di Valerio Evangelisti

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Ripubblichiamo l’introduzione a uno dei romanzi più importanti di Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un “delinquente comune” nella guerriglia italiana (ed. Derive Approdi, 1998; tit. franc. Dernières cartouches, ed. Joelle Losfeld). Il romanzo sarà a giorni di nuovo in libreria.

Non sono mancati libri di memorie, film e romanzi sugli anni in cui migliaia, e forse decine di migliaia, di giovani italiani decisero di prendere le armi contro un sistema che giudicavano intollerabile, mentre altre decine di migliaia, e forse centinaia di migliaia, manifestavano la loro opposizione senza arrivare a scelte così radicali. In tutta l’abbondante produzione sul tema è stato però quasi sempre assente l’aspetto esistenziale, talora tragico ma talvolta festoso, se non goliardico, di quell’esperienza. Ne è risultato un ritratto a tinte uniformemente grigie, e spesso fosche, di una realtà senz’altro drammatica, ma variegata e viva, anche se indecifrabile dall’esterno.

Personalmente, pur avendo fatto scelte diverse da quelle di Cesare Battisti, ho vissuto, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, in mondi contigui al suo. Ricordo bene come nei bar di piazza Verdi, roccaforte bolognese di quello che veniva definito semplicemente “il Movimento”, si alternassero discussioni sulla lotta armata ad altre, interminabili, sull’origine dell’universo, sul teatro o sul cinema; come per molti di noi quella stagione, vista da fuori quale una sorta di inferno, coincidesse con i primi amori e le prime, arruffate, esperienze sessuali; come serpeggiasse un particolare tipo di ironia, fondata sul paradosso, che in seguito avrebbe fatto la fortuna di programmisti radiofonici e televisivi. Quando chi nel ’77 era democristiano, o addirittura fascista, rivendica un percorso analogo a quello del Movimento, mi viene da sorridere, perché il suo vissuto ludico non può essere stato simile al nostro.
Cesare Battisti, per la prima volta, rievoca tutto questo, in un romanzo che non può essere scambiato per un’autobiografia, ma che ha senz’altro il sapore agrodolce della verità. Le storie d’amore — e anche, molto tradizionalmente, di corna — che si intrecciano all’interno del gruppo dei clandestini; lo sguardo distaccato e umoristico; la deriva ineluttabile verso uno scontro campale che nessuno si sente di affrontare, e a cui nessuno è disposto a sottrarsi: tutto questo non era mai stato descritto con altrettanta efficacia e altrettanta passione. Dove passione non significa però rivendicazione. Battisti non è affatto pentito (della storia non ci si pente), ma nemmeno auspica una continuità impossibile. Sentimento naturale in chi incontrò sulla propria strada un movimento granitico — le Brigate Rosse, ispirate alla tradizione comunista ortodossa — pronto a fulminare le eresie spontaneiste del proletariato giovanile, salvo imporgli livelli di scontro inauditi e, più tardi, a sconfitta ormai compiuta, costringerlo ad assistere allo spettacolo di un pentimento collettivo e piagnone, quale nessun movimento guerrigliero al mondo aveva mai conosciuto.
E’ molto difficile rievocare l’atmosfera di quegli anni, in Italia, e far capire perché la suggestione della lotta armata riuscisse a conquistare tanti adolescenti. Un contesto culturale asfittico, in cui le vie di fuga erano dominate per intero dal modello americano; una classe politica screditata come poche e destinata, di lì a quindici anni, a soccombere sotto il peso della propria corruzione; una serie interminabile di stragi impunite, messe in atto per puntellare il sistema e invocare soluzioni di forza; un fascismo strisciante e insidioso, fatto più di cinismo che di prese di posizione ideologiche, più di ottusità e di resistenza al cambiamento che di nostalgie.
Contro tutto ciò si era condensato, a partire dalla metà degli anni Sessanta, un vero e proprio culto dell’eguaglianza. Anche chi lo disprezzava fingeva di aderirvi; chi ne era colpito dava mostra di stare al gioco. L’opportunismo degli intellettuali italiani, riletto oggi, impressiona. Soprattutto quando li si vede farsi cantori di un neoliberismo spietato e rabbioso, che in comune con l’antico populismo ha solo l’arroganza e il sostrato autoritario.
Accadde che, impregnati di ideali egualitari, tantissimi giovani (non certo la maggioranza, e meno che mai un’intera generazione) si ribellassero alla gabbia di squallore che li imprigionava. Si formarono aggregazioni variopinte e selvagge, in cui lo studente fuorisede viveva in simbiosi con il piccolo delinquente politicizzato, la femminista con il ragazzo cresciuto tra lavori precari e la frequentazione del bar di quartiere. Una teoria nuova e stimolante, che si pretendeva marxista ma che di Marx accoglieva solo le suggestioni di alcuni scritti giovanili o secondari, dava un’identità politica a questa coesistenza. Tramontata la centralità della vecchia classe operaia, emergeva l’ “operaio sociale”, disgregato sul territorio e tuttavia funzionale ai processi di accumulazione imposti dal sempre più accentuato ricorso alle macchine; oppure il “non garantito”, figura di proletario che, esclusa dal sistema produttivo, non aveva accesso ai benefici del Welfare State e li rivendicava.
Il passaggio alla lotta armata non fu né automatico né graduale. Una società che aveva saputo assorbire senza troppi traumi la protesta del ’68, si trovò paralizzata a fronte delle istanze egualitarie ben più radicali del ’77. Probabilmente non riusciva ad afferrare l’ “umanità” di fondo di cui masse di giovani — caratterizzate, al loro interno, dall’assenza quasi totale di violenza, che riversavano invece all’esterno – erano portatrici. Reagì con impaccio e con rabbia. Ebbe la risposta che in fondo si era andata a cercare.
Una risposta che forse il potere auspicava, in quanto capace di semplificare un universo troppo complesso per essere fatto oggetto di repressione indiscriminata. Le Brigate Rosse, con le loro rozze teorie terzinternazionaliste, con la loro demenziale ridda di sigle (MPRO = Movimento proletario rivoluzionario offensivo, SIM = Sistema imperialista delle multinazionali, ecc.), con le loro esecuzioni individuali spacciate per guerriglia (fino all’orrore assoluto dell’assassinio di un’anziana vigilatrice di Rebibbia, tra singhiozzi e colpi di tosse), diedero a chi governava l’apporto definitivo, consentendo la liquidazione del Movimento e, di conseguenza, la fine del culto dell’eguaglianza.
Cesare Battisti ci parla di tutto questo, col tono aspro, l’ironia e l’assenza di retorica che gli sono consustanziali. Devono essergli grati non solo i lettori generici, ma anche gli studiosi dei comportamenti collettivi, dai sociologi agli storici: non hanno mai avuto tra le mani una testimonianza pari a questa, e probabilmente non ne avranno altre in futuro.
Ci voleva uno scrittore condannato all’esilio dal suo paese, dopo un’evasione e una sentenza di taglio militare assurdamente severa, per ripercorrere senza animosità ma con passione anni di cui, in Italia, è ancora difficile parlare, a meno di non rendere omaggio alle fumisterie di complotti inesistenti o di spargere lacrime di contrizione. Battisti è un tipo poco incline al piagnisteo, e poco disposto a chiedere perdono per sé o per altri. La luce che gli brilla negli occhi, dopo un decennio di sofferenze e di fughe, è ancora quella del sarcasmo. Ha l’aria di un ragazzino dal sorriso beffardo, intento a premeditare una nuova monelleria. L’aria che avevano quasi tutti i partecipanti, fuori dai ranghi delle “armate regolari”, a una guerra perduta in partenza, ma che si riteneva valesse comunque la pena combattere.