di Valerio Evangelisti
Urania Collezione, nel suo n. 15 attualmente in edicola, propone un altro testo importante della fantascienza: Venere sulla conchiglia, di Philip J. Farmer. Riportiamo l’introduzione di Valerio Evangelisti (e segnaliamo, in appendice, un brillante profilo di Farmer scritto da Riccardo Valla).
Verrebbe da chiamare Venere sulla conchiglia un “capolavoro”, come è stato più volte ripetuto in passato. In effetti lo è, ma bisogna precisare “della fantascienza”. Il suo peso, nella letteratura generale, è scarso o nullo. E’ invece decisivo all’interno del genere in cui si colloca.
Perché questa precisazione? Per arrivare a dire che Kurt Vonnegut non ebbe poi tutti i torti, quando pretese e ottenne che lo pseudonimo con cui Philip José Farmer aveva firmato il romanzo — “Kilgore Trout” — fosse rimosso dalla copertina.
Kilgore Trout era l’indimenticabile protagonista de La colazione dei campioni e di Cronosisma, apparso per la prima volta in Perle ai porci e poi ricomparso in altri romanzi di Vonnegut quale personaggio di contorno. Quando Venere sulla conchiglia fu pubblicato, nel 1975, vi fu chi pensò che l’autore fosse Vonnegut stesso. Invece questi, per sua mezza ammissione, aveva vagamente ispirato il suo Trout a Theodore Sturgeon. Uno scrittore che Vonnegut apprezzava, e che di Farmer era quasi un’antitesi.
Vonnegut invece sbagliava nell’attribuire l’appropriazione indebita a ragioni puramente alimentari. Con Venere sulla conchiglia, Farmer continuava un discorso iniziato ben 23 anni prima: quando il suo primo racconto, Gli amanti, aveva scosso il mondo puritano della fantascienza statunitense alludendo a rapporti sessuali tra un terrestre e un’aliena. L’effetto era stato lo stesso prodotto dall’ingresso, ne Il giro del mondo in 80 giorni (il film, più che il libro), della donna indiana di Phileas Fogg nell’esclusivo club londinese da questi frequentato.
Anche Venere sulla conchiglia, alla sua uscita, provocò lo stesso trambusto. I commenti furono largamente positivi: finalmente un autore di fantascienza aveva il coraggio di parlare di sesso e di descrivere, addirittura, curiosissimi organi genitali. Fu un po’ una cartina di tornasole della distanza che separava la fs dalla “letteratura generale”. In fondo L’amante di Lady Chatterley, scritto nel 1928, era stato pubblicato in edizione integrale fin dal 1959 (non senza problemi); e già nel 1964 era uscito Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby jr., ultimo romanzo destinato a fare scandalo per la durezza e il realismo con cui trattava di sesso.
Venere sulla conchiglia, rispetto ai titoli citati, ci appare più innocuo di un messale. Il fatto è che, negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori del mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo ad esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo è il meno cauto. Così facendo, ne sia consapevole o meno, avvicina la fantascienza alla cultura che scorre fuori del cubicolo in cui è rinserrata.
E non si tratta solo del sesso. La religione, altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice “In verità vi dico…” poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. E che dire di certe invenzioni di tipo scatologico-pecoreccio, tipo le creature a forma di piramide che si muovono in cielo a furia di peti maleodoranti? Qui il pensiero corre a film a noi coevi, del genere Natale sul Nilo o Natale in India. Ma si pensi a un film come quelli proiettato in un convento, per di più a metà degli anni Settanta. L’effetto sarebbe stato forse lo stesso della diffusione de La rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich nel ’68. Con in più un elemento trash quanto mai moderno.
Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo. Che ci trascina in sarabande (la “sarabanda” è ciò che descrive meglio la sua narrativa, inclusi i celebri cicli de I fabbricanti di universi e de Il mondo del fiume) apparentemente insensate, in cui ci stupisce a ogni paragrafo con battute geniali e trovate che non rispettano alcun canone. Una specie di diavoletto bizzarro, mosso solo dalla propria fantasia scatenata. Tutto il contrario di Theodore Sturgeon, è vero, senza però che ciò implichi diminuzione. Anzi.
In sostanza, Farmer riprende lo stile paradossale e ironico che era stato proprio di Robert Sheckley e della fantascienza sociologica, senza però avere alcuna sociologia da proporre. Il paragone che viene in mente, sotto un profilo cinematografico, è quello con Quentin Tarantino. Che cosa ci dicono i film di Tarantino? E’ presto detto: niente. Innovano, rispetto al linguaggio cinematografico? Sì, decisamente. Sono capolavori? In questo secondo senso, sì.
Ecco, per Farmer è grosso modo la stessa cosa. E Venere sulla conchiglia è la Pulp Fiction della fantascienza. A suo modo, un capolavoro.