di Alexandre Bilous e Dominique Manotti
da il manifesto del 19 marzo 2004
”E’ così francese questa storia”, scriveva La Stampa del 2 marzo scorso. Si riferiva all’atteggiamento assunto dagli intellettuali e dalla sinistra francese di fronte alla procedura d’estradizione intentata contro Cesare Battisti. Francesi un po’ fuori della realtà, ignari del contesto italiano dei cosiddetti anni di piombo, ecco quel che saremmo. Per fornire l’identikit degli intellettuali francesi, Barbara Spinelli riprende il concetto nello stesso giornale e poi nelle pagine di Le Monde. Il rancore riversato dalla maggioranza della stampa italiana sulle persone che in Francia si mobilitano per evitare l’estradizione di Battisti ci ha davvero stupito. Vorremmo qui rendervi partecipi del perché siamo così stupiti.
Siamo entrambi amici del gruppo il manifesto da oltre trent’anni, vicini nelle molte speranze, disillusioni e tragedie. Conosciamo meno dei lettori di questo giornale la situazione italiana, segnatamente gli «anni di piombo», ma ne sappiamo di più di quel che suppongono Spinelli e soci.
Prima di tutto, il nostro impegno in favore di Cesare Battisti non va contro l’Italia, il suo governo, il suo primo ministro o la sua giustizia. E’ prima di tutto una mobilitazione francese, franco-francese, diremmo. Come molti di coloro che si sono mobilitati per la liberazione di Battisti, temiamo che la sua estradizione porti un duro colpo alla continuità della tradizione repubblicana in Francia.
La forma attuale della repubblica francese è nata alla fine del diciannovesimo secolo con l’avvento della Terza repubblica ed è figlia di due grandi battaglie: per la laicità e per l’amnistia ai Comunardi. Se la prima è abbastanza conosciuta, la seconda ha dato luogo a un minor numero di lavori o di studi.
La questione dell’amnistia ai Comunardi è intrinsecamente legata alla costruzione della Repubblica, avvenuta tra il 1871 e il 1880. Dall’autunno del 1871, cioè nei mesi che seguono l’annientamento della Comune di Parigi (maggio 1871), la rivendicazione di un’amnistia per i condannati va di pari passo con la rivendicazione della fine dello stato di assedio, e per la costruzione di una Repubblica concepita come il solo regime capace di reintegrare i Comunardi nel tessuto sociale, di ricostituire un senso civico, di essere un modello di tolleranza per la democrazia. E’ stata una battaglia continua, che ha mobilitato folle di militanti. A ogni elezione, i repubblicani candidavano dei Comunardi. Una battaglia condotta anche da uomini di grande autorità morale come Louis Blanc o Victor Hugo. Quest’ultimo ne farà l’unico punto del suo programma elettorale e sarà eletto al Senato.
Dal 1871 al 1879, l’amnistia è al centro delle lotte repubblicane. Gli oppositori monarchici, bonapartisti, o i repubblicani estremamente moderati che sognano di essere loro alleati, si oppongono all’amnistia in nome della giustizia necessaria che deve fare il suo corso fino in fondo, della punizione esemplare, in ossequio alla giustizia militare che «ha operato con tanta intelligenza e cuore», in nome del rifiuto di amnistiare le condanne in contumacia (perché non hanno pagato) o i «detenuti comuni». Ora quasi tutti i Comunardi sono dei «detenuti comuni».
Nel 1879, mentre le Camere – che risiedono a Versailles dal 1871 – ritornano a Parigi, mentre viene istituita la festa nazionale del 14 luglio, Gambetta domanda e ottiene che l’Assemblea voti un’amnistia generale, «prima pietra dell’unità nazionale».
Questo riferimento alle origini non è certamente morto. Sorvoliamo sul dopoguerra del `39-45, un periodo complesso, per fermarci un momento sulla guerra d’Algeria, molto vicina a noi. Quando vengono firmati gli accordi di Evian, molte voci si levano per reclamare l’amnistia. Ricordiamo il contesto: si è allora molto vicini alla guerra civile, dopo un colpo di stato mancato di una parte dello Stato maggiore, e in piena ondata di attentati dell’Oas. Numerosi attentati, che non erano simulacri, hanno preso di mira la persona del generale e, cosa per lui più grave, la moglie. Prima di prospettare l’amnistia, il generale vuole averla vinta sull’Oas.
Dopo diverse misure parziali, l’amnistia generale è votata nel luglio 1968. Include tutti i francesi che hanno sostenuto l’Fln o combattuto nei suoi ranghi: per occuparsi delle nuove fratture che si sono aperte col maggio `68, è imperativo creare l’unità nazionale sul passato un po’ lontano della guerra d’Algeria (6 anni… senza commento). Una legge di amnistia per gli studenti coinvolti nelle manifestazioni violente è d’altronde già stata votata a partire dal 24 maggio `68, senza clamore.
Nessuno dubita che, quando è andato al potere, inserendo una legge di amnistia nel quadro di una più ampia politica di difesa e d’allargamento delle libertà, Mitterrand abbia cercato di porsi in questa tradizione. Soppressione dei tribunali militari, abolizione della pena di morte, e amnistia presidenziale abbastanza larga da includere, (contrariamente a ciò che è stato scritto in Italia – «i francesi sono pronti ad assolvere i “terroristi italiani” e non perdonano niente ai loro») i responsabili di Action Directe, arrestati a seguito di sparatorie e aggressioni a mano armata a dei poliziotti. Per molti, indubbiamente uno choc. Qualche anno più tardi, nel pieno degli anni 80, gli amnistiati di Action Directe tornano in clandestinità, e commettono diversi omicidi, in una solitudine quasi assoluta, senza alcun legame con un qualunque movimento di massa. Il loro fascicolo deve essere riaperto. E intanto, le loro condizioni di detenzione (giudicate inumane da Amnesty International) devono essere almeno decenti.
L’accoglienza offerta ai rifugiati italiani s’inscrive direttamente nella tradizione francese che abbiamo descritto: offrire una via d’uscita dall’azione violenta, una possibilità di reinserimento. Un’accoglienza che rileva anche di una concezione «repubblicana» della costruzione europea. E ha perfettamente funzionato. Non un solo rifugiato italiano ha tradito la fiducia e la parola data.
Allora, basta. E’ tempo di uscire dalla vendetta. E di fare un po’ di politica. E’ tempo di cominciare a porre le vere questioni, in cima alle quali noi mettiamo l’amnistia.
Per noi l’amnistia è una misura politica, non morale. E’ la ricerca di una forma di reintegrazione nel corpo sociale di quelli che sono stati allontanati.
«Le guerre civili non sono finite che quando si placano. La grande legge in politica, è dimenticare. Su una grande colpa, ci vuole un grande oblio», scriveva Victor Hugo (che non abbiamo mai confuso con Cesare Battisti). In questo l’amnistia si distingue dalla grazia, che non è oblio, ma una maniera di mantenere il «graziato» in una situazione di sottomissione, di inferiorità.
E l’amnistia non permette unicamente di «dimenticare». L’amnistia è anche un modo politico di passare dalla dimensione emotiva (elaborare il proprio lutto in modo viscerale, vendicarsi – anche in modo meno volgare di quel che auspica Luciano Violante – eccetera) a quella storica (cominciare un lavoro di riflessione su quel che si è prodotto, sulle cause, le diverse sfaccettature – economiche, sociali, politiche, geopolitiche, eccetera – di queste questioni).
L’amnistia è un modo di impegnarsi in un lavoro di ricostruzione storica, di cominciare a fare i conti col passato.
In quanto francesi, amici dell’Italia da lunga data, noi ci permettiamo di porvi una domanda: l’assenza di dibattito sull’amnistia nel vostro paese non è forse un modo di rifiutare di fare i conti politici con questo passato, in tutte le sue dimensioni: la strategia della tensione, il ruolo dei servizi segreti, della Cia, di Gladio, della Loggia P2, del caso Moro, del compromesso storico, degli «anni di piombo»?
Il fatto che 35 anni dopo la strage di Piazza Fontana non si sia ancora trovato il colpevole (vedi il giudizio della corte d’appello di Milano del 12 marzo scorso), non illustra forse, al di là delle difficoltà che hanno costellato il procedimento dal 1969, questa rinuncia collettiva a fare i conti politici con quel periodo? Mantenere vivo, 25 anni dopo, l’odio nei confronti dei militanti d’estrema sinistra che sono stati implicati nelle tempeste del periodo, siano essi in prigione o in esilio, non è un modo di mascherare questa rinuncia?