di Bruno Cartosio
da Primo Maggio n. 26, inverno 1986-87 (estratti dall’articolo: Il peso dell’emergenza. Il sistema dei partiti e il ’77)
Ci sembra in sostanza che [dopo il ’77] sia stata modificata la concezione stessa della democrazia italiana. Il dato, in realtà, è più generale, teorizzato prima, in anni in cui i movimenti lo rendevano difficilmente fattibile, e attuato poi, in modi diversi, dai diversi paesi occidentali, dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti e all’Italia.
L’Italia ha però una sua peculiarità, legata sia alla storia di questi anni, sia a quella degli ultimi quarant’anni. I connotati di classe che hanno fatto da fondamento alle intelaiature partitiche hanno anche portato a una struttura socio-politica unica. E questo rende ancora più evidente il salto qualitativo recente e l’allineamento dell’Italia all’idea stessa che la democrazia debba essere repressiva o autoritaria.
Non che democrazia sia o sia mai stata governo di tutto il popolo: lo è stato solo di quelle componenti dotate di diritti politici, e anche qui con dei limiti. Le donne, per esempio, sono diventate formalmente soggetto della democrazia italiana quando hanno cominciato a votare, dopo il fascismo, ma da un punto di vista giuridico e sostanziale sappiamo quanta acqua è dovuta ancora passare sotto i ponti prima che le donne diventassero veramente soggetto democratico con pari diritti. Un altro esempio: prendiamo le altre «democrazie occidentali», piene come sono di senza-diritti. Dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, questi stati sono la dimostrazione di quanto sia piccolo il «popolo» che partecipa alla vita politica, alla gestione della cosa publica. Non si tratta solo delle basse percentuali relative alla partecipazione elettorale; si tratta anche proprio di diritti materiali, civili; di disuguaglianze giuridiche. Ci sono in tutte queste società delle zone molto estese di popolazione con minori o senza diritti.
Finché queste sono state le parti sociali sottomesse degli ordinamenti democratici, le leggi e le regole esistenti erano sostanzialmente sufficienti a controllarle. Quando invece sono iniziate in tutte le democrazie le rivendicazioni di queste e altre parti della società, le democrazie hanno dovuto dotarsi di una strumentazione nuova e di teorie conseguenti. In Italia, dove la fascia dei senza diritti di diversa provenienza etnica o razziale non esisteva, il problema del controllo si è posto soltanto quando l’insubordinazione sociale ha raggiunto dimensioni di massa fuori dei canali istituzionali esistenti, cioè a partire dalla fine degli anni Sessanta. Ma anche qui come altrove finché il movimento è stato forte la svolta repressiva non è stata possibile. Perché lo diventasse hanno dovuto verificarsi delle precondizioni essenziali. La prima è stata la crisi dei movimenti, la seconda la convergenza di tutti i partiti sui nuovi obiettivi istituzionali. La crisi è venuta alla metà degli anni Settanta, sia per le debolezze interne del movimento stesso, dei gruppi che a loro volta avevano cercato di porsi come unica ossatura del movimento, sia per la ripresa d’iniziativa, per la reazione del sistema partitico-sindacale, sia perché lo stato aveva ormai messo in campo tutti i propri apparati repressivi, sia per la ripresa d’iniziativa del capitale nella crisi.
Ma nell’economia del discorso, qui, l’aspetto più importante è stato quello della convergenza dei partiti sui nuovi obiettivi. Quello che è cambiato nel nostro ordinamento giuridico e attorno ad esso non sarebbe potuto cambiare senza i successi elettorali e l’acquisizione di potere locale del PCI nel 1975-76, senza la svolta dell’EUR del sindacato, senza l’entrata del PCI nella maggioranza di governo del 1978, avvenuta nello stesso giorno in cui Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse.
Quando tutto l’arco dei partiti democratici è concorde sul programma di governo e sul rapporto con le istituzioni, allora le istituzioni si possono piegare alla nuova volontà. Non c’è stata «Costituente»; non ce n’era bisogno. Le diverse e convergenti aspirazioni dei partiti hanno trovato al proprio esterno, nell’offensiva di Brigate Rosse, Prima Linea, settantasettini e così via le ragioni per l’accordo. L’«emergenza», appunto. Ma è come per uno storico dire che la causa della prima guerra mondiale fu l’attentato di Sarajevo: l’occasione contingente non può mascherare le ragioni profonde. Nel caso italiano, le motivazioni della svolta dell’emergenza stanno nella trasformazione della società italiana nei dieci anni precedenti il 1977. Il rischio era «troppa» democrazia. Le forze sociali liberatesi andavano riportate all’ordine. Le occasioni per farlo furono fornite dalle azioni del partito armato.
Non si trattava solo del sistema dei partiti, anche la ristrutturazione in atto nelle fabbriche italiane, che nel corso di qualche anno avrebbe espulso dalle fabbriche migliaia di operai, andava protetta dalla possibilità di attacco da parte degli operai «incazzati», disponibili magari ai rapporti col partito armato. (In fondo, le prime azioni delle BR erano state mirate proprio a colpire dirigenti di fabbrica e suscitavano il consenso operaio).
L’interpretazione più probabile di quello che successe dopo il 1977-78 è che l’unità nazionale sull’emergenza – vale a dire la formalizzazione dello stato d’emergenza – sia stato un passo politico che, proprio perché presupponeva la delimitazione degli spazi di agibilità politica a sinistra, ha finito per avviare verso i percorsi oscuri del lottarmatismo migliaia di giovani e operai oppositori della convergenza di partiti e sindacati nella linea di governo. In altre parole, l’emergenza venne concepita non soltanto per sconfiggere le BR, ma per ricostruire la società italiana in termini tali per cui l’antagonismo politico non avesse più spazi; o peggio: in termini tali da lasciare come unica forma «possibile» di antagonismo quella clandestina e senza speranza della lotta armata. L’apparato repressivo e di controllo era giustificato dall’esistenza delle BR nello stesso momento in cui, insieme con quelle, anch’esso contribuiva a distruggere gli spazi di antagonismo o di dissenso sociale e politico che fino ad allora erano esistiti nella società italiana: la «troppa» democrazia in fabbrica e nella società dei primi anni Settanta. Ma la funzione vera dell’emergenza era quella di creare le condizioni sufficienti per prevenire in futuro il ricrearsi di spazi di contestazione cosi ampi come erano stati quelli che avevano permesso la crescita di un movimento grande, composito e innovativo come quello del periodo seguito al 1968-69 studentesco e operaio. Le radio libere furono l’ultima fioritura, nel ’76, di quella stagione. Ancora un anno o poco più e la loro nascita sarebbe stata impossibile.
La tragedia del movimento del ’77 fu che attraverso di esso si espresse proprio l’imprecisa percezione che gli spazi si stavano chiudendo. Il suo dibattersi provocatorio, il suo nichilismo, i contenuti di violenza in esso diffusi rispecchiavano insieme l’impotenza e l’urgenza di antagonizzare in extremis un sistema politico-istituzionale che si stava chiudendo su di sé a difesa di se stesso. Nel ’77 non ci fu «contestazione» e proposta per il futuro, ci fu invece la più limitata affermazione di un «diritto alla trasgressione» nei confronti delle nuove norme del conformismo sociale. Dal ’77 giovanile e autonomo – «autonomo», cioè sganciato, assoluto -sarebbe uscita sanzionata la separatezza da questa democrazia. (Ma una parte di quei giovani aveva cominciato a vivere nella emarginazione sociale delle periferìe urbane, negli hinterland metropolitani, nell’occupazione casuale o saltuaria, fuori dalle fabbriche…)
Al di là della provocazione «antiborghese», per i più si trattò di abbandono della politica. La diffusione della droga ebbe da allora progressione geometrica o quasi. Per una parte, la separatezza sociale finì per incanalarsi verso il suo «rovescio», la separatezza politica. Prese due strade: quella maggioritaria, cioè l’entrata nei partiti in quanto unico terreno lasciato aperto alla pratica politica, o quella minoritaria dell’entrata nel partito armato. Erano entrambe scelte che, in modo opposto, sancivano la fine dell’idea e della pratica «di movimento». Infine per una minoranza – spesso i meno giovani – resistette anche la convinzione che andasse difesa, mantenuta una qualche forma di militanza politico-culturale, nonostante i confini sempre più angusti in cui veniva circoscritta.
E quando il PCI alla fine abbandonò la linea della solidarietà nazionale per tornare all’opposizione, quello che doveva essere fatto era ormai stato fatto. Avendo del tutto abbandonato anche quei modelli di antagonismo di massa che erano stati tipici della stessa militanza comunista e operaia fino al ’68, il PCI continuò a non ammettere alcun coagulo d’iniziativa alla sua sinistra e non mise mai all’ordine del giorno il recupero della democrazia aperta, partecipata. Non lo fece perché era ormai fuori dei suoi obiettivi strategici. Ed era fuori dalle sue strategie perché il modello sociale e politico del PCI è un modello nel quale è stata delegittimata la possibilità stessa delle conflittualità che non possono o non vogliono essere canalizzate nell’ambito delle «rappresentanze» istituzionali date.
Il sistema dei partiti, messo in crisi dal ’68 e dopo il ’68, si è preso la rivincita sul ’68 – e sul ’77. Non solo, lo ha fatto nella situazione ideale di poterlo fare attribuendo ad altri, pochi, la responsabilità di quello che esso stava facendo per togliere la parola a molti. Per quanto la storia del partito armato sia ancora troppo viva e dolorosa e le cicatrici che ha lasciato siano ancora fresche, bisogna dire che forse quella storia non sarebbe stata com’è stata, dopo il ’77, senza le scelte politico-istituzionali dei partiti.
A ognuno le sue responsabilità, naturalmente, e ai lottarmatisti le loro. E tuttavia il ragionamento non finisce qui, perché in questa democrazia una funzione è stata ormai istituzionalmente assegnata alle componenti più estreme dell’antagonismo sociale e politico. Per ogni volta che qualcuno, magari anche uno dei padri dell’emergenza, come Cossiga, dirà: «Se dall’emergenza siamo usciti sul piano politico, culturale e civile, è logico che se ne esca anche sul piano legislativo», ci saranno sempre uno, due, tre brigatisti rossi che fanno, stanno per fare o stanno studiando un’azione. E subito i vecchi clamori e le vecchie generalizzazioni. E i grandi giornali delle grandi concentrazioni economico-politiche correranno a titolare in prima pagina «Tornano le BR». È la «voglia di BR» di cui diceva Paissan sul manifesto. Se negli anni dell’emergenza sono stati restaurati lo stato e il profitto, dall’emergenza non bisogna uscire più. Il brivido lungo la schiena come logica d’ordine e d’impresa.