di Nanni Balestrini e Primo Moroni
(da L’orda doro, a cura di Sergio Bianchi, 1^ ed. SugarCo, 1988; 2^ ed., Feltrinelli, 1997)
Parlare di una involuzione autoritaria dello Stato italiano nel corso degli anni ’70, e vedervi una delle cause del sorgere di gruppi armati, pare diventata una bestemmia. Ne sa qualcosa Erri De Luca, che per avere affermato qualcosa di simile su Le Monde, si è visto sommergere da ironie e contumelie ad opera di quella trista caricatura di intellettuali che sono, oggi in Italia, gli editorialisti dei grandi quotidiani e i conduttori di talk-show televisivi. Rimediamo alla crassa ignoranza di costoro riproponendo un brano tratto da un libro che probabilmente non conoscono, abituati come sono a non leggere nulla.
La «strategia della tensione» era stata sconfitta da tre grandi componenti sociali e politiche: la conflittualità dell’autonomia di classe, la pratica militante, il radicalismo democratico. La posizione estrema e sintetica delle formazioni armate aveva storicamente prodotto «la forma-violenza organizzata in partito», ma questa componente era rimasta fino a tutto il 1976 sostanzialmente minoritaria (Bonisoli, uno dei protagonisti della fondazione delle BR, dirà che a quell’epoca i militanti non arrivavano a cento in tutta Italia) e proprio nell’emergere del «movimento ’77» si era trovata in gravi difficoltà progettuali: anche se il riferimento immaginario e politico alla tendenza armata si poteva leggere in modo diffuso, non era tale però da autorizzare un’unità di intenti tra progettualità armata e pratica della violenza diffusa.
Crisi dei «modelli organizzativi», radicalità del «bisogno di comunismo», ristrutturazione profonda e autoritaria del ciclo produttivo, ricomposizione della «forma stato» sono gli elementi dello scontro.
Confrontata con il periodo ’69-’73, la novità più rilevante del ’77 è data dal duro irrigidimento istituzionale, condiviso ora dalla quasi totalità delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Il progetto di ordine pubblico, che passerà alla storia come «legislazione di emergenza», ha rappresentato nel ’77 «la base dell’accordo fra i partiti dell’arco costituzionale ed è stato la condizione per la cooptazione del Pci nell’area “democratica” o di governo; per la prima volta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole a un massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costituzionali e si è impegnato in campagne ideo-logiche — ultima quella del “referendum” sulla legge Reale — dirette ad alimentare consenso popolare nei confronti del processo di restaurazione autoritaria» (L. Ferraioli, D. Zolo).
«Benché, come giustamente nota uno degli storici e dei testimoni più lucidi delle vicende istituzionali e degli apparati giudiziari italiani, una forte spinta all’inasprimento delle sanzioni penali sia già cominciata nel ’74-75, “il 1977 è l’anno chiave” (Romano Canosa). Tra l’altro viene posta una pesante ipoteca sugli avvocati che esercitano una difesa politica, consentendo di sospendere dall’esercizio della professione chi incorre in procedimenti penali a suo carico o chi viene colpito da mandato di cattura» (Sergio Bologna).
È anche il periodo in cui vengono autorizzate — e mai legiferate — le «carceri speciali», autentici lager destinati alla distruzione psicofisica dei detenuti, e viene estesa la possibilità di ricorrere all’uso delle armi per impedire le evasioni facendo intendere che se ci saranno altre «stragi di Alessandria» non dipenderà dall’iniziativa personale e forzata di qualche magistrato, ma sarà obbligo di legge. Non a caso l’incarico di dirigere questo settore viene affidato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che di quella «strage» era stato uno dei protagonisti.
In effetti, se la «strategia della tensione» era stata manovrata da settori dello Stato per «comunicare» al conflitto di classe il ricatto terroristico di una possibile involuzione reazionaria, la «legislazione di emergenza» è l’assunzione a livello istituzionale di una pratica sostanzialmente «illegale», involutiva, reazionaria, rivolta a condizionare e reprimere qualsiasi espressione organizzata o spontanea di ribellione sociale. Diverse sono le forme in cui si manifesta la risposta dell’avversario di classe ma identiche le finalità.
Nella percezione comune di migliaia di militanti — ma anche di settori democratici — lo Stato nel coprire (tollerare od organizzare) le trame della «politica delle stragi» era stato delegittimato del monopolio esclusivo dell’uso della violenza, e d’altronde questo supposto privilegio «democratico» è tra i più ambigui e contraddittori. Norberto Bobbio (uno dei padri della Costituzione) nell’intervenire su queste problematiche affermava: «Che i gruppi rivoluzionari giustifichino la propria violenza considerandola come una risposta, l’unica possibile, alla violenza dello Stato, è più che naturale. […] Del resto, questo stesso argomento è usato dallo Stato per giustificare l’uso della violenza propria, della violenza cosiddetta istituzionalizzata, nei riguardi della violenza rivoluzionaria». È dentro questa specularità che, secondo Bobbio, i «democratici conseguenti» elaborano le Costituzioni e le tavole delle leggi. Il compito di questi apparati «disciplinari» dovrebbe essere quello di equilibrare il diritto di rappresentanza dei movimenti sociali con le esigenze di gestione e di riproduzione delle democrazie. Quando ciò non avviene, quando vengono alterati unilateralmente gli statuti e le regole del gioco, si apre un conflitto dagli esiti imprevedibili.
A metà degli anni Settanta l’arretratezza conservatrice del potere democristiano aveva prodotto un «blocco» del sistema democratico, le cui avvisaglie si avvertivano fin dal 1974 (quindi molto prima della fase del cosiddetto pericolo «terrorista») con il varo della legge che raddoppiava i termini di carcerazione preventiva, si consolidava con la reintroduzione dell’interrogatorio di polizia, per completare una prima fase involutiva con la legge Reale (1975): un’autentica «licenza di uccidere» delegata alle «forze dell’ordine» (provocherà 350 vittime nei primi dieci anni di applicazione).
Vista a distanza di anni, la dinamica autoritaria si presenta quasi come un disegno organico: da un lato «il terrore delle stragi» favorito dagli apparati di sicurezza dello Stato, e dall’altro una progressione di provvedimenti giudiziari sempre più autoritari, giustificati con la necessità di difendere una non meglio definita «democrazia» minacciata dalla violenza, a sua volta genericamente evocata. Tutto ciò in risposta alla profonda modificazione della «costituzione materiale del sistema politico italiano». Modificazione che partendo dalla fabbrica e integrandosi nel sociale aveva profondamente alterato i rapporti di forza tra le classi. Si era formato il sindacato, anzi l’unità sindacale, voluta dalla base, dall’operaio massa.
Il sindacato, unico strumento di mediazione tra il potere della classe operaia e il sistema dei partiti (di tutto il sistema dei partiti), diventava anche la principale cinghia di trasmissione tra la società civile e lo Stato, indebolendo così in maniera drammatica e irreversibile il tradizionale potere dei partiti, e in particolare di quelli di sinistra. Nella fabbrica e nella società i movimenti si sottraevano progressivamente all’egemonia del Pci, che per la prima volta dal dopoguerra perdeva l’egemonia sulle fabbriche. Le forme di lotta, la «conflittualità permanente», i movimenti che portavano avanti il conflitto sul salario, sul reddito, sui servizi, sul consumo produttivo della forza lavoro, erano quasi tutti autonomi e indipendenti dal sistema dei partiti. L’unica forza che tentava contraddittoriamente di rappresentarli era il sindacato nelle sue varie articolazioni, dentro le quali prevalenti diverranno rapidamente le istanze di base — mette conto di notare che la grande maggioranza degli iscritti al Flm (l’organismo intersindacale dei consigli di fabbrica) era priva di una qualsiasi tessera di partito — fino a scontrarsi duramente con i vertici.
[…]
Nel pre ’77 è proprio il Pci che tenta di rivedere in profondità i propri statuti materiali, i propri referenti e sistemi di poteri interni. È anche il partito che in una prima fase ottiene i maggiori vantaggi dalla spinta al rinnovamento complessivo che proviene dalla società civile. Le vittorie elettorali del ’75-76 (massimi storici del dopoguerra) sono anche il risultato di un grande immaginario collettivo che nel «sorpasso» elettorale della Democrazia Cristiana condensa una parte dei bisogni espressi dal quinquennio precedente. Ma tutto si rivela una tragica illusione. Il Pci, per strategia storica, per cultura politica, non è in condizione di recepire un bisogno di cambiamento così radicale, ma al contrario persegue con ostinazione l’obiettivo di entrare nell’area di governo. Così si spiega l’abbandono della discriminante contro la Nato (storica battaglia fin dagli anni Cinquanta) e la scelta di lottare per ricostruire la «produttività» capitalistica duramente intaccata dalle lotte sociali e di fabbrica.
Obiettivo indispensabile di questa strategia di avvicinamento al potere è la necessità di ricondurre il sindacato dentro l’egemonia del partito e della sua strategia. Il sindacato era, come abbiamo visto, l’unica forza di mediazione del conflitto. «Privo dei sindacati, il sistema politico italiano non reggerebbe alle spinte di classe, alle spinte sul reddito, ai nuovi bisogni» (Sergio Bologna). Qualsiasi ricomposizione dall’alto del potere non poteva avvenire senza la collaborazione del sindacato.
Su questa progettualità si innesca la politica dei sacrifici mobilitando tutte le «teste fini» a disposizione. Trentin scrive un lungo testo di riflessione (Da sfruttati a produttori) per spiegare la necessità del patto tra produttori per ricostruire, vedi il caso, il percorso di «egemonia democratica» del movimento operaio. Berlinguer, nel famoso discorso agli intellettuali, spiegherà che il governo di sinistra non è tanto un’ipotesi impossibile, quanto indesiderabile finché il terreno della «produttività» non è «un’arma del padronato» ma «un’arma del movimento operaio per mandare avanti la politica di trasformazione». Lama, dal canto suo, in una famosa intervista a «La Repubblica», ribadirà in forma organica gli stessi concetti, appoggiato dall’autorità dell’economista Sylos Labini che in maniera più incisiva dichiara che «la sinistra deve deliberatamente e senza cattiva coscienza aiutare la ricostituzione di margini di profitto, oggi estremamente depressi, anche proponendo misure onerose per i lavoratori. Questo può essere un passo nella direzione dell’egemonia gramsciana [sic]». Questa ultima sintesi teorica verrà fatta propria dal Pci durante la sua «partecipazione» al governo.
Ma una scelta strategica di questa natura non può svilupparsi senza conseguenze drammatiche sul conflitto sociale. Essa significa l’esatto capovolgimento del conflitto capitale-lavoro sviluppatosi durante la fase rivoluzionaria precedente. Significa annullare tutte le conquiste dell’«autunno caldo» e l’egemonia conquistata con il «partito di Mirafiori». Si possono usare tutti gli artifici linguistici (i licenziati, ad esempio, diventano «esuberanti»), ma nella realtà sia gli operai che i movimenti che agiscono nella società non intendono rinunciare alle conquiste già fatte, vogliono anzi andare oltre.
La «legislazione d’emergenza» nasce proprio come deterrente, come prevenzione del possibile scontro che si innescherebbe con la modifica delle «regole del gioco». Il governo di «solidarietà nazionale» come espressione del taumaturgico e interclassista «stato democratico» tende ad assorbire in sé nel Parlamento qualsiasi forma di conflitto, mentre quelli incompatibili diventano materia penale e giudiziaria.
La forma-stato sotto la figura del «sistema dei partiti», che da sempre è una forma latente della storia italiana, riemerge allora con forza e progettualità.
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Mentre nel ’77 il Parlamento vara un pacchetto di «leggi eccezionali», le conseguenze delle pratiche insurrezionali del movimento e il disperato arroccarsi nelle fabbriche delle avanguardie operaie sconvolgono l’intero panorama dei movimenti rivoluzionari. Mentre l’autonomia e la ricchezza del «movimento del ’77» si confrontano con il deserto della scomposizione soggettiva e il dilemma «avanti come, avanti dove?» assume significati esistenziali, le avanguardie di fabbrica vivono drammaticamente il «tradimento dei vertici». L’uso politico della cassa integrazione, il decentramento degli impianti, i continui licenziamenti motivati da discriminanti politiche puntualmente legittimate dallo straripante potere della magistratura, sembrano — e in effetti sono — ostacoli insormontabili alla ripresa dell’iniziativa.
È forse il periodo più oscuro dal dopoguerra. Se l’angoscia dei primi anni Sessanta era stata una delle molle della rivolta, la «paura» operaia produce disperate omologazioni. La battaglia «contro il terrorismo» viene usata come «cavallo di Troia» per far passare un progetto molto più vasto e molto più complesso. Innanzitutto, da un lato, l’eliminazione dal panorama politico italiano di una serie di forze di opposizione rivoluzionarie; dall’altro capo l’eliminazione del corpo centrale delle avanguardie di fabbrica che avevano reso ingestibile il comando padronale sulla fabbrica stessa. Per far ciò si mette in moto non soltanto un meccanismo processuale e legislativo che fa a pezzi lo « stato di diritto», ma anche un formidabile apparato dei media, una cultura, un modo di leggere e falsificare la storia degli anni Settanta con l’obiettivo di privare della «memoria» qualsiasi soggetto antagonista.
Nei giovani militanti si produce una sindrome terribile rispetto all’inutilità di qualsiasi forma di autorganizzazione di base. Le scelte paiono essere solo di tipo estremo e radicale: una spirale dove da una parte c’è il diffondersi di massa dell’eroina (diecimila drogati nel 76, 60-70.000 nel ’78) come espressione di una radicale negazione dell’esistente; dall’altra, come in un diffuso bisogno di scelte di rigore e ordine morale, l’afflusso in massa dentro le formazioni armate.
L’organizzazione armata che storicamente godeva del massimo prestigio era quella delle Brigate Rosse. Con una solida origine dentro la classe e un organico impianto teorico sempre più mutuato dalle esperienze della Terza Internazionale (dopo un lungo inizio decisamente più «operaista» e guerrigliero), le BR parevano un’organizzazione impenetrabile e imprendibile, dotata di una micidiale capacità operativa. Il rapimento e l’uccisione dell’on. Moro, che si preparava a inserire direttamente il Pci nei livelli dello Stato, facevano delle BR gli interpreti di un desiderio di risposta diffuso in modo contraddittorio nei resti dei movimenti. Larghi settori di avanguardie di fabbrica vedevano con ammiccante simpatia i valori simbolici della vicenda Moro, e in molte aree movimentiste aveva destato grande impressione l’efficienza militare esibita nel corso del rapimento dello statista democristiano.
Nei primi mesi del ’78 e dopo la tragica conclusione della vicenda di Aldo Moro, si assistette ad un continuo moltiplicarsi dei gruppi e delle pratiche armate. Affluiscono dentro le formazioni maggiori centinaia di militanti dell’autonomia diffusa e intere sezioni di avanguardie di fabbrica — esemplare a questo riguardo la vicenda della Brigata Walter Alasia di Milano, per la gran parte costituita da giovani operai. Mentre il «sistema dei partiti», apparentemente destabilizzato dalle sue stesse scelte politiche, delega i poteri di controllo e repressione alle forze dell’ordine e alla magistratura, che acquisisce poteri insindacabili e assoluti, scrivendo una delle pagine più nere nella storia degli «stati di diritto» moderni.
Le Brigate Rosse nel rapire e uccidere l’on. Aldo Moro realizzavano simbolicamente un passaggio della strategia di «attacco al cuore dello Stato» elaborata a partire dal 1975-76 come conseguenza del giudizio dato sulla ipotesi del «compromesso storico». Nella Risoluzione della direzione strategica dell’aprile 1975 le BR avevano definitivamente abbandonato il modello dell’autointervista per porsi con un documento ufficiale che aspirava a essere una sorta di programma generale come nelle tradizioni dei partiti storici della Terza Internazionale. Già questa scelta, apparentemente formale, era indicativa di un porsi dell’organizzazione armata come elemento egemonico della complessità del processo rivoluzionario in atto. Non più quindi un organismo armato clandestino come polo di riferimento delle esperienze più radicali dello scontro di classe, ma vera e propria organizzazione che, ponendo la «lotta armata» come unica linea strategica dello scontro di classe, come la «forma» della rivoluzione, tendeva a riqualificare al proprio interno tutte le esperienze prodotte dalla complessità del movimento reale. Una scelta strategica di questa natura non poteva che operare una drastica riduzione della stessa complessità e ricchezza dei percorsi organizzativi e, dentro questa riduzione, provocare una progressiva contrapposizione con altre esperienze di lotta non solo nei resti dei gruppi extraparlamentari ma anche nell’area dell’autonomia organizzata e diffusa. Queste divisioni si manterranno negli anni successivi provocando continue dinamiche di comprensione-rifiuto della pratica delle BR, ma sostanzialmente mai una loro completa delegittimazione fino alla divaricazione complessa e contraddittoria che si verificherà durante il «caso Moro».
Nel rapire lo statista democristiano le BR intendevano sicuramente attaccare il progetto del «compromesso storico», ma in realtà l’obiettivo più ambizioso era indirizzato a prendere l’egemonia, ad anticipare l’inevitabile scontro tra «centralità operaia» e Stato del capitale che nelle analisi delle BR veniva dato per certo, imminente come storico, «naturale» risultato dell’attacco che il capitale e lo Stato stavano portando all’egemonia espressa dall’«operaio massa». Anticipare la «guerra civile dispiegata» attraverso le azioni esemplari e militari con l’obiettivo di prendere la direzione del movimento reale nel momento stesso in cui questo per genesi propria si sarebbe incontrato con il progetto BR. Questa progettualità tutta ideologica e indicativa del progressivo separarsi dal movimento reale avrebbe ricevuto una clamorosa smentita nella grande e traumatica sconfitta operaia alla Fiat nel 1980: decine di migliaia di operai sospesi, di fatto espulsi dalla produzione, si disperdevano nel sociale diventando «invisibili» soggetti impauriti e deprivati della propria identità di massa, mentre i gruppi armati ormai innescati dalla pratica esclusivamente militare non erano più in grado di rapportarsi alle modifiche profonde intervenute nello scenario dello scontro.
«Negli ultimi mesi del ’78 e nei primi del ’79 cede la formula del governo di unità nazionale e parallelamente vengono liquidate anche le ultime barriere di mediazione. L’assassinio del magistrato Alessandrini (ad opera di Prima Linea) acquista a questo punto un significato particolare perché rimette in discussione tutto il funzionamento e la storia della magistratura nella gestione dei processi politici degli ultimi dieci anni. Cadono le distinzioni che ancora settori politici e giudiziari facevano tra terrorismo organizzato e movimenti di contestazione. La magistratura, come corpo separato, ha una reazione d’autodifesa che va al di là dei ritmi e dei tempi voluti dagli stessi corpi o nuclei speciali antiguerriglia, agisce contro tutto e tutti, ficcando in galera teorici e politologi, tecnici e giornalisti» (Sergio Bologna).
In effetti la teoria di un’unica direzione tra gruppi armati e movimento era stata portata avanti dalla magistratura padovana e dagli articolisti comunisti di «Rinascita» fin dal 1976-77, ma, come abbiamo visto nel dibattito relativo al movimento ’77, era «passata» solo parzialmente provocando aree di resistenza e di rifiuto non solo tra gli intellettuali ma anche in consistenti settori dei magistrati democratici. Con la vicenda Alessandrini quest’ultima fragile barriera di agibilità si frantuma definitivamente contribuendo a dare fondamento all’efficacia falsificatrice e devastante del «teorema Calogero». Deprivato violentemente dei propri strumenti di comunicazione (vengono incarcerati e inquisiti centinaia di redattori), schiacciato dall’efficacia dei gruppi armati, oramai pressoché privo di alleati o «compagni di strada», il movimento si disperde in mille rivoli. È la fase dei «suicidi militanti» seguita da quella ben più consistente dei «suicidi operai» (più di duecento nella sola Torino tra i cassaintegrati). La fase in cui lo Stato ricostruitosi come apparato fa dell’emergenza un autentico e micidiale metodo di governo funzionale a ridisegnare in termini autoritari tutta la «geografia del conflitto» facendo a pezzi qualsiasi forma di rappresentanza che non si pieghi alle nuove esigenze produttive. L’«economia sommersa» (leggi «lavoro nero») porta alla ribalta una nuova generazione di imprenditori spregiudicati, aggressivi e preparati a confrontarsi con la tradizionale «razza padrona» industriale, che dopo aver desertificato le fabbriche dalle soggettività rivoluzionarie espresse dall’«operaio massa», può finalmente inglobare la scienza operaia dentro la ristrutturazione tecnologica e informatica.
La «cultura d’impresa» e l’«individualismo proprietario» si capovolgono in valori positivi difesi ed esaltati dai media e dagli intellettuali che dentro il «pensiero debole» del «quotidiano» e del «basso profilo» della difesa dei propri privilegi paiono trovare l’alibi alla loro fuga.
La teoria delle «due società», che poteva sembrare un’eccessiva schematizzazione durante il movimento ’77, assume all’inizio degli anni Ottanta una dimensione di massa: centinaia di migliaia di giovani «non garantiti», milioni di sottoccupati sono l’asse portante e privo di rappresentanza della nuova ricchezza.
Nei grandi labirinti metropolitani regna il silenzio della separatezza e dell’impotenza, i volti «serializzati» dei «politici» ripetono parole prive di senso dagli schermi televisivi. Sono iniziati gli anni Ottanta. Gli anni del cinismo, dell’opportunismo e della paura.
(Non abbiamo chiesto il permesso dell’editore, per riprodurre questo lungo brano, e ce ne scusiamo. Sappiano però che sia il co-autore de L’orda d’oro, Nanni Balestrini, che il curatore, Sergio Bianchi, sono firmatari della petizione pro Cesare Battisti. Diamo per scontato il loro assenso. Quanto all’altro autore, Primo Moroni, se fosse in vita sarebbe certamente al nostro fianco. Del resto, questo è anche un invito ad acquistare L’orda d’oro, antitesi alle falsificazioni della storia oggi di gran moda. Abbiamo soppresso le note per rendere più facile la lettura.)