di Wu Ming 1
“Non posso nascondere la mia amarezza vedendo riemergere certe accuse alla magistratura italiana che, come disse allora Pertini, tanto contribuì a fermare il terrorismo, rispettando la costituzione e le regole del processo.”
Armando Spataro, La Repubblica, 8 marzo 2004
“Di fronte ad una situazione d’emergenza […] Parlamento e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il preciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione d’emergenza.”
Sentenza 15/1982 della Corte costituzionale.
Dopo la messa in libertà vigilata di Cesare Battisti, in quel di Parigi, i media italiani si sono scatenati, rovesciando sull’opinione pubblica tutto il metallo fuso per anni negli altiforni del rancore, della vendetta, dell’ossessione securitaria.
E’ impossibile fare un resoconto di tutte le distorsioni e le falsità scritte e trasmesse nell’ultima settimana. Non c’è articolo, per quanto breve, che non ne contenga decine. Persino i dettagli apparentemente insignificanti sono sbagliati.
Episodi e personaggi che nulla c’entrano col caso in oggetto vengono gettati nel calderone per intorbidire la brodazza, scatenare il panico morale, impedire a ogni costo l’uso della ragione.
Un killeraggio mediatico come non se ne vedevano da parecchio tempo, al quale è faticosissimo opporre argomenti ed elementi concreti, ricostruzioni storiche minimamente approfondite.
Eppure non si può rinunciare a esercitare la ragione, non ci si può chinare e coprire la testa con le mani in attesa che passi la burrasca. Fosse anche un’impresa disperata, occorre esercitare la ragione contro il fanatismo.
Non va taciuto che, in questo Paese, chi continua a opporsi agli scoppi di emergenze strumentali è destinato a sentirsi solo: è una di quelle campagne in cui devi coprirti su entrambi i fianchi, il destro (ça va sans dire) e il sinistro. Da entrambe le parti, gli argomenti (anche se è difficile chiamarli così) sono i medesimi.
La cosa non deve sorprendere: parlare di emergenza-terrorismo significa tornare su storture giuridiche, strappi costituzionali e prassi inquisitorie che il PCI di fine anni Settanta (quello del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”) sostenne con entusiasmo e abnegazione. La stessa gente, oggi, dirige il centrosinistra. O meglio, dirige quella parte di centrosinistra che, a mo’ di struzzo, ha da poco messo la testa sotto la sabbia irachena, non votando contro la partecipazione dell’Italia all’occupazione neo-coloniale della Mesopotamia.
La stessa gente ha da tempo delegato a una sezione di magistratura inquirente le fatiche di un’opposizione al governo B******** che in Parlamento non si è in grado di condurre (quando proprio non ci si rifiuta di farlo per inseguire il “dialogo”, la “responsabilità di fronte alle istituzioni” e l’inciucio bipartisan del momento).
Molte “toghe rosse” (come le chiama B********) sono le stesse che istruirono e condussero i grandi processi contro il terrorismo (vero e presunto: nel tritacarne ci finirono anche i movimenti di quegli anni). A sinistra è tuttora egemone la visione della storia di chi scrisse e approvò le leggi d’emergenza, e di chi rappresentava l’accusa ai processi che ne derivarono.
Non è sorprendente che chi prese e difese posizioni tanto drastiche allora sia poco disposto a tornarci sopra oggi per darsi qualche torto, o almeno rimettere in prospettiva le ragioni. Anche perché a destra ci si dà impudicamente al grand guignol, si sparano le frattaglie con l’obice per inzaccherare di sangue tutto il campo della discussione, si strofinano con le cipolle gli occhi dei telespettatori. Con l’arma dell’emozione incontrollata e del ricatto morale, si richiama all’ordine la sinistra “riformista”, la si spinge a condannare la sinistra “radicale”, a dividere il campo dell’opposizione. Non che i “riformisti” abbiano bisogno di troppe spinte…
In questo modo, però, si condanna il Paese all’eterna paura dei fantasmi del passato, passato che in realtà non passa ed è evocato per motivi di bassa cucina politico-elettorale.
1. Le leggi speciali 1974-82
“Questo libro l’ho scritto con rabbia. L’ho scritto tra il 1974 e il 1978 come contrappunto ideologico alla legislazione sull’emergenza. Volevo documentare quanto fosse equivoco fingere di salvare lo Stato di Diritto trasformandolo in Stato di polizia”
Italo Mereu, Prefazione alla seconda edizione di Storia dell’intolleranza in Europa, corsivo mio.
Chi dice che il terrorismo fu combattuto senza rinunciare alla Costituzione e alle garanzie per l’imputato è disinformato oppure mente. La Costituzione e la civiltà giuridica furono sbrindellate decreto dopo decreto, istruttoria dopo istruttoria.
– Il decreto-legge n.99 dell’11/4/1974 aumentò a otto anni la carcerazione preventiva, vera e propria “pena anticipata” contraria alla presunzione d’innocenza (art.27 comma 2 della Costituzione).
– La legge n.497 del 14/10/1974 reintrodusse l’interrogatorio del fermato da parte della polizia giudiziaria, abolito nel 1969.
– La legge n.152 del 22/5/1975 (“Legge Reale”) all’art.8 rese possibile la perquisizione personale sul posto senza l’autorizzazione di un magistrato, nonostante la Costituzione (art.13, comma 2) non ammetta “alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Da quel momento le forze dell’ordine poterono (e possono tuttora) perquisire persone il cui “atteggiamento” o la cui presenza in un dato posto non apparissero “giustificabili”, anche se la Costituzione (art.16) dice che il cittadino è libero di “circolare liberamente” dove gli pare.
La “legge Reale” conteneva molti altre innovazioni liberticide, ma non è questa la sede per esaminarle.
– Un decreto interministeriale del 4/5/1977 istituì le “carceri speciali”. Per chi ci finiva dentro non valeva la riforma carceraria di due anni prima. Il trasferimento in una di quelle strutture era a totale discrezione dell’amministrazione carceraria, non c’era bisogno del parere del giudice di sorveglianza. Si trattava addirittura di un peggioramento del regolamento carcerario fascista del 1931: all’epoca, solo il giudice di sorveglianza poteva mandare un detenuto alla “casa di rigore”. La rete delle carceri speciali divenne presto una zona franca, di arbitrio e negazione dei diritti dei detenuti: lontananza dalla residenza delle famiglie; visite e colloqui a discrezione della direzione; trasferimenti improvvisi per impedire socializzazioni, divieto di possedere francobolli (l’Asinara); isolamento totale in celle insonorizzate, ciascuna con un cortiletto per l’ora d’aria separato dagli altri (Fossombrone); quattro minuti per fare la doccia (l’Asinara), sorveglianza continua e perquisizioni corporali quotidiane; privazione di ogni contatto umano anche visivo tramite citofoni e completa automazione di porte e cancelli etc.
Questi erano i posti in cui gli inquisiti, a norma di legge ancora innocenti, scontavano la carcerazione preventiva. La Costituzione, all’art. 27 comma 3, recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Verso quale rieducazione tendeva il trattamento appena descritto?
– La legge n.534 dell’8/8/1977, art.6, limitò le possibilità da parte della difesa di dichiarare nullo un processo per violazione delle garanzie dell’imputato, e rendendo più sbrigativo il sistema delle notifiche facilitò l’avvio di processi in contumacia (in contrasto con il diritto di difesa e contro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è del 1954).
– Il “decreto Moro” del 21/3/1978, oltre ad autorizzare il fermo di polizia di ventiquattro ore a fini di identificazione, eliminò il limite di durata delle intercettazioni telefoniche, rese le intercettazioni legali anche senza permesso scritto del magistrato, le ammise come prove anche in processi diversi da quello per cui le si era autorizzate, infine rese autorizzabili intercettazioni “preventive”, anche in assenza di indizi di reato. Inutile ricordare che la Costituzione (art.15) definisce inviolabile la corrispondenza “e ogni altra forma di comunicazione” se non per “atto motivato” dell’autorità giudiziaria “con le garanzie stabilite dalla legge”.
– Il 30/8/1978 il governo (violando l’art.77 della Costituzione) emanò un decreto segreto, che non fu trasmesso al Parlamento, e venne pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale” soltanto un anno dopo. Il decreto dava al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – senza togliergli l’incarico di garantire l’ordine nelle carceri – poteri speciali per combattere il terrorismo.
– Il decreto del 15/12/1979 (divenuto poi la “legge Cossiga”, n.15 del 6/2/1980), oltre a introdurre nel codice penale il famoso art. 270bis [1], autorizzò, per i reati di “cospirazione politica mediante associazione” e di “associazione per delinquere”, il fermo di polizia preventivo della durata di 48 ore, più altre 48 ore a disposizione per giustificare il provvedimento. Per quattro lunghi giorni un cittadino sospettato di essere in procinto di cospirare, poteva rimanere in balìa della polizia giudiziaria senza l’obbligo di informare il suo avvocato. Durante quel periodo poteva essere interrogato e perquisito, e in molti casi si è parlato di violenze fisiche e psicologiche (Amnesty International protestò diverse volte). Tutto questo all’art.6, una norma straordinaria della durata di un anno.
All’art.9 la legge rendeva possibili le perquisizione “per causa d’urgenza” anche senza mandato. La Costituzione, art.14, recita: “Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale” (corsivo mio). Che tutela della libertà c’è in un sistema dove viene legalizzato l’arbitrio, il “tiramento di culo” del poliziotto, la facoltà di decidere sul momento se per una perquisizione sia necessario o meno un mandato?
All’art.10, i termini della carcerazione preventiva per reati di terrorismo venivano estesi di un terzo per ogni grado di giudizio. In quel modo, fino alla Cassazione, si poteva arrivare a dieci anni e otto mesi di detenzione in attesa di giudizio! All’art.11, si introduceva un grave elemento di retroattività della legge, ordinando di applicare i nuovi termini della carcerazione preventiva anche ai procedimenti già in corso. Il fine era chiaro: impedire che decorressero i termini, e che centinaia di sepolti vivi attendessero il giudizio a piede libero.
– La “legge sui pentiti” (n.304 del 29/5/1982) coronò la legislazione d’emergenza concedendo sconti di pena ai “pentiti”. Il testo parlava di “ravvedimento”. In un libro che negli ultimi giorni viene citato molto spesso (in Rete, non certo sui media tradizionali), Giorgio Bocca si chiedeva chi fosse mai il “pentito”:
“Uno che per convinzioni politiche si è unito al partito armato e che poi, per ripensamenti politici, se ne è dissociato al punto di combatterlo, o qualsiasi avventurista che prima si diverte a uccidere il prossimo e poi, catturato, scampa alla punizione denunciando tutto e tutti?”
Cito Elio e le storie tese: “Propenderei per la seconda ipotesi / perchè emani un fetore nauseabondo” (dalla canzone “Urna”, del 1992).
Bocca proseguiva: “Sono terroristi pentiti quei capetti del terrorismo diffuso che prima hanno plagiato dei ragazzi delle scuole medie, li hanno convinti ad arruolarsi e poi li hanno denunciati per godere delle clemenze giuridiche? Sono ravveduti sinceri quelli che in mancanza di serie delazioni se le inventano? […] Lo stato di diritto non è la morale assoluta, l’osservanza rigorosa delle leggi in ogni circostanza, ma è la distinzione e il reciproco controllo delle funzioni. Nello stato di diritto la polizia può eccedere nei metodi inquisitori, ma il cittadino può ragionevolmente contare sul controllo del giudice sul poliziotto. Ma se si accetta con la legge sui pentiti e simili che giudice e poliziotto siano la stessa cosa, quale controllo sarà possibile? Ma, si dice, la legge sui pentiti è stata efficace, ha ottenuto centinaia di arresti e la fine del terrorismo. Questo è scambiare gli effetti per la causa: non sono i pentiti che hanno sconfitto il terrorismo, ma è la sconfitta del terrorismo che ha creato i pentiti. Ci si dovrebbe chiedere se la legge ha giovato o meno a quel bene supremo di una società democratica che è il sistema delle garanzie. La risposta è che i danni sono stati superiori ai vantaggi, anche se un’opinione pubbica indifferente al tema delle garanzie fino al giorno in cui non è direttamente, personalmente colpita, finge di non accorgersene. Sta di fatto che una notevole parte della magistratura inquirente si è lasciata sedurre dai risultati facili e clamorosi del pentitismo, ha preso per oro colato le dichiarazioni dei pentiti sino a capovolgere il fondamento del diritto, le prove sono state sostituite con i sentito dire. Grandi processi sono stati imbastiti sulle dichiarazioni dei pentiti, centinaia di arresti fatti prima di raccogliere le prove. Un magistrato italiano ha potuto dichiarare a una radio francese a proposito del caso Hyperion… ‘Non ho le prove ma le troverò’. Uomini politici, insegnanti, moralisti non si sono preoccupati delle conseguenze inquisitorie della legge, della infernale catena di delazioni incontrollabili che essa metteva in moto. La reazione delle vittime della delazione è stata, come si poteva prevedere, feroce, una serie di cadaveri ‘infami’ è stata raccolta dalle guardie carcerarie a cose fatte, secondo la legge barbara delle nostre prigioni. Nella fossa dei serpenti tutto è possibile e niente accertabile.”
Chiedo scusa per la lunghezza della citazione, ma credo ne valesse la pena.
La Corte Costituzionale non potè negare che tutte queste leggi fossero da stato d’eccezione: semplicemente decise che, “vista l’emergenza”, andava bene così. Ponzio Pilato ha ancora le mani nel catino.
Non c’è cattiva memoria pubblica che possa rimuovere questa realtà, non c’è ex-PM che riesca a farmi accettare questa barbarie in nome della “Ragion di Stato”, nessuna sinistra legalitaria potrà mai a convincermi della bontà di tutto questo.
2. Terrorismo, coscienza, “guerra preventiva”
“E’ proprio lo stato d’animo, il pensiero nascosto e non espresso, la interna disobbedienza che divengono oggetto di indagine, in quanto è all’accertamento di essi che il giudice tende a risalire? Ecco che in processi di questi ultimi anni sono sottoposti al vaglio del giudice penale comportamenti quali la creazione di un collettivo di lavoratori contrapposto al sindacato, l’organizzazione dei seminari autogestiti, la collaborazione, mediante un articolo dal contenuto lecito, a un periodico riconducibile ad una struttura associativa ritenuta illecita; l’intervento in un’assemblea universitaria, e, in genere, rapporti interpersonali manifestatisi attraverso scambi di documenti politici, lettere, telefonate, ecc., tutti dal contenuto penalmente irrilevante.”
Antonio Bevere, “Processo penale e delitto politico, ovvero della moltiplicazione e dell’anticipazione delle pene”, in Critica del diritto n.29-30, Sapere 2000, aprile-settembre 1983
La Costituzione, all’art. 27, comma 1, dice che “la responsabilità penale è personale”.
Eppure il nostro codice penale (che risale al fascismo e nel periodo delle leggi speciali fu peggiorato in più punti) pullula di reati come il “concorso morale” nel reato o la “adesione psichica” allo stesso, nonché di ogni forma di reato associativo che si possa immaginare tra cielo e terra.
Gran parte delle istruttorie sul terrorismo lavorarono soprattutto su questi elementi, oltreché sui sospetti e le intenzioni (il famoso “essere in procinto di”), su un’idea oltremodo estesa del concorso, del favoreggiamento, delle contiguità.
Si arrivò a teorizzare il “fine terroristico” come sussistente “al di là dello scopo immediatamente perseguito dall’agente (omicidio, danneggiamento ecc.)” e di definirlo “reato a forma libera” il cui specifico dolo “offre l’elemento unificatore e l’essenza dei delitti terroristici” (corsivo mio) [2]. In parole povere, terrorista è lo scopo, il fine ultimo, anche a prescindere da fatti concreti. Non c’è quindi da stupirsi se in molti casi si finirono per processare la personalità degli imputati e la loro ideologia, quest’ultima identificabile nel loro essere amici di Tizio e Caio, o nel loro avere ospitato Sempronio.
Terroristi si è, anche a prescindere da ciò che si fa. Terrorista è l’intenzione, contro la quale va combattuta una “guerra preventiva” che è tipica della società del controllo. La “cospirazione” c’è, anche se non ha portato a niente. Si può essere processati per “insurrezione” anche se l’insurrezione non c’è stata: come disse Pietro Calogero, si tratta di un “reato a consumazione anticipata”, cioè – in parole poverissime – il vero reato è volerla, l’insurrezione. Tribunali della coscienza.
Non sono un giurista, eppure mi sembra di poter rinvenire il nucleo ideologico, il “meme” di quest’idea contemporanea di “prevenzione” oltreoceano, nell’Anti-Riot Act dell’11 aprile 1968, ideato e usato contro i movimenti afro-americani e le mobilitazioni per porre fine alla guerra in Vietnam. Tale legge punisce chi, durante uno spostamento sulla rete viaria interstatale, o durante l’uso di infrastrutture della rete viaria interstatale, commetta atti finalizzati a “incitare, organizzare, promuovere, incoraggiare, prendere parte e portare avanti una sommossa [riot]”, o aiuti qualcuno in tale incitazione. Secondo la legge americana, un riot è un assembramento di cinque o più persone che, comportandosi in modo violento o minacciando di farlo, mettano in grave pericolo le persone e la proprietà.
Riassumendo, alcuni esponenti dei movimenti americani furono inquisiti, processati e condannati per aver viaggiato su strade interstatali con l’intenzione di aiutare qualcuno a incitare un assembramento di cinque o più persone che minacciassero di comportarsi in modo da arrecare danni alla proprietà. Spero sia chiara la percezione della grande distanza che separa la persona dal presunto reato.
Sia ben chiaro che non sto dicendo che tutti gli imputati di processi per terrorismo erano estranei a fatti concreti, ci mancherebbe. Tuttavia, molte persone furono processate e condannate non per atti specifici bensì in nome di un’idea astratta di “fattispecie terroristica”. Il proverbiale “processo alle intenzioni” fu reso una realtà dalla Ragion di Stato.
Gli effetti di quella distorsione sull’opinione pubblica perdurano a tutt’oggi.
Non è un caso se quello che maggiormente si rimprovera a Cesare Battisti è il fatto di “non essersi pentito”.
Non è un caso se la crescente mostrificazione mediatica di Cesare Battisti prescinde ormai dai reati per cui fu condannato, e s’incentra sulla sua personalità e il suo stile di vita (di adesso, non di allora): lo si accusa di essere un “vigliacco” perché è fuggito, di essere “un furbo” perché lo protegge “la lobby degli scrittori di sinistra”, lo si aggredisce coi flash all’uscita di prigione per rubare l’immagine “strana”, congelare la smorfia fugace e sbatterla in prima pagina per far vedere che è “brutto, sporco e cattivo”.
Un giornalista de L’Unità si chiede: “Ma Cesare Battisti sarà ancora convinto che sia stato un atto rivoluzionario ammazzare il macellaio Lino Sabbadin o il gioielliere di periferia Pierluigi Torreggiani?”. In un Paese laico, dove realmente vigesse una cultura del diritto e delle garanzie, la “convinzione” di Battisti, la pseudo-indagine psichica sul suo “pentimento”, sarebbe un non-tema, sarebbe del tutto ininfluente.
3. Censure e rimozioni della stampa sul caso Battisti
Il mio scopo non è dimostrare che Cesare Battisti è innocente. Giudicare non spetta a me né all’opinione pubblica. Ciò che mi preme far capire è che il modo dominante di affrontare questa vicenda soffre di tutte le storture, i vizi di procedura e i nodi irrisolti del periodo dell’emergenza. Sono questi elementi, di cui non si vuol fare piazza pulita, a impedire un confronto razionale, laico e costruttivo.
Le frettolose ricostruzioni della vicenda giudiziaria di Cesare Battisti apparse sulla stampa italiana sono molto lontane dalla realtà dei fatti, e addirittura in contrasto con gli atti delle istruttorie e dei processi. Se addirittura uno dei PM di allora infila nella sua lettera aperta errori grossolani, scrivendo ad esempio che il gioielliere Torregiani aveva ucciso un rapinatore nel proprio negozio anziché al ristorante “Transatlantico” [3], figurarsi i semplici commentatori di versioni di quarta mano.
Tutti, ma proprio tutti, ripetono che Cesare Battisti sparò a Torregiani e a suo figlio tredicenne, costringendo quest’ultimo sulla sedia a rotelle. Alberto Torregiani è stato anche intervistato dalle televisioni, che lo hanno presentato come “vittima di Cesare Battisti”.
Eppure, a detta dello stesso ex-PM di cui sopra, Battisti non faceva parte del commando che uccise Torregiani [4]. Battisti è stato condannato per aver “ideato” e/o “organizzato” quel delitto, conclusione molto difficile da dimostrare, interamente basata su prove indiziarie e testimonianze di “pentiti”. Questa è una delle cose che fa storcere il naso Oltralpe, tanto alla giustizia quanto all’opinione pubblica. Battisti viene indicato da “pentiti” come ugualmente responsabile per due omicidi avvenuti lo stesso giorno alla stessa ora. Di fronte all’evidente impossibilità logica, il quadro si modifica sì da farlo risultare esecutore materiale di uno (delitto Sabbadin) e “ideatore” dell’altro (delitto Torregiani). Inoltre è ritenuto ugualmente responsabile di decine e decine di rapine, e in generale di tutti i reati compiuti dall’organizzazione di cui faceva parte, i Proletari Armati per il Comunismo (gruppo che ebbe vita piuttosto breve).
Chi ignora quanto il nostro diritto (soprattutto quello dell’emergenza- terrorismo) sia incistato di contiguità, complicità e “compartecipazioni” di varia natura, si stupisce e non può che trovare contraddittorio il quadro emerso dalla sentenza.
Ma non sto facendo una controinchiesta, quello che mi preme chiedere è: perché, di fronte alle madornali idiozie dette dai media sul ruolo di Battisti nel delitto Torregiani, il dottor Spataro non ha agito nell’interesse di una corretta informazione e di una maggiore comprensione di quelle vicende, prendendo carta e penna e precisando: “Attenzione, questa cosa non è vera”? Perché, pur sapendo benissimo che Battisti non ha mai sparato a un ragazzino inerme, Spataro non ha smentito gli sciacalli dell’informazione gridata? E’ convinto di aver reso onore alla funzione pubblica che esercita, comportandosi in modo tanto reticente?
Il direttore di un giornale razzista, in una trasmissione televisiva, ha gridato che “Battisti sparò alla schiena all’orefice Torregiani”, premendo sul pedale dell’isteria, descrivendo l’agguato come ancor più vile di quanto ci si potesse immaginare. Ma Battisti non c’era, ce lo conferma il dottor Spataro. Inoltre, Torregiani – che indossava un giubbotto antiproiettile – affrontò il commando e rispose al fuoco. A rendere la tragedia più amara, fu proprio un suo proiettile a colpire il figlio Alberto.
Qualche sera prima, Torregiani e un suo cliente di nome Lo Cascio stavano cenando al Transatlantico. Ad un certo punto entrarono due rapinatori armati, che puntando le pistole contro gli avventori cominciarono a derubarli di portafogli, gioielli etc. Comportandosi in modo che – eufemisticamente – definirei “poco cauto”, Torregiani e Lo Cascio estrassero le loro pistole e scatenarono una sparatoria nella quale, oltre a un rapinatore, morì un cliente, che sarebbe ancora vivo se tutti avessero mantenuto i nervi saldi anziché cercare di farsi giustizia da soli.
Questo episodio non giustifica in alcun modo la giustizia sommaria dei PAC, tantopiù che se Torregiani era colpevole di giustizia sommaria, somministrandogli la stessa medicina e facendo colpire un innocente non si fece che replicare quanto lui aveva fatto al ristorante.
Ma appunto, proprio perché non c’è rischio di giustificare l’attentato, perché rimuovere l’episodio da tutte le ricostruzioni del contesto? Perché nascondere il primo anello della catena di eventi?
Forse perché Pierluigi Torregiani non può essere descritto come un essere umano, con le sue contraddizioni e i suoi tragici sbagli, ma solo come un “eroe borghese”, un santo difensore della proprietà, un cavaliere immacolato, in modo da far apparire Battisti ancor più sanguinario e mostruoso?
E ancora: perché omettere di citare le proteste di Amnesty International per il modo in cui furono trattati i sospetti durante il fermo di polizia nell’istruttoria Torregiani? Amnesty International usò l’inequivoco termine “tortura”. Aveva ragione? Aveva torto? Rimuovendo, non lo scopriremo mai.
4. Il “mal francese”
“Ma come si permettono questi francesi? Pensano di poterci dare delle lezioni?”. Ecco uno dei leitmotiven di questi giorni.
Il rancore nei confronti dell’opinione pubblica francese che non ci vuole restituire un “macellaio”, un “mostro”. Quanto sono boriosi, i “cugini”! Sono Pazzi Questi Galli.
Anziché cercare di capire il punto di vista altrui, si dà per scontato e indiscutibile che abbiamo ragione “noi”. E non ci si rende conto che, mentre li riteniamo colpevoli di farsi gli affari “nostri”, in realtà siamo “noi” che ci facciamo i cazzi loro. Non si capisce perché mai i francesi dovrebbero rinunciare a una consuetudine giuridica pluridecennale, la cosiddetta “Dottrina Mitterrand” (che in realtà è stata rispettata anche dai governi di destra), solo perché il loro ministro Perben ha fatto un accordo col nostro ministro C*******.
Se il ministro della giustizia cinese, o birmano, in barba alla legge italiana che vieta l’estradizione di persone condannate a morte nel loro paese, ottenesse da C******* l’arresto e l’espatrio di un rifugiato (chiamiamolo Chèsáré Xiliren), noi non reagiremmo con forza?
E se venissimo a sapere che un tribunale italiano ha già esaminato la situazione di Xiliren nel 1991, dando un parere contrario all’estradizione, e che nessun nuovo elemento giustifica un secondo arresto e un riesame a distanza di tredici anni?
E se, per soprannumero, nel nostro Paese Chèsaré Xiliren non avesse mai e poi mai commesso un reato, tenendo anzi una condotta impeccabile, dando anche un contributo alla cultura nazionale?
Questo esempio ha un difetto: la Cina e la Birmania non sono nell’Unione Europea. Infatti, molto rancore nei confronti dei francesi si basa sull’idea che i “cugini” stiano ostacolando la formazione dello “spazio giuridico europeo”. Tale critica proviene da un Paese, il nostro, più volte oggetto di critiche e condanne da parte della Corte di Strasburgo, che per più di quarant’anni non ha rispettato la Convenzione europea per quanto concerneva le condanne in contumacia, e che durante e dopo il G8 ha trattenuto in arresto cittadini europei sulla base di accuse inverosimili, attirandosi anche la protesta ufficiale del governo austriaco. Inoltre, al momento l’Italia detiene il primato del governo più “anti-europeista”, e si è fatta ridere dietro tutti i giorni da mane a sera durante il Semestre di presidenza dell’UE. Davvero crediamo noi di poter criticare chicchessìa su questi temi?
Poi c’è chi ha detto: “i francesi sono teneri solo coi terroristi degli altri. I loro invece li trattano malissimo.” Non c’è dubbio. Nonostante le distorsioni dei media nostrani, la Francia non è un paese dove se fai la lotta armata si congratulano dandoti pacche sulle spalle. Ti mettono in galera, come accade in tutto il mondo. La conclusione sarebbe dunque semplice da trarre: la sinistra francese non sta difendendo Battisti perché è stato un terrorista, ma nonostante lo sia stato. L’opposizione all’estradizione va ben oltre Battisti e la sua vicenda umana (benché sia giusto far notare che non delinque da trent’anni e non ha alcun collegamento coi nuovi gruppi lottarmatisti).
La campagna va ben oltre, per i francesi si tratta di difendere un principio, quello del diritto d’asilo, e un punto d’onore, quello della parola data da Mitterrand ai nostri connazionali rifugiati nell’Esagono.
5. “Soluzione politica” e amnistia
C’è voluto uno scrittore francese, Daniel Pennac, per riuscire a parlare di amnistia sulle pagine di un quotidiano italiano. Probabilmente un nostro connazionale non sarebbe mai riuscito a superare certi “filtri”.
Pennac, intervistato da un quidam, ha detto: “Con la Repubblica l’amnistia è diventata qualcosa di necessario alla concezione repubblicana della pace sociale. C’è l’esempio della Comune, ma più vicino a noi c’è anche l’amnistia dei membri dell’Oas, che si sono battuti con le bombe e con la violenza contro l’indipendenza algerina. Ma quattro anni dopo la fine della guerra sono stati amnistiati. Erano di estrema destra, hanno ucciso: non ammetto che abbiano ammazzato, ma si dovevano amnistiare […] L’amnistia è il contrario dell’amnesia. Si tratta di chiudere una porta per permettere agli storici di capire un periodo in maniera meno passionale. Mi è difficile ammetterla sentimentalmente, soprattutto se si immaginano le vittime. Il problema non deve però essere considerato dal punto di vista affettivo”.
E’ un invito già caduto nel vuoto, in questo Paese certe cose non si devono affrontare se non a colpi di emozioni e di psicologia delle folle. Si produce ancora isteria sugli anni Quaranta, sulle foibe, sulla “epurazione dal basso” dei fascisti gestita da Volante Rossa e gruppi consimili, figurarsi se si può far partire un dibattito sull’emergenza senza rimuovere tutto quanto esposto sopra. Specialmente oggi, con l’opposizione a B******** dietro i sacchi di sabbia delle trincee giudiziarie (un bel regalo, con tanto di fiocchetto, di certa leadership girotondista).
Eppure bisogna fare il tentativo. Non credo di esagerare affermando che questo Paese non potrà mai cambiare in meglio senza ripensare quanto vi è successo negli anni Settanta. E solo dopo un’amnistia per gli ultimi prigionieri e rifugiati di quelli che la cultura dominante chiama gli “anni di piombo”, solo dopo la soluzione politica di un problema che fu ed è politico e non solo criminale, si può sperare di capire cosa successe e come quegli accadimenti hanno condizionato la vita pubblica italiana.
Bologna, 8-9 marzo 2004
NOTE
1. “Chiunque promuove, costituisce, organizza e dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell?ordine democratico è punito con la reclusione da 7 a 15 anni.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro o otto anni.”
Nel codice penale esisteva già l’art.270:
“Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni.”
Com’è evidente, si tratta del medesimo reato. Che bisogno c’era di questo “sdoppiamento”, se non quello di isolare e amplificare la “fattispecie terroristica” (vedi sotto), e in base a questa aumentare le pene?
2. Citazione dalla cosiddetta “Carta di Cadenabbia”, documento conclusivo di un convegno di magistrati titolari delle principali inchieste sul terrorismo, cit. R. Canosa – A. Santosuosso, Il processo politico in Italia, Critica del Diritto n. 23-24, Nuove Edizioni Operaie, Roma, ottobre 1981 – marzo 1982, pag.17)
3. La ricostruzione dettagliata degli eventi che seguono è presa da: Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria. Storia di un’inquisizione politica, Milano Libri, 1981
4. Da un testo di Armando Spataro, riportato integralmente in: Mario Pirani, “Se a Parigi pari sono Battisti e Victor Hugo”, La Repubblica, 8 marzo 2004, pag.14