi i “compiti” a casa. Non abbiamo un modo “contiguo” di vedere il Cinema, non ci piacciono nemmeno sempre gli stessi film. Anche professionalmente siamo molto diversi. Lui parte sempre dalla Realtà per rintracciare quelle emozioni che poi vuol portare sullo schermo, io invece parto sempre dal Cinema. Lui è più realista, io più manierista. Quando scrivo i suoi film però cerco sempre di scrivere in funzione più del suo mondo che del mio. Lui non scrive, ma interviene pesantemente sulla sceneggiatura. E’ un perfetto “editor”: taglia, accorcia, corregge, precisa. Ferzan è un regista che mette al primo posto gli attori; io tendo come gusto a mettere al primo posto la “macchina da presa”. Queste differenze però sono un vantaggio e forse uno dei segreti del successo. Le reciproche differenze arricchiscono il film, che finisce per avere un doppio strato, il suo e il mio. E se io mi sento molto “autore” delle storie e di tutto quello che è scritto devo però essere molto sincero nel dire che la “regia” dei suoi film è tutta opera sua. Per quanto io sia sempre presente sul set dei suoi film, lo sono sempre solo ed esclusivamente come sceneggiatore. Anche sulla pagina non mi sono mai permesso di suggerire un movimento di macchina o una inquadratura, un taglio di montaggio o una ellissi. E nel dubbio tra due opinioni diverse su una scelta alla fine penso che sia giusto lasciare prevalere la sua, a meno che (ma è successo raramente) non sono fermamente convinto che sta sbagliando.
Chianese: Le Fate Ignoranti e La Finestra di Fronte sono due splendidi film, con trame significative e finalmente (cosa che scarseggiava nel cienma italiano dell’ultimo decennio) con un forte retaggio culturale e un messaggio umano…Come nascono queste due sceneggiature, come ha fatto l’alchimista Gianni Romoli a far ritrovare al nostro cinema il lato più umano, a farlo indagare nella diversità…
Romoli: E’ molto difficile rispondere dando per scontato che quello che ho fatto sia considerato così positivo. Posso soltanto accennare al mio metodo di base quando scrivo. Io generalmente ho tre regole fondamentali, che sono anche semplici regole di sopravvivenza: grande cura del soggetto; approccio “amatoriale” e non rigidamente professionale alla sceneggiatura; profonda conoscenza del regista che dirigerà il film. Lavoro molto sul soggetto, dall’idea iniziale fino alla stesura di un soggettone lungo, per vedere se la storia tiene, “frutta” e significa. Poi salto la fase della scaletta perché voglio arrivare abbastanza libero alla prima stesura. Se so già tutto perdo l’emozione e la voglia. Voglio illudermi che sia la sceneggiatura a portare me e non io lei: mentre scrivo mi devo sorprendere ed emozionare. Devo sbagliare perché spesso l’errore contiene l’azzardo e la novità. Ovviamente questo genera spesso un mostro obeso, anarchico, dilagante ma vivo e carico di sorprese. Si tratta poi di riscalettarlo, raffreddarlo, ridurlo, riconsegnarlo più razionalizzato. Quindi molte revisioni da “professionista”. Conoscere bene il regista e collaborare strettamente con lui — sia che scriva sia che non scriva — mi permette poi di mediare all’ origine il mio punto di vista con il suo, perché tanto poi alla fine è lui che, girando e montando il film, ha l’ultima parola. Quindi è più prudente iniziare da subito a fare il “suo” film, salvando il più possibile di se stessi ma diventando anche un po’ Zelig. La stessa storia scritta da me, ma per registi diversi, genererebbe sceneggiature diverse. Da questo metodo sono nati anche “Le Fate Ignoranti” e “La Finestra di Fronte”. Il fatto che questi film abbiamo portato in superficie il lato più umano e abbiamo indagato sulla diversità non dipende solo da me ma anche da Ozpetek e dalla natura stessa dei soggetti che avevamo deciso di raccontare. Forse il merito è nella scelta di partenza più che nel punto d’arrivo.
Chianese: C’è un tipo di film o un regista che attualmente non le piace proprio o non lo ispira?
Romoli: Non posso rispondere a questa domanda perché sono uno spettatore onnivoro e molto poco critico. Mi piace quasi tutto quello che vedo. Spesso anche in un film che non mi piace nel suo insieme trovo però sempre stimoli, inquadrature, gesti, situazioni, frasi, insomma dei dettagli che mi intrigano. Per questo difficilmente boccio totalmente qualcuno. I miei amici non mi chiedono nemmeno più un giudizio su un film perché ormai sanno benissimo che li salvo tutti. E io stesso preferisco andare al cinema da solo per non dovere a fine film sorbirmi i commenti e i giudizi. Mi abbandono al film, mi affido, mi lascio manipolare. Non sono di quelli che mentre vedono un film “giallo” cercano di indovinare l’assassino. Io i film li vedo in modo molto passivo e infantile, ancora ci entro dentro, li “abito”. E mi piace qualsiasi genere, spesso ne vedo anche tre al giorno e non faccio differenza tra film d’autore o d’attore o di serie. Possono piacermi nello stesso modo (ma per ragioni completamente diverse) un film di Kiarostami o di Aldo Giovanni & Giacomo o di Van Damme. Non ho pregiudizi, limiti, costrizioni. Quindi sono inattendibile nei giudizi e poco razionale. Ma mi diverto molto al cinema. E’ quasi ogni volta una esperienza erotica. Sono un “voyer” totale.
Chianese: Perchè alla critica è piaciuto, secondo lei, più la storia d’amore e di diversità de “La Finestra di Fronte” che il messaggio popolar mediatico di “Ricordati di Me” di Muccino? Erano due film, che seppur sviluppati diversamente, si concentravano attorno alla famiglia… Quanto è importante ed è consistente per lei la famiglia?
Romoli: Se mi ricordo bene – e mi ricordo – il film di Muccino ha avuto critiche ottime, migliori delle nostre, e una partenza sfolgorante. “La Finestra di Fronte” ha avuto critiche buone e sui tempi lunghi è piaciuto molto di più al pubblico del film di Muccino. Ma Gabriele partiva svantaggiato perché aveva alle spalle quel successo mastodontico che era stato “L’ Ultimo Bacio” e quindi tutti si aspettavano da lui che lo superasse. Cosa molto difficile anche perché “Ricordati di Me” aveva il torto di assomigliargli troppo come struttura e di avere un messaggio di fondo molto cupo e poco consolatorio. La “famiglia” di Muccino ne usciva fatta letteralmente a pezzi. “Le Fate Ignoranti” era stato un grande successo inaspettato e recuperato a posteriori dalla critica, che all’inizio lo aveva trattato abbastanza male. Quindi “La Finestra di Fronte” aveva meno pesi sulle spalle e un amore per i suoi personaggi che permettevano in qualche modo di far passare un finale in fondo triste per un “happy end”, insomma come una iniezione di speranza per lo spettatore. E poi era un film molto diverso come tono e struttura dal suo precedente. La famiglia di Ozpetek è poi sempre una famiglia per “scelta”, e la scelta è sempre determinata dall’amore. Quando Giovanna decide di non seguire Lorenzo non è per tornare dalla famiglia, ma perché ha capito che il disagio che provava era dentro di lei, non nel mondo che la circondava, era nelle scelte rinunciatarie che aveva fatto. La forza di Giovanna è quella di scegliere di cambiare, senza rinunciare a quello che fino a quel momento si era costruita. Non era un dilemma su chi scegliere tra marito e amante. L’uomo della finestra di fronte non è reale, è una proiezione delle sue frustrazioni. Giovanna cambia la sua vita decidendo di licenziarsi e di ricominciare da capo con un lavoro che le piace. Se avesse scelto di seguire Lorenzo a Ischia avrebbe solo di nuovo affidato alla vita di qualcun altro la soluzione della propria. Sarebbe stato un “falso movimento”. Identificandomi con i personaggi che scrivo se ne può dedurre che la famiglia per me sono tutti coloro con cui di giorno in giorno decido di nuovo di continuare la mia vita. Non c’entrano né il sangue né le istituzioni.
Chianese: Nei progetti di produzione con Tilde Corsi c’è qualche regista italiano da finanziare e far esprimere?
Romoli: Quest’anno per la prima volta abbiamo prodotto due opere prime: “Vieni Via con Me” di Carlo Ventura e “Contronatura” di Alessandro Tofanelli. E anche un’opera seconda: “Vento di Terra” di Vincenzo Marra, perché ci era piaciuto molto il suo film di esordio “Tornando a Casa”. E’ stato molto difficile trovare i soldi (pochi) per questi film, perché nessuno dà credito a dei debuttanti o a qualcuno che pur avendo fatto un bel film non ha incassato bene al botteghino. Per il momento quindi vogliamo riposarci e abbiamo dato uno stop a tutti i progetti che ci propongono e soprattutto alle opere prime. Anche perché stiamo iniziando la scrittura e la preparazione del prossimo film di Ozpetek che si intitolerà “Cuore Sacro”. Inoltre abbiamo comprato i diritti di remake di un grande classico italiano: “La Corona di Ferro” di Alessandro Blasetti e io mi sto occupando anche di quello. Sullo sfondo rimane sempre in attesa il mio “Demone Meridiano”. Non so quando e se vedrà la luce. Spero che nel frattempo non sia lui a stancarsi e ad abbandonarmi. Ma dai demoni posso aspettarmi questo ed altro.