di Mario Tronti
Vi ricordate la conversazione tra Mrs e Mr Bridge nel film di Ivory? Dice lei, con il libro in mano: «Mi stavo chiedendo se hai mai letto Veblen. – Chi? – Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata». Dice lui, in poltrona: «Senti, ho avuto una giornataccia. Non posso passare la serata a parlare di un socialista svitato … ». Ecco. Forse non si può ripetere tale e quale la definizione di Wright Mills: «Thorstein Veblen è il miglior critico dell’America che l’America abbia prodotto». Bisognerebbe dire oggi: è uno dei migliori. Comunque, senz’altro vera, e più attuale che mai, è quest’altra definizione di Wright Mills: «Thorstein Veblen si rese conto che il mondo in cui viveva era dominato da quello che si potrebbe il “realismo dei pazzi”.» Stiamo parlando di un libro, un classico delle scienze sociali ma anche degli studi storici del Novecento, che compie cento anni, appunto La teoria della classe agiata, ripubblicato da Comunità, nella stessa traduzione Einaudi di Ferrarotti, risalente a cinquant’anni fa.
Un testo dunque che ha circolato nella nostra cultura, ma che forse ha inciso nelle sue pieghe meni di quanto avrebbe dovuto. Il riformismo debole di casa nostra non ha trovato il coraggio nemmeno di riferirsi a questa anticipata critica interna delle società affluenti, attraverso il racconto dello stile di vita delle classi dirigenti.
Perché questo è il discorso. «. Il termine “agiatezza” come qui è usato, non indica ignavia né ozio. Ciò che esso indica è un consumo, non produttivo di tempo. Il tempo è speso senza un lavoro produttivo. 1) per un senso di indegnità del lavoro produttivo, e 2) come un segno della capacità finanziaria di condurre una vita oziosa». Il termine di «classe agiata» viene da lontano. Si trova già nei più alti gradi della civiltà barbarica.
Comprende guerrieri e sacerdoti, anzi classi nobili e sacerdotali, insieme a molti elementi del loro seguito. « … L’istituzione di una classe agiata è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un’abitudine di vita pacifica a un’altra costantemente bellicosa». La distinzione tra occupazioni industriali e non industriali «è una forma derivata della distinzione barbarica fra impresa gloriosa e lavoro degradante». Due classi, «delle gesta e dell’industria»: gesta e acquisto per rapina da una parte, occupazione industriale dall’altra, come distinzione antagonistica. «Non c’è nessun momento nell’evoluzione culturale prima del quale non si incontri la lotta… Così è impraticabile una civiltà di rapina nei tempi antichi, finché le armi non si sono sviluppate a un punto tale da fare dell’uomo un animale temibile». Poi, «nell’ulteriore evoluzione culturale il sorgere di una classe agiata coincide con l’inizio della proprietà».
La a primissima forma di proprietà è proprietà delle donne da parte degli uomini capaci della comunità. «L’usanza di rapire donne al nemico come trofei diede origine a una forma di proprietà-matrimonío, che mise poi capo alla famiglia governata da un maschio». Dalla proprietà delle donne il concetto di proprietà si allarga fino a comprendere tanto le cose quanto le persone. «Dovunque si trova l’istituzione della proprietà privata, anche in forma poco sviluppata, il processo economico ha il carattere di una lotta fra uomini per il possesso dei beni… La proprietà ebbe origine come bottino considerato quale trofeo della razzia fortunata». Quando l’orda comincia a svilupparsi in una comunità industriale più o meno autosufficiente, «la proprietà accumulata sostituisce sempre più i trofei delle gesta predatorie come esponente convenzionale di strapotere e di successo». «Il possesso della ricchezza che all’inizio era considerato semplicemente prova di capacità, nell’opinione popolare diventa esso stesso atto meritorio». Così Veblen, nei primi capitoli della Teoria della classe agiata che precedono quelli decisivi su L’agiatezza vistosa e Il consumo vistoso. Dove – come dice Ferrarotti – questo studioso eretico, isolato, uomo di insuccesso, inventa un linguaggio per le scienze sociali del futuro, attraverso formule fortunatissime come «istinto dell’efficienza», «confronto antagonistico. , o «sciupio onorifico». Oltre a fungere da ponte tra Alfred Marshall e Schumpeter, riguardo a una teoria innovativa dell’imprenditore. Pensiero sociale il suo, non specialistico, proprio di uno spirito insofferente. Wright Mills definisce Veblen «una sorta di Wobbly intellettuale». I Wobblies, gli Industrial Workers of the World, furono, tra il 1905 e il 1920, il più importante gruppo proletario rivoluzionario degli Stati Uniti. Del resto lo stesso Wright Mills considerava attuale nel ’53, e noi possiamo considerare attuale nel ’99 quello che Veblen scrisse nel ’22: «L’America dei nostri giorni è stata sulla via di diventare una specie di clinica psichiatrica. Per capire il nostro paese vi sono senza dubbio molte altre cose da tener presenti, ma il problema americano non si può comprendere se non si tiene in debito contò un certo diffuso squilibrio e confusione mentale… Forse la prova più tipica e semplice di questo squilibrio psicologico si può vedere nella inaudita e febbrile credulità da cui sono affetti gran parte degli americani».
Veblen, nato nel Wisconsin, da una famiglia di emigrati norvegesi, è cultura europea impiantata in terra americana. Precursore dei francofortesi nel States. Nello stesso tempo è una delle poche correzioni anglosassoni del marxismo europeo. Fece un tentativo di scrivere quel capitolo antropologico mancante nell’opera scientifica di Marx. Ci ha descritto l’uomo capitalistico, qualcosa di più sociologicamente pregnante de «il borghese» di Sombart. Tra l’altro si tratta anche della donna, come mostra il gustosissimo capitolo su L’abbigliamento come espressione della cultura finanziaria. Ma abbiamo insistito sugli stadi primitivi di evoluzione nella psicologia di ostentazione della ricchezza e del potere, in una parola della proprietà, perché Veblen insiste molto sulla «conservazione delle caratteristiche arcaiche», nelle fasi più avanzate dello sviluppo: fino a un ritorno di caratteristiche barbariche nella civiltà industriale, e noi possiamo tranquillamente aggiungere, nelle società post-industriali.
La differenza è che l’adattamento selettivo darwiniano alla lotta per l’esistenza in una civiltà di rapina, non è più qui monopolio di una classe agiata ristretta, si è democraticamente esteso a una classe agiata diffusa, la società dei due terzi, comprendente il piccolo borghese, l’intellettuale medio, il lavoratore autonomo di prima e seconda generazione e, nella speranza dei cantori del nuovo, anche il prossimo lavoratore, flessibile, atipico, giovane e senza diritti, solo così avrà «l’opportunità» di passare dalla inoccupazione al lavoro. Scrive Vleben nel capitolo nono: «La caratteristica saliente della civiltà barbarica è una emulazione e un antagonismo incessanti fra le classi e gli individui». Possedere tratti selvaggi pacifici non aiuta nella lotta per la vita. Come non servono in regime di competizione «le doti di buon carattere, equità e simpatia per tutti». «Si può dire che, entro certi limiti, la libertà dagli scrupoli, dalla simpatia, dall’onestà e dal rispetto per la vita, favorisca il successo dell’individuo nella civiltà finanziaria». Rileggiamoli questi classici del Novecento, grandi anticipazioni sull’esito del secolo, lucidi sguardi sulle ombre che si addensano alla fine. Qualche libro in meno di quelli che escono ogni giorno a riempire gli scaffali della letteratura apologetica sulle cose così come sono andate. E qualche libro in più di questi che hanno fatto da lontano critica della cultura, cioè critica della civiltà, lumi troppo presto spenti per paura che potessero far vedere quello che non si deve guardare.
[da L’Unità]
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