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In occasione della riedizione del romanzo di Cesare Battisti L’ultimo sparo (ed. Derive / Approdi, 2004, pp. 160, € 13, 00) proponiamo la splendida recensione scritta da Emanuele Trevi per la rivista Liberal di Ferdinando Adornato (5/11/98). Data l’autorità del recensore, fa giustizia dei balbettii di coloro che, pur di associarsi alla canea dei lapidatori di Battisti, hanno irriso persino alle sue qualità evidenti di scrittore.

GLI ANNI ’70 COME UN NOIR

di Emanuele Trevi

All’inizio, c’è una macchina rubata, carica di rapinatori in fuga, che si rivela presto un catorcio inadeguato alle spinose contingenze. Mentre il pistone inizia a picchiare contro la testata, appaiono puntuali, sulla strada di provincia dove si svolge l’azione, le luci di una sirena.

Nell’eterna battaglia (non priva di certi elementi di antica lealtà) fra la «sbirraglia» e i ladri, questa volta, per i secondi, si sta mettendo male. Circondati da distese di campi seminati, che non offrono nessun riparo («nemmeno un albero per far pisciare un cane»), minacciati per giunta dal rombo di un elicottero, ai balordi non rimane che la resa e la prospettiva di lunghi anni in prigione. Oppure il colpo di genio, che come nei film, in certi film americani, lascerà i tutori dell’ordine a stringere il loro pugno di mosche. Se c’è una cosa che davvero affratella i proletari di Marx ai delinquenti sfigati in rotta, è la necessità, per cavarsela, di non aver più nulla da perdere.
Leggendo il riuscitissimo inizio del L’ultimo sparo di Cesare Battisti (DeriveApprodi), si rimane piacevolmente sorpresi, riconoscendo le antiche virtù narrative del discorso orale. E c’è una specie di fiducia profonda che può benissimo convivere con il sospetto che l’autore del racconto, almeno in parte, stia caricando le tìnte. Che è ben diverso dal millantare. Scrivendo un libro decisamente autobiografico, Battisti non ha voluto rinunciare alla tecnica prediletta del romanzo noir, a quell’onesto artigianato delle passioni forti e del fiato sospeso molto apprezzata in Francia, dove i suoi titoli, circa una decina, sono ben noti agli amanti del genere. Basti pensare che Battisti è annoverato addirittura fra gli autori della leggendaria, elegantissima «série noire» di Gallimard, un vero e proprio Olimpo del delitto. Non a caso, questa edizione de L’ultimo sparo è preceduta da un’introduzione, molto intelligente e partecipe, di Valerio Evangelisti, ottimo scrittore «di genere» anche lui, figura di primo piano della fantascienza italiana.
A spingere Battisti a dedicarsi al noir, qualche anno fa, è stato d’altra parte Paco Ignacio Taibo II, il biografo del Che, incuriosito da quel bizzarro italiano, riparato in Messico all’inizio degli anni Ottanta con un ergastolo e una clamorosa evasione alle spalle. Qualcosa della sua biografia, saccheggiata con un po’ di vampirismo, è rimasto in un libro notevole di Pino Cacucci, Puerto Escondido, e da lì è rotolato, ormai irriconoscibile, nel film di Gabriele Salvatores. Indubbiamente più realistiche, e documentate, sono le centinaia di pagine di atti processuali collezionate da Battisti, come delinquente comune e soprattutto come militante di una banda armata, i «Proletari armati per il comunismo», di cui molto ci parla lui stesso in questo L’ultimo sparo.
Ce ne parla evitando di sprecare gli aggettivi, affidandosi più che altro al filo degli eventi, evidentemente giudicato di per sé ricco di senso, anche senza caricarlo di tutti quei commenti (a metà fra ideologia e psicologia) che imperversano abitualmente nella letteratura degli scampati alle tempeste dei nostri anni Settanta. Un terreno minato, non c’è bisogno di dirlo. Non solo perché il metabolismo della memoria comune è ben diverso da quello dei ricordi individuali, ed è terribilmente difficile colmare con onestà il crepaccio che separa i nudi fatti dal loro significato, l’esperienza dalla sua interpretazione. Non basta infatti fare appello a questa difficoltà, pur reale, per rendere conto dell’insoddisfazione puntualmente generata da ogni libro o film scaturito dal pozzo oscuro di quegli anni, di quei fatti. Di sicuro non ha giovato alla coscienza storica quell’idea malsana di far ruotare tutta l’intricata materia su due perni moralistici, pentimento e perdono, presi a prestito con ipocrisia e pigrizia dal catechismo. Se le categorie d’interpretazione che circolano in una società sono così lise e inaffidabili, non c’è da stupirsi di un’altra povertà, strettamente collegata alla prima, relativa ai mezzi della rappresentazione, alle tecniche narrative, al linguaggio adoperato.
Così ricchi di crudeltà, di solitudini, di scelte repentine e decisive, gli anni di piombo sono rimasti essenzialmente anni privi di forma, in Italia come in Germania. Per molto tempo, inoltre, ci è stato ripetuto che, in presenza di morti ammazzati, i problemi estetici non hanno diritto di cittadinanza. Come se non fosse vero che quei rarissimi libri che ci hanno aiutato a comprendere qualcosa, dall’Affaire Moro di Sciascia ad Alonso e i visionari della Ortese, sono opere animate da una passione per la verità che non può andare mai disgiunta da un perfetto esercizio dello stile, da quella profondità dello sguardo che è il privilegio, spesso ingombrante e doloroso, della grande letteratura.
Imboccando un sentiero meno ambizioso, anche Battisti sembra essersi mosso nella direzione giusta, dislocando finalmente il problema, ineludibile, del giudizio storico sul terreno della tecnica narrativa anziché su quello, del tutto astratto, del tardivo commento ai fatti. Forte del repertorio di espedienti accumulato nella pratica del romanzo poliziesco, Battisti ha puntato su quel particolare tipo di verità che si nasconde sempre nell’artifìcio narrativo. Il discorso della memoria tende a gremirsi di gesti, di volti, di situazioni impreviste, rinunciando volentieri a quella «logica degli eventi» che non riesce mai a sovrapporsi senza mistificazione alla brutale casualità delle esperienze.
Più che un noir, in fondo, L’ultimo sparo è un libro picaresco, nel quale l’errore e il fallimento attendono al varco ogni progetto, e anche la salvezza individuale sembra giungere all’improvviso, come la pallottola di un nemico, né meritata né compresa nel suo valore. Quello che preme a Battisti, è rappresentare gli effetti della trasformazione dell’esistenza in una specie di fuga perpetua, nella quale non è più possibile diminuire la velocità, pena la morte o la galera. Con geniale e veritiera inversione delle cause e degli effetti, non è più la lotta armata, però, a generare la necessità della fuga, ma esattamente il contrario. È fuggendo che il protagonista del libro incontra i suoi compagni, che non gli offrono tanto un programma politico, quanto un provvisorio rifugio, e la nuova linfa di una solidarietà per buona parte materiale: letti dove è possibile dormire qualche ora, appartamenti sicuri, soldi per il treno. Ed è fuggendo che quell’incubo, finalmente, potrà arrivare alla sua fine. Consegnando ai suoi lettori il nudo resoconto di quella corsa, Battisti ha voluto trasmettere a loro integralmente, senza affliggerli con i suoi suggerimenti, la possibilità di un giudizio. È questa, in fondo, l’unica virtù civile che uno scrittore non dovrebbe mai stancarsi di esercitare.