di Giuseppe Genna
Chiude The Face e per me è una gioia. La rivista templare della cultura fighetta anni Ottanta e Novanta nun ja fa più. Godo: non sbaraccano soltanto i portali, iniziano a smantellare anche i miti giornalistici cazzuti ma che parevano solidi, luccicanti, remunerativi, inutilmente idolatrati. Nel dare il ferale annuncio, il Corriere ricorda il massimo scoop del trend più trendy nel giornalismo idiota di questo ventennio: The Face lanciò la Moss a soli quindici anni. Non che mi illuda: altri scopriranno e proietteranno nell’empireo delle Stronzate nuove Kate Moss, come certifica lo stesso “prestigioso quotidiano di via Solferino”, immolandosi in una celebrazione a tutta pagina del culto di Costantino, la star tarra prelevata a venti metri da casa mia, in via Tommei 3 nel quartiere milanese di Calvairate, e diventata un supposto culto e la supposta mediale per l’ano e per la cervice di mezza Italia.
Ma non è questione di costume: è invece questione di nemesi, arcaica figurazione mitica che non passa mai di moda, come invece passano di moda le cazzate occidentali che pensano di creare mode. Il crollo della cultura fighetta è un segnale importante e rientra in quella che, grazie alla dissennata teoresi di Igino Domanin (in Forget domani!), fu definita “tragedia lounge”. Ovvero: sotto la superficie contraddittoria e iridescente dei residui spettacolari, cova lo spettro, l’ombra, il dràn pàzein, l’allucinazione funebre più reale che si immagini.
The Face era la bibbia del cosiddetto pop planetario. Falso, poiché la cultura popolare (cioè l’autentico pop) nulla aveva a che spartire con la melma hollywoodiana di un patinato che sembrava uscito dalla perversa (in quanto omologata) fantasia di Oliviero Toscani. Piuttosto, la cultura popolare era il terreno di conquista che The Face si riprometteva di colonizzare, dopo strategica invasione. Non che fosse colpa dell’editore e dei direttori e dei redattori e dei collaboratori tutti di The Face (è anche colpa loro, perché si devono comunque additare i responsabili di una guerra, siano essi generali o fanti). La colpa non è una colpa semplicemente umana, ma una colpa ambigua: è la Macchina, il disumano procedere e stritolare a cui sono votati meccanismi di mercato (una delle molte facce della Bestia disumana), a predisporre l’ultimo conflitto.
L’ultimo conflitto lanciato contro l’umano è l’abbattimento della radice popolare della cultura. La cultura di massa è cosa diversa dalla cultura popolare: è una banalità francofortese che non vale qui la pena di stare a rimotivare. La cultura popolare crea miti e stabilisce tradizioni che, al contrario dell’idea reazionaria di tradizione, sono gioiosamente variabili e non consentono comunque prese di potere da parte di alcunchì. La distorsione del popolare, che fa largo uso della retorica di affabulazione che nasce proprio dalla fabula e si travasa nella letteratura, è fiction di potere che sostituisce la massa al popolo. Un popolo non è un’entità stabile, non è nazionalismo condensato in corpi, non è rigore, non è verificabilità empirica secondo categorie di laboratorio: è, piuttosto, transito collettivo. La metafora finale del popolo è quella della comunità ebraica che attraversa il mare, spalancato grazie all’atto magico, sciamanico e irresponsabile. Quest’atto sciamanico non viene compiuto dal capopopolo istituzionalizzato: non è il politico a separare le acque. E’ piuttosto chi rifà la Genesi a operare lo spalancamento impossibile del mare: è, cioè, chi crea le storie colui che fa la storia. E così come la massa è la maligna parodia del popolo, l’eiezione di storie del cazzo è la maligna parodia della creazione di storie. The Face è l’emblema di questa eiezione di storie del cazzo.
Sarebbe come pretendere che Lina Sotis fosse l’Omero italiano – tentazione che, evidentemente, si affaccia con prepotenza – e del tutto coerentemente con la logica del regime che soggioga masse – quando Panorama nomina in copertina Oriana Eriberta Fallaci “la più grande scrittrice italiana”. Ci sarebbe da ragionare anche sullo specifico italiano che emerge in questo rozzo tentativo (non perseguito strategicamente, ma emergente per meccanicità) di emulare la produzione di supposte mitologie spettacolari (un ossimoro assoluto, un’impossibilità assoluta) di The Face o Première. La spettacolarità italiana è meno effervescente e luccicona di quella anglosassone – e per questo motivo è più vantaggiosamente analizzabile. L’Italia è lo specifico di un’avanguardia tremenda, che attacca la fantasia popolare e la capacità di creare storie popolari con una pervicacia impressionante, se si considera la prosaicità delle armi con cui affronta l’impresa: valga emblematicamente la storia di Costantino, tarro di Calvairate incensato dalla scimmiesca androgina pronuba di Costanzo. In questa materia povera è osservabile, con una profondità impensabile in America, il modello di colonizzazione mentale che il regime opera sulle masse e che le masse non faticano ad accettare.
Poi, però, interviene la nemesi. Crollano i profitti. E’ il mercato stesso a troncare le afferenze finzionali di The Face e della cultura fighetta. Perché?
La risposta è interessante ed è letteraria e politica al tempo stesso. E’ questa, la risposta: The Face crolla proprio perché la fiction non è mito, non è storia popolare, non è rovesciamento dell’esistente. Sembra astratta, ma è verificata con scientifica sempiternità dalla storia umana, questa risposta. Avviene che la fiction satura. La finzione stanca. La suspence irradiata dalla parodia della storia popolare viene prevista masticata e poi sputata da quelle che si credono masse e che invece restano umanità. La differenza specifica tra fiction di potere e mito popolare sta proprio in questo elemento: si tratta della rimessa in circuito di desideri, ossessioni, trascendimenti – cosa che struttura la lingua stessa del mito ed è la storia popolare, mentre costituisce la manque della finta cultura popolare. La versione transgenica della narrazione raccontata al di fuori del mito è disumana proprio in questo: la coralità non vi si esprime, non si autopercepisce nel circolo del desiderio infinito. La coralità è una subitaneità per coappartenenza: scatta il riconoscimento immediato in una struttura di storia e, esattamente nell’istante in cui scatta questo riconoscimento, l’azione collettiva muta. Un errore elementare, compiuto da un’ideologia narrativa che pensa che sotto l’umano, al massimo, gravi l’ambigua potenza dell’inconscio. Invece la coralità è più dell’inconscio, poiché è essa stessa energia psichica, in perenne e mobile ricerca di forme. Le quali forme possono mutare, mentre rimane sempre la medesima la consapevolezza che l’energia psichica esercita su se stessa. Se non è verace e autentica, la forma assunta dall’energia psichica non è consapevole. Potrà risultare mutagena e irregimentabile per un breve periodo di tempo, ma alla fine segnerà il passo al mito collettivo, l’unica autentica forma di energia psichica che sente se stessa.
E’ questa la tragedia lounge, la tragedia dello spettacolo. E’ la cifra di un teorema: sotto ogni imposizione spettacolare, un cadavere. La tragedia lounge prescrive un destino: fine dello spettacolo – se lo spettacolo sorge, è certo che tramonta. Il retroverso della tragedia lounge è la narrazione epica: se sorge un’epica, essa non tramonterà mai, finché ci sarà un’energia psichica capace di sentirsi e di esprimersi. La tragedia lounge è una norma che richiede all’umanità una pazienza cinese, nell’attesa che il cadavere del nemico scorra sulle acque che stiamo per separare e che lui, il cadavere, quando sembrava vivo, non è mai stato in grado di separare.