di Valerio Evangelisti
da L’Unità
Dopo alcune fugaci apparizioni in Italia presso vari editori, Joe R. Lansdale ha avuto la definitiva consacrazione nel nostro paese grazie a Einaudi ma soprattutto grazie a Fanucci, che di lui ha pubblicato la superba antologia Maneggiare con cura: introduzione ideale alla narrativa di questo autore. Sono seguiti i romanzi Freddo a luglio e Atto d’amore, e ora questo In fondo alla palude, da annoverare tra i migliori in assoluto (322 p. 13,00 €).
Che tipo di scrittore è questo texano che più texano non potrebbe essere, se dalla maggior parte della sua gente non lo separasse una salda vena progressista? Difficile dirlo. Viene da pensare a un Neil Gaiman, per la capacità di passare con disinvoltura da una forma all’altra di narrazione, dalla sceneggiatura dei fumetti alla riscrittura delle avventure di Batman o di Tarzan, dall’horror al western, fino alla letteratura senza aggettivi. Distingue però Lansdale uno stile molto solido, direi quasi “tradizionale” (però colorito, denso, pieno di immagini), in cui i dialoghi sono scattanti ma non occupano l’intero testo. Inoltre, se Gaiman e Lansdale hanno in comune una propensione accentuata per il macabro, il primo è il cosmopolita per eccellenza, mentre il secondo ha una forte vena regionalista. Anche se il suo Texas ospita demoni che, a ben vedere, sono universali.
Per esempio quello del razzismo, onnipresente nelle pagine di In fondo alla palude. Siamo negli anni Trenta e seguiamo attraverso gli occhi di due bambini, fratello e sorella, le indagini del padre, barbiere di villaggio investito di compiti di polizia, per fare luce sull’assassinio di una serie di donne. La voce popolare attribuisce quelle morti a uno spauracchio locale, il terrificante Uomo-Capra, subito accolto dai due bimbi nei propri incubi; invece il Ku Klux Klan ha le sue ipotesi semplificatrici e cerca di imporre un’aberrante giustizia sommaria.
La verità emergerà lentamente, attraverso l’affiorare sulla palude di storie struggenti, tragiche e crudeli; mentre i piccoli figli del barbiere scopriranno tutto d’un colpo l’intolleranza e la violenza che necessariamente l’accompagna, il sesso nelle sue forme meno guardabili (anche tra le pareti domestiche), il valore del coraggio e la complessità della nozione di “mostro”. Per arrivare a un finale pieno di suspense ma anche poetico, illuminato com’è dalla sensibilità scontrosa e animalesca di colui che veniva chiamato l’Uomo-Capra.
Non ha avuto torto chi ha accostato In fondo alla palude a Il buio oltre la siepe. L’ambientazione è in fondo simile, certi sviluppi anche. Solo che tra un romanzo e l’altro sono trascorse alcune generazioni. Se in Harper Lee bene e male erano individuabili fin dall’inizio, in Lansdale tutto si intorbida. I “cattivi”, in particolare, non sono più gli stessi. Certo restano dalla parte del male gli uomini del Klan, e vorrei vedere. Ma la mostruosità — dubbia e discutibile – ha allargato i suoi tentacoli e ha penetrato i recessi familiari meglio difesi. L’escrescenza maligna di Lee, tutto sommato estirpabile, in Lansdale ha invaso ogni tessuto. Al punto che l’autore rinuncia in parte, nel romanzo, all’ironia che pervade altre sue opere, e soprattutto quelle splatter. Qui la materia è scura per davvero, e intacca l’anima più di quanto la macchi di sangue.
Non siamo però in presenza di un noir vero e proprio. Il realismo dei tocchi e la precisione dei dettagli collocano In fondo alla palude quasi sul versante del romanzo storico. Con in più quel quid che nessun saggio di storia degli anni ’30 statunitensi riuscirà mai a darci: la sensazione di vivere un’esperienza anche nostra, repulsiva e affascinante, guidati dalla penna dura e potente di uno scrittore di razza.