Il 21 febbraio La7 ha mandato in onda un dibattito di circa un’ora sul caso Battisti, nell’ambito della trasmissione di Giuliano Ferrara Otto e mezzo. Riportiamo il commento apparso su “Il manifesto” di sabato 22.
Da parte nostra, diamo atto a Ferrara di avere condotto la discussione con notevole equilibrio. E’ però bene correggere un’inesattezza che nel programma è ricorsa varie volte, come del resto sulla stampa. Chi, ormai su scala internazionale, conduce la campagna per la liberazione di Cesare Battisti ha scelto di non farne un caso individuale, ma di ricondurlo al quadro complessivo degli anni ’70 in Italia. Ciò non significa dare per scontata la colpevolezza di Battisti nei delitti che gli furono imputati. I giudici italiani addossarono a Battisti l’assieme dei reati (tra cui quattro omicidi) rivendicati dall’organizzazione cui apparteneva, i Proletari armati per il comunismo. Tra gli omicidi, quello del gioielliere Luigi Pietro Torregiani e quello del macellaio Lino Sabbadin. Entrambi erano finiti nel mirino dei Pac per avere ucciso due rapinatori, l’uno in un ristorante, l’altro nel proprio negozio.
Gli assassinii di Torregiani e Sabbadin avvennero lo stesso giorno (16 febbraio 1979), circa alla stessa ora, l’uno a Milano, l’altro a Santa Maria di Sala (Venezia). Ciò non bastò a indurre i giudici a dubitare della sincerità dei “pentiti”, sottoposti a dure coercizioni. Battisti fu condannato in contumacia a due ergastoli, e la sentenza trovò conferma negli ulteriori gradi di giudizio esperiti in sua assenza. Solo il magistrato francese, quando dovette esaminare la domanda di estradizione, si accorse dell’assurdità palese dei capi di imputazione.
Rileviamo anche che, contrariamente a quanto riferito da alcuni giornali, il figlio di Torregiani non fu ferito né da Battisti né dai Pac, ma fu colpito accidentalmente dal padre.
Ciò per dovere di verità. Ma i dettagli sono secondari, rispetto all’accanimento con cui si persegue l’estradizione di Battisti a prescindere dal quadro storico, dalla personalità dello scrittore e dalle storture in cui incorse la magistratura italiana nel periodo detto della “emergenza” (VE).
A Parigi anche i socialisti si mobilitano per Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo incarcerato alla Santé l’11 febbraio su richiesta d’estradizione italiana, ma nel nostro paese arriva un’eco debolissima. Ci ha provato ieri sera Oreste Scalzone, rifugiato in Francia da vent’anni, ospite di Giuliano Ferrara nella trasmissione Otto e mezzo su La7. Scalzone ha ribadito che è pronto a tornare in Italia, a costituirsi, «in cambio dell’impegno chiaro da parte dello stato a non artigliare, 25-30 anni dopo, la vita di persone che si sono fatte un’altra esistenza, pur non rinnegandosi, che si sono chiuse in un silenzio dignitoso, che hanno fatto figli e che parlano d’altro». «Mi mancano otto mesi, un anno – ha ricordato Scalzone, mai condannato per reati di sangue – prima che la mia condanna a nove anni e mezzo per reati associativi diventi prescritta anche in Italia. Offro un sacrificio grosso». Era una provocazione ed è caduta in uno studio un po’ avvelenato dal direttore della Padania Gigi Moncalvo, che a Scalzone gridava: «Lei si deve pentire! Lei si preoccupa dei figli di Battisti e non di quelli delle vittime del terrorismo!». Senza riuscire a placarlo Graziella Mascia del Prc e Sandro Provvisionato, giornalista del Tg5 e direttore di www.misteriditalia.com, hanno provato a ragionare sul vecchio tema della soluzione politica per gli anni settanta, roba da marziani nell’Italia del no alla grazia per Adriano Sofri, aggrappata all’emergenza-terrorismo anche quando scopre l’inconsistenza delle nuove Br.
E’ a Parigi che bisogna guardare perché la mobilitazione, sorprendente per ampiezza e qualità, preme sul ministro della giustizia Dominique Perben. Il governo è accusato senza mezzi termini di aver «rinnegato la parola della Francia», cioè di François Mitterrand che nell’85 formalizzò l’accoglienza agli ex della lotta armata italiana purché avessero «rotto con la macchina informale». Decine di librerie da Parigi a Lione ad Amiens, per solidarietà, espongono i libri di Battisti. All’appello aderiscono scrittori come Claude Masplède, già direttore del Dicionnaire des littératures policières, editori come François Guérif (Rivages), gente comune, lettori della «série noire» di Gallimard (che ha pubblicato due libri di Battisti) ed esponenti della sinistra: Verdi, Lega comunista rivoluzionaria ma anche il Pcf e al Ps. Le firme sono più di diecimila, Le Monde e Libération continuano a scriverne. A Parigi si organizzano proiezioni di film e incontri (dettagli su www.vialibre5.com, www.mauvaisgenres.com), in vista della manifestazione di mercoledì 3 marzo davanti al Palazzo di giustizia, dove la Corte d’appello deve pronunciarsi sull’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati Jean-Jacques De Felice e Irène Terrel.
Più lungo e non scontato è l’iter dell’estradizione. Battisti nel `91 ottenne infatti dai giudici francesi il parere negativo che impediva al governo di consegnarlo all’Italia, perché era stato condannato in contumacia e da noi non avrebbe mai avuto un nuovo processo. Dunque il famoso accordo tra Castelli e Perben, riconosciuto poco dopo l’estradizione di Paolo Persichetti (ex Unione dei comunisti combattenti) nell’estate 2002, non è sufficiente: ci sono giudici anche a Parigi. Tant’è vero che Perben sembra in difficoltà, le sue ultime dichiarazioni fanno pensare a un notevole imbarazzo. Prima ha detto che l’Italia avrebbe cambiato i codici sulla questione della contumacia (nemmeno Castelli può averglielo raccontato…), poi ha raccontato che l’arresto di Battisti sarebbe stato stato casuale, legato cioè a una lite di vicinato (come a dire che la richiesta italiana di estradizione, già respinta, non avrebbe potuto giustificare la cattura).