di Carlo Lucarelli
Gli scontri di Genova, la scuola di Letizia Moratti, il dramma iracheno.
Così il nuovo libro di Nicoletta Vallorani mescola mistero e attualità. E,
parola di esperto, dimostra che esiste una politica del thriller.
Mi ricordo alcuni dibattiti, più o meno recenti, sulla capacità degli
scrittori italiani di raccontare la realtà e sulla funzione della letteratura noir, accusata di essere, suo malgrado, addirittura reazionaria.
Le problematiche sociali e le tematiche politiche, anche se «di sinistra»,
finirebbero per nascondere una visione oggettivamente conservatrice,
trasformando gli autori di noir in utili idioti. E i «fatti», gli spunti
della realtà, entrerebbero nei romanzi come espedienti. Vedi per esempio il
G8 di Genova: ne hanno raccontato in tanti, in gran parte autori di noir, ma
nessuno è riuscito a inventarsi una «lingua di Genova». Sono sempre i soliti
dibattiti, un po’ surreali come lo sono sempre i dibattiti letterari, e
sicuramente serviranno a qualcosa. Al di là dei dibattiti, però, ci sono i
romanzi a dimostrare se si possa o no parlare di oggi in modo adeguato e
soprattutto se ci sia qualcuno che lo faccia.
Visto dal cielo (Einaudi, Stile libero, 15 euro), di Nicoletta Vallorani, è uno di
quelli che dimostra che si può e che c’è qualcuno che lo fa.
Non è un romanzo su Genova e sul G8. È un thriller che racconta delle
indagini di un gruppo di investigatori improvvisati, tra i più eccentrici
mai visti nella storia del noir, che indaga sulla morte di alcuni ragazzi
brutalmente uccisi durante una serie di occupazioni studentesche di licei
milanesi. È un thriller «metafisico», in cui le soluzioni si «sognano», dove
partecipano alla storia direttamente i «fantasmi» e la cui soluzione non è
esattamente quella che ci si aspetterebbe in un giallo classico. Non è un
romanzo su Genova e sul G8, ma dentro c’è anche quello, come ci sono tante
altre cose, secondo quel bel modo di fare che hanno i romanzi noir che
quando sono belli e sinceri raccontano sempre e comunque di un sacco di
cose.
La storia, l’ossatura della narrazione, è quella di un thriller: chi ha
ucciso Nicolas Gutierrez detto Guts, atletico e irriverente studente del
«Libero istituto per le arti e i mestieri Totò, Massimo Troisi e Rintintin»,
lo ha massacrato scientificamente a colpi di spranga e poi gli ha dato fuoco
nella palestra della scuola? A cui si aggiunge: chi ha ridotto in coma un
altro paio di ragazzi, spedito su una sedia a rotelle un’altra, massacrato e
arrostito un altro ancora, sparato a una ragazzina e mandato all’ospedale un
altro personaggio di cui non si può dire niente perché per quanto metafisico
sia si tratta sempre comunque di un noir?
Lo stile è quello di un thriller di Nicoletta Vallorani. Chi ha già letto i
suoi romanzi, soprattutto La fidanzata di Zorro, Dentro la notte e ciao, ma
anche Eva o Le sorelle sciacallo, conosce le sue comunità coloratissime e al
limite del surreale di emarginati, barboni, disadattati ed extracomunitari,
sia in senso giuridico che psicologico. Questi scorci vivacissimi e
anarchicamente mediterranei che Nicoletta trova a Milano, nel cuore della
Milano fredda della nebbia, dei soldi e della Lega, trasferendo al quartiere
Pasteur un po’ della Marsiglia di Jean-Claude Izzo o della Belleville di
Daniel Pennac, ma in un modo tutto suo. Con un ritmo di scrittura che
ricorda la musica di Manu Chao e degli Zebda. Con personaggi che tornano,
come Zoe, la netturbina sovrappeso, che parla con i fantasmi, cura le crisi
di solitudine a colpi di barattoli di Nutella e si infila sempre in un guaio
da cui deve uscire in qualche modo scoprendo chi sta dietro a tutto quello
che succede. Come l’avvocato Mossàd, con la sua clientela di extracomunitari
in tutti i sensi, e Soft, il suo assistente ex coordinatore di spacciatori
al Parco Lambo, che sarebbero sicuramente piaciuti moltissimo al Pepe
Carvalho di Manuel Vasquez Montalban. Come Agata, la quattordicenne strabica
e coperta di piercing che vive sui roller e che Zoe ha ereditato da un amore
sfortunato insieme con una banda di geniali e appassionanti «caratteriali»
da terapia di sostegno, tra cui il povero Guts, già defunto e fumante nelle
prime righe del libro.
Al di là di questo, però, Visto dal cielo è soprattutto un romanzo sulla
pubblica Istruzione. Nicoletta è un’insegnante, fa parte di quell’esercito
di titolari, precari, assistenti, aggiunti e di sostegno che tutti i giorni
combattono una battaglia di prima linea sulle cattedre, impegnati a
resistere a «tempeste e riforme», insomma, è una prof e certi problemi li
conosce bene. Il romanzo ruota intorno a una scuola ed è anche di questo che
parla, di istruzione, di un ministro che non ha nome ma assomiglia molto
alla signora Moratti, di una concezione della scuola che si riassume in
poche agghiaccianti parole: «Ognuno ha la scuola che si merita», un modo
spietatamente efficace di chiudere in fretta il problema.
È lì dentro che si muovono i personaggi e quindi è di questo che il romanzo
parla, con le porte scassate delle aule, le palestre fatiscenti, gli
studenti, gli insegnanti, le frasi del ministro, i compiti a casa, tutto
questo a fare da personaggio secondario che ruota intorno a Zoe, Agata e i
suoi a caccia degli assassini di Guts.
E siccome a parlare nel romanzo sono ragazzi e persone di oggi, con certe
idee e certa sensibilità, e siccome quello che è avvenuto al «Prendilo Rex»,
secondo nome del Libero istituto eccetera eccetera, ha un modus operandi che
ricorda la scuola Diaz di Genova e la caserma di Bolzaneto, ecco che anche
di quello si parla, con i fantasmi del G8 che arrivano, in forma fisica (o
meglio metafisica), con le metafore che lo richiamano, con le riflessioni
che proprio là vanno a finire. E non solo, Zoe è una persona che vive oggi,
con certe idee e certa sensibilità, e allora ecco che arrivano anche i
fantasmi di Bassora, di Kerbala e di Najaf, che l’eco delle frasi del
romanzo va a risuonare laggiù e torna indietro concretamente presente. Così
che Visto dal cielo, mentre racconta di una strana indagine criminale quasi
metafisica finisce per raccontare la realtà che ci circonda, per quanto
lontana possa sembrare.
Non sarà la nuova «lingua di Genova», che potranno costruire in futuro solo
quelli che erano «i ragazzi di Genova», ma è la dimostrazione di quello che
il romanzo può fare e quando vuole fa. Anche in Italia.