di J.M. Coetzee
[Coetzee è stato insignito del premio Nobel per la letteratura 2003, Brodsky nel 1987. Il saggio che segue è stato pubblicato su la la Rivista dei Libri]
Nel 1986, Iosif Brodskij diede alle stampe Less than One, una raccolta di saggi uscita in Italia in due volumi: Il canto del pendolo e Fuga da Bisanzio. Alcuni saggi erano tradotti dal russo, altri li aveva scritti direttamente in inglese, mostrando di aver sviluppato una padronanza della lingua quasi al livello di un inglese di nascita.
In due casi, il fatto di scrivere in inglese aveva un significato simbolico per Brodskij: in un omaggio sincero a W.H. Auden, che lo aiutò immensamente quando fu obbligato a lasciare la Russia nel 1972 e che Brodskij considerava come il massimo poeta inglese del secolo; e in una nota biografica sui suoi genitori, che dovette abbandonare a Leningrado e che, nonostante le numerose richieste presentate alle autorità, non ottennero mai il permesso di andarlo a trovare. Per onorare i genitori, Brodskij affermava di aver scelto l’inglese come lingua della libertà.
Il canto del pendolo e Fuga da Bisanzio sono opere di grande forza, che contengono due saggi magistrali su Osip Mandel’stam, Anna Akmatova e Marina Cvetaeva, i poeti della generazione precedente a cui Brodskij si sentiva più vicino, oltre a due brevi capolavori di divertimento autobiografico: il racconto sui genitori e il saggio “Meno di uno”, che ha come tema la crescita in mezzo alla noia stordente della Leningrado degli anni Cinquanta. Vi sono anche saggi di viaggio: una gita a Istanbul, per esempio, suscita riflessioni sulla seconda Roma, Costantinopoli/Bisanzio, e sulla terza, Mosca, e quindi sul significato dell’Occidente per i russi in fase di occidentalizzazione come lui. Infine, due virtuosistici saggi critico-letterari in cui Brodskij interpreta e chiarisce alcune poesie che gli sono particolarmente care.
On Grief and Reason del ’96 — uscito anch’esso in Italia in due parti, la prima pubblicata nel ’98 con il titolo Dolore e ragione e la seconda, quest’anno, con il titolo Profilo di Clio — è una raccolta di saggi, tutti posteriori al 1986 tranne uno. Tra questi, alcuni stanno senza dubbio alla pari con le migliori opere precedenti. In “Trofei di guerra”, per esempio, un saggio di Dolore e ragione dalla forma classica e dal tocco leggero, Brodskij continua il racconto divertente e a volte toccante della sua giovinezza e, per esplorare il significato dell’Occidente per i russi, utilizza quelle tracce — scatolette di manzo salato e radio a onde corte, oltre al cinema e al jazz — che riuscirono ad attraversare la cortina di ferro. Data l’intensità dell’immaginazione con cui studiarono questi prodotti — suggerisce Brodskij — i russi della sua generazione sono stati “i veri occidentali… e forse gli unici”.
Nel suo viaggio autobiografico, Brodskij non è mai arrivato agli anni Sessanta, all’epoca del famoso processo in cui fu accusato di parassitismo sociale e condannato al lavoro correttivo nell’estremo Nord della Russia: il rifiuto di esibire le proprie ferite è sempre stato uno dei suoi tratti più ammirevoli. (“A ogni costo evitate di concedervi lo status di vittima”, è il consiglio rivolto a un pubblico di studenti in Profilo di Clio.)
Anche altri saggi ripartono dal punto in cui erano rimasti Il canto del pendolo e Fuga da Bisanzio. Il dialogo con Auden iniziato in “Per compiacere un’ombra” prosegue in “Lettera a Orazio”, mentre i lunghi saggi analitici su Thomas Hardy e Robert Frost si possono accostare alle sue precedenti interpretazioni delle poesie della Cvetaeva e di Auden.
Ciò nondimeno, i saggi qui recensiti non hanno nel complesso la stessa forza di quelli precedenti. Soltanto due — “Omaggio a Marco Aurelio” (1994) e “Lettera a Orazio” (1995) — indicano un chiaro progresso e un approfondimento del pensiero di Brodskij. Parecchi sono poco più che saggi d’occasione: un amaro resoconto di un convegno di scrittori (“Dopo un viaggio, ovvero omaggio alle vertebre”), per esempio, e i testi di un paio di discorsi d’apertura. Più espressivo è il fatto che quelle che in saggi precedenti erano sembrate singolarità passeggere si rivelano ora come elementi consolidati di una sistematica filosofia brodskiana del linguaggio.
Il saggio su Thomas Hardy, in Dolore e ragione, può illustrare il sistema nel modo migliore. Brodskij considera Hardy come un poeta importante e trascurato, che “raramente viene insegnato e ancor meno viene letto”, in particolare in America, dove i critici che rincorrono le mode lo relegano nel limbo del “premodernismo”.
Brodskij sceglie di presentare Hardy come un poeta trascurato nel contesto di un attacco al modernismo di influenza francese della scuola Pound-Eliot e a tutti gli “ismi” rivoluzionari dei primi decenni del secolo, che, a suo giudizio, hanno orientato la letteratura nella direzione sbagliata; inoltre, rivendica le prime posizioni nella letteratura angloamericana per Hardy e Frost e, in generale, per quei poeti che si sono appoggiati alla poetica tradizionale, invece di operare rotture. Brodskij respinge poi l’autorevole poetica antinaturalistica del critico russo Viktor Sklovskij, che si fonda su un’imperterrita artificiosità, sulla posizione di primo piano del meccanismo poetico. “È qui che il modernismo è andato fuori strada”, afferma Brodskij. L’estetica autenticamente moderna — l’estetica di Hardy, di Frost e, in seguito, di Auden — utilizza forme tradizionali perché la forma, come la mimetizzazione, consente allo scrittore di “assestare colpi più efficaci dove e quando meno ci si aspetta”.
Un linguaggio comune ed esplicito di questo genere spicca nei saggi letterari che sembrano esser nati dalle sue lezioni universitarie. La disposizione di Brodskij a giocare sul terreno del suo pubblico produce alcuni deplorevoli effetti, compreso un ampolloso scadimento di gusto (alcune righe di Rilke diventano “la più grande sequenza di tre similitudini esistente in tutta la storia della poesia”). Non pare che Brodskij sapesse valutare il significato sociale dello slang, che in gran parte è creato da gruppi privi di potere, in particolare i giovani, allo scopo di escludere gli estranei. Proprio perché marca un confine, la cortesia vuole che gli estranei rimangano al di là.
I poeti di gran forza hanno sempre creato una propria stirpe e, nel corso del processo, riscritto la storia della poesia. Brodskij non fa eccezione. Ciò che trovava in Hardy è, in una certa misura, ciò che desiderava che i lettori trovassero in lui; l’interpretazione di Hardy si fa più convincente quando Brodskij descrive in maniera velata le proprie abitudini e ambizioni. Scrive, per esempio, che il germe della famosa poesia di Hardy “The Convergence of the Twain” (sull’affondamento del Titanic) sta nell’espressione maiden voyage (“”il viaggio verginale”, ossia inaugurale”), che generò la fantasia centrale: la nave e l’iceberg come amanti predestinati. Il suggerimento, lasciato cadere quasi en passant, mi sembra un colpo di genio, ma al di là di ciò dà modo di penetrare nelle abitudini creative di Brodskij.
Dietro a “The Convergence of the Twain” di Hardy, Brodskij vede la presenza de Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer: la nave e l’iceberg si scontrano per volere di una forza metafisica cieca priva di qualsiasi scopo ultimo, una forza che Brodskij chiama “l’essenza interiore del mondo fenomenico”. Di per sé, il suggerimento non è nuovo: che Hardy avesse o meno in mente Schopenhauer, la varietà di determinismo pessimistico di quest’ultimo gli è evidentemente congeniale. Ma Brodskij si spinge oltre e raccomanda al pubblico di leggere Schopenhauer, “non solo per via di Mr. Hardy ma nel vostro interesse”. La volontà di Schopenhauer, quindi, non affascina soltanto l’Hardy di Brodskij, ma anche lo stesso Brodskij.
Di fatto, mediante l’interpretazione di cinque poesie, Brodskij intende far vedere che Hardy è il veicolo di una volontà schopenhaueriana che agisce attraverso il linguaggio: è più uno scriba usato dal linguaggio che un suo utilizzatore autonomo. In certi versi di “The Darking Thrush”, si ha la sensazione che “il linguaggio si riversi nel territorio dell’uomo dal regno di verità e di funzioni non umane, che esso sia in ultima analisi la voce di materia inanimata”. Benché tutto ciò possa essere diverso da quel che intendeva il poeta, “a questo mirava il verso stesso in Thomas Hardy, e lui reagì”. Quindi, ciò che interpretiamo come creatività potrebbe essere “nulla di più (o di meno) dei tentativi della materia di articolare se stessa”.
Ciò che qui si definisce come la voce della materia inanimata il più delle volte diventa, nei saggi di Brodskij, la voce del linguaggio, la voce della poesia, oppure la voce di uno specifico metro. Brodskij è fermamente antifreudiano, nel senso che non ha alcun interesse per il concetto di inconscio personale. Per lui, quindi, il linguaggio che si esprime attraverso i poeti ha un autentico status metafisico e, dato che a volte il linguaggio si è espresso attraverso Hardy, esso è capace di esprimersi attraverso tutti i veri poeti, Brodskij incluso. In maniera sconcertante, l’autore qui si ritrova niente affatto lontano da quel genere di critica culturale riduttiva che sostiene che il parlante è poco più del portavoce dei discorsi e delle ideologie dominanti. La differenza è che, mentre questo genere di critica ha fondamenti nella storia, l’idea di Brodskij è che il linguaggio — il linguaggio della poesia, che marca il tempo e ne è marcato — è una forza metafisica che agisce attraverso il tempo e nel suo ambito, ma al di fuori della storia. “La prosodia” è semplicemente “una provvista di tempo dentro il linguaggio”, scrive nel Canto del pendolo. “Il linguaggio è più antico dello Stato e … la prosodia sopravvive sempre alla storia.”
Brodskij è inequivocabile nel sottrarre ai poeti il controllo della storia e lo sviluppo della poesia per porgerli a un linguaggio metafisico — il linguaggio come volontà e rappresentazione. Nelle opere di Hardy, per esempio, segnala con grande acume una certa mancanza di una voce parlante percepibile, una sorta di “neutralità uditiva”, per poi suggerire che tale attributo apparentemente negativo si sarebbe rivelato di grande importanza per la poesia del XX secolo — esso potrebbe fare di Hardy “una figura profetica nella poesia inglese: era quello che essa aspettava e voleva per il proprio futuro”.
Come affermazione riguardo a Hardy o alla poesia in generale potrebbe non essere verificabile e quindi essere, nella stessa misura, priva di significato; in relazione alla prassi poetica dello stesso Brodskij, tuttavia, è interessante di per sé. Pure, per essere un’idea così fondamentale nella sua filosofia della poesia, è stranamente assente dalla sua poesia. Brodskij sceglie direttamente come tema l’esperienza di fare da portavoce al linguaggio soltanto in una o due poesie, e comunque in maniera fugace (naturalmente, avrebbe potuto sostenere che tutte le sue poesie incorporavano tale esperienza). Una spiegazione potrebbe essere che nella prosa discorsiva si può trattare l’esperienza in maniera più adeguata, a rispettosa distanza. Una spiegazione più interessante è che il tema metapoetico della poesia che riflette sulle condizioni della propria esistenza non compare nell’opera di Brodskij, poiché cercare, nelle sue poesie, di comprendere e quindi di controllare la forza che è dietro di lui, gli sarebbe parso un tentativo non soltanto sacrilego, ma anche inutile.
Eppure, nell’ambito del discorso sulla poesia oracolare rimane qualche cosa di strano, di eccentrico, nell’elevazione della prosodia in particolare allo status metafisico. “Si dovrebbe ricordare che i metri sono in sé poco meno che grandezze spirituali alle quali nulla si può sostituire”, scrive Brodskij in Fuga da Bisanzio; e — in Dolore e ragione — essi sono “un mezzo per ristrutturare il tempo”. Che cosa significa esattamente ristrutturare il tempo? Egli non lo spiega mai del tutto, o abbastanza. Vi si avvicina di più nel saggio su Mandel’stam in Fuga da Bisanzio, dove il tempo che si esprime attraverso Mandel’stam fronteggia lo “spazio muto” di Stalin; ma anche qui la parte essenziale del concetto rimane misteriosa, forse anche indecifrabile. Ciò malgrado, quando nel saggio su Thomas Hardy Brodskij sostiene che è “il linguaggio a utilizzare un essere umano, e non il contrario”, parrebbe avere in mente soprattutto i metri della poesia; e quando invoca la funzione educativa e addirittura di redenzione della poesia, è alla sottomissione ai ritmi della poesia che allude.
Se ho ragione, la posizione di Brodskij non sarebbe lontana da quella degli educatori dell’antica Atene, che prescrivevano agli studenti (maschi) un curriculum tripartito: musica (intesa a rendere ritmica e armoniosa l’anima), poesia e ginnastica. Platone ridusse a due le parti, con la musica che assorbiva la poesia per diventare la disciplina mentale e spirituale più importante. I poteri che Brodskij rivendica per la poesia sembrerebbero essere molto più caratteristici della musica. Per esempio, il tempo è il mezzo della musica in maniera molto più chiara di quanto lo sia per la poesia (leggiamo la poesia sulla pagina stampata alla velocità che vogliamo — più velocemente di quanto dovremmo — mentre la musica l’ascoltiamo secondo il suo tempo). La musica struttura il tempo in cui è eseguita — ciò le conferisce la sua forma intenzionale — più chiaramente della poesia. Perché allora Brodskij non cerca di dimostrare la sua tesi a favore della poesia seguendo la linea di Platone, per cui la poesia è una specie di musica?
La risposta, ovvia, è che, mentre è possibile che il linguaggio tecnico della prosodia derivi dal linguaggio tecnico della musica, la poesia non è una specie di musica. In maniera specifica, funziona con le parole, non con i suoni, e le parole hanno significato, mentre la dimensione semantica della musica è al più connotativa, quindi secondaria.
Disponiamo sin dall’antichità di una descrizione dettagliata, presa in prestito dalla musica, della fonetica della poesia; abbiamo anche elaborato una miriade di teorie sulla semantica della poesia. Ciò che ci manca è una teoria di consenso generale che riunisca i due aspetti. Gli ultimi critici americani che hanno creduto di possedere una teoria siffatta furono i “nuovi critici”: il loro stile interpretativo, piuttosto arido, si esaurì e scomparve agli inizi degli anni Sessanta. Da quel momento, la poesia, e la poesia lirica in particolare, è diventata imbarazzante per la professione critica, o quanto meno per il ramo accademico della professione, dove si tende a leggere la poesia come una prosa con il margine destro frastagliato e non come un’arte che è tale per suo diritto.
“Un’immodesta proposta”, saggio del 1991 contenuto in Dolore e ragione, lancia un appello in favore di un programma federale per la distribuzione di milioni di antologie della poesia americana in edizione economica. Qui Brodskij suggerisce che versi quali quelli di Frost — “No memory of having starred/ Atones for later disregard,/ Or keeps the end from being hard [Nessun ricordo di passati onori/ può ripagarti di un tramonto oscuro/ o attenua la durezza della fine]” — dovrebbero scorrere nella vene di tutti i cittadini, non soltanto perché costituiscono un lapidario memento mori, e non soltanto perché esemplificano il linguaggio al massimo della sua purezza e capacità espressiva, ma perché, nell’assorbirli e farli nostri, lavoriamo per realizzare uno scopo evolutivo: “Il fine dell’evoluzione — ci crediate o no — è la bellezza”.
Forse. Ma che succede se si fanno esperimenti? Che succede se riscriviamo i versi di Frost nella maniera seguente: “Memories of having starred/ Atone for later disregard/ And keep the end from being hard [I ricordi di esperienze passate/ ripagano di un trattamento oscuro / e attenuano la durezza della fine]”? Per quanto io possa giudicare, dal punto di vista della sola metrica la seconda versione non è inferiore all’originale di Frost, tuttavia ha il significato opposto. Per Brodskij, questi versi avrebbero avuto i requisiti per scorrere nelle vene della nazione? La risposta è no, perché non sono i versi autentici. Ma dimostrare in che modo e perché non sono autentici richiede una poetica con una dimensione storica, capace di spiegare perché l’originale di Frost, che nasce nel momento storico in cui nasce, si costruisce un posto nel tempo (ristruttura il tempo), mentre la versione alternativa, la parodia, non può farlo.
Una poetica siffatta dovrebbe riservare alla prosodia e alla semantica un trattamento unitario e storico. Il fatto che un maestro (e Brodskij chiaramente si giudicava tale) affermi che la poesia genuina ristruttura il tempo significa poco se poi non può dimostrare perché quella non autentica non lo fa. Insomma, vi sono due aspetti nella poetica critica di Brodskij. Da una parte, vi è una superstruttura metafisica in cui il linguaggio-Musa si esprime tramite il poeta, realizzando in tal modo i suoi personali scopi storico-universali (evolutivi). Dall’altra, vi è un insieme di intuizioni riguardo all’effettivo funzionamento di certe poesie scritte in inglese, in russo e (in misura inferiore) in tedesco.
Le poesie scelte da Brodskij sono chiaramente quelle che ama; i suoi commenti sono sempre intelligenti, spesso penetranti, a volte affascinanti. Dubito che Mandel’stam o Hardy abbiano mai avuto un lettore più comprensivo, più attento e più capace di aggiungere la propria creatività a quella dell’autore. Per fortuna, è possibile staccare la superstruttura metafisica del suo sistema e metterla da parte, rimanendo con un insieme di interpretazioni critiche che nella loro ambizione e finezza di dettaglio svergognano la critica accademica contemporanea della poesia.
È possibile che la critica accademica impari una lezione da Brodskij? Temo di no. Per lavorare al suo livello, è necessario vivere a stretto contatto con i grandi poeti del passato e forse anche ricevere qualche visita della Musa.
Era possibile che Brodskij imparasse una lezione dall’accademia? Sì, avrebbe potuto imparare a non pubblicare gli appunti per le lezioni in versione integrale, non riveduti né riassunti, comprese le battute e gli assolo. Sarebbe stato proficuo ridurre le lezioni su Frost, Hardy e Rilke di dieci-quindici pagine ciascuna.
Nonostante i saltuari accenni e alcuni riferimenti diretti alla sua condizione di esule e immigrante, in questi saggi, a parte una bizzarra e inconcludente dissertazione sulla spia Kim Philby, Brodskij non si rivolge mai alla politica pura e semplice. A rischio di un’eccessiva semplificazione, si può affermare che egli disperasse della politica e che per la redenzione si rivolgesse alla letteratura.
In una lettera aperta a Václav Havel, egli suggeriva che Havel abbandonasse la pretesa che il comunismo in Europa centrale sia stato imposto dall’estero e riconoscesse che fu il risultato di una “spaventosa caduta antropologica” la cui base era niente di più e niente di meno del peccato originale. Il presidente, scrive Brodskij, farebbe bene ad accettare la premessa che l’uomo è intrinsecamente malvagio; la rieducazione dei cechi potrebbe iniziare con alcune dosi di Proust, Kafka, Faulkner e Camus nei quotidiani. Nel Canto del pendolo, Brodskij criticava Solzenicyn per i medesimi motivi, vale a dire per il rifiuto di accettare ciò che la ragione gli dice con chiarezza: l’umanità è radicalmente malvagia.
Nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Nobel, Brodskij delineava un credo estetico su cui costruire una vita pubblica etica. “L’estetica”, afferma Brodskij, “è la madre dell’etica”, nel senso che l’esercizio alle distinzioni estetiche sottili insegna a operare distinzioni etiche sottili. La buona arte è quindi dalla parte del bene. Il male, d’altro canto, “il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista”. (In momenti come questo, Brodskij si ritrova vicino al suo illustre predecessore russo-americano, l’aristocratico Vladimir Nabokov, più di quanto forse avrebbe voluto.)
Entrare in dialogo con la letteratura di alto livello, prosegue Brodskij, stimola nel lettore “il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza, trasformandolo da animale sociale in un “Io” autonomo”. In Fuga da Bisanzio, aveva elogiato la poesia russa per l'”esempio di purezza e fermezza morale”, non da ultimo a causa della conservazione delle forme letterarie classiche. In Profilo di Clio, respinge il nichilismo del postmodernismo, “la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata”, sostenendo invece l’esempio dei poeti dell’Europa orientale della sua generazione — non ne fa i nomi — che, sulla scia dell’Olocausto e dei Gulag, si presero l’incarico di riedificare una cultura universale comune e quindi di ricostruire l’umana dignità.
Non è abitudine di Brodskij attaccare o discutere gli avversari filosofici, e neanche citarne il nome. Per tale ragione, si può soltanto cercare di indovinare come avrebbe replicato alle argomentazioni seguenti: le opere d’arte (i “testi”) creano tanto comunità di lettori quanto individui; il rilievo dato da Brodskij a una relazione fortemente individuale tra il lettore e il testo è storicamente e culturalmente limitato; ciò che Brodskij (seguendo Mandel’stam) chiama “cultura mondiale” è soltanto la cultura di livello superiore dell’Europa occidentale in una sua particolare fase storica. Non si può dubitare, comunque, che Brodskij avrebbe respinto tali argomentazioni.
In Russia la poesia ha un pubblico numeroso, impegnato e informato e molti sono i fattori che hanno contribuito: il prestigio di cui godono i poeti in Russia sin dai tempi di Puskin, l’esempio dei grandi poeti che tennero viva la fiamma dell’integrità individuale durante la notte oscura di Stalin, oltre alla tradizione russa assai radicata di leggere e imparare a memoria le poesie, la disponibilità di edizioni economiche dei classici e la condizione pressoché sacra dei testi proibiti durante il periodo dei samizdat.
La propensione degli studi letterari russi all’analisi linguistica — in parte una continuazione dei progressi del Formalismo degli anni Venti, in parte una reazione difensiva al bando, in vigore dal 1934, della critica letteraria non allineata con il dogma del socialismo reale — ha ulteriormente stimolato un discorso critico difficile da uguagliare in Occidente per il grado di raffinatezza tecnica.
Un’incessante attività, congiunta a continui e ironici passi indietro, è caratteristica tanto della prosa quanto dei versi di Brodskij e probabilmente irriterà i lettori dei saggi qui recensiti. Il brusco cambiamento di direzione è peculiare alla logica di Brodskij: i pensieri non hanno il tempo di svilupparsi perché vengono interrotti, messi in discussione, in dubbio, sottoposti a restrizioni che, con ricercata ironia, vengono a loro volta sottoposte a discussione e puntualizzate. Vi è un continuo andirivieni tra stile colloquiale e formale e quando sta per arrivare una battuta spiritosa, si può esser certi che Brodskij le andrà incontro di corsa. Per l’attrazione che suscitano in lui i fenomeni di riverberazione del suono nella lingua inglese, Brodskij non è dissimile da Nabokov, di nuovo, benché l’immaginazione linguistica di Nabokov fosse più disciplinata (ma anche, forse, più inibita).
Il problema della coerenza di tono si fa particolarmente spiccato nei saggi che hanno come origine i discorsi pubblici, in cui, come se tentasse di sopprimere l’abituale movimento laterale dei suoi pensieri, Brodskij si dedica ad ampie generalizzazioni e a una prosa vacua, da sala delle conferenze. (Eccone un saggio da Profilo di Clio: “Dato che lo scopo generale di qualsiasi società è la salvezza di tutti i suoi membri, essa deve anzitutto postulare la totale arbitrarietà della storia, e il valore limitato di ogni esperienza negativa che venga registrata”.)
In questo caso, le difficoltà di Brodskij potrebbero essere dovute, in parte, al temperamento — è chiaro che le occasioni pubbliche non accendono la sua immaginazione — ma, come ha osservato il critico americano David Bethea, si tratta anche di difficoltà linguistiche. Brodskij, sostiene Bethea, non padroneggia il livello “semicivico” del modo di parlare americano, così come non è arrivato a dominare del tutto le nuances dello spirito ironico, che secondo Bethea è l’ultimissimo livello della lingua inglese di cui si impadroniscano gli stranieri.
Si può affrontare in altro modo il problema di Brodskij con il tono chiedendosi se i suoi immaginari interlocutori siano sempre alla sua altezza. Le sue lezioni e i suoi discorsi sembrano contenere un elemento di condiscendenza e sussiego che lo porta non soltanto a semplificare l’argomento, ma anche a dire spiritosaggini e, in genere, ad appiattire la gamma emotiva e intellettuale; di contro, quando è da solo con un soggetto suo pari, questa irrequietezza di tono scompare.
Vediamo Brodskij essere davvero all’altezza dell’argomento nei due saggi romani: “Omaggio a Marco Aurelio” (Profilo di Clio) e “Lettera a Orazio” (Dolore e ragione). Il saggio su Marco Aurelio, per la sua estesa gamma emotiva, è uno dei più ambiziosi di questo autore, come se la nobiltà del soggetto lo lasciasse libero di esplorare una certa malinconica grandeur. Brodskij, al pari di Zbigniew Herbert (di cui condivide in buona misura il pessimismo stoico nei confronti degli affari pubblici), si rivolge a Marco Aurelio come all’unico dominatore romano con cui sia possibile una sorta di comunione attraverso i secoli. “Sei stato semplicemente uno degli uomini migliori mai vissuti, ed eri ossessionato dal senso del dovere perché eri ossessionato dalla virtù”, sono le sue toccanti parole. Dovremmo scegliere sempre governanti in cui, come in Marco Aurelio, sia evidente “una vena percettibile di malinconia”, aggiunge tristemente.
Il saggio più pregevole contenuto in Dolore e ragione è altrettanto elegiaco. La forma è quella di una lettera da Brodskij il russo, o l’iperboreo (come dicevano i romani), a Orazio abitante degli Inferi. Orazio è, se non il poeta romano preferito (il primo posto è di Ovidio), quanto meno il grande poeta del “malinconico equilibrio”. Brodskij gioca con l’idea fantastica che Orazio abbia appena concluso un periodo di servizio sulla Terra sotto le spoglie di Auden e che Orazio, Auden e lo stesso Brodskij siano quindi il medesimo temperamento poetico, se non lo stesso individuo, rinato in successive metamorfosi pitagoriche. Nelle riflessioni sulla morte del poeta, sulla scomparsa dell’uomo e sulla sua sopravvivenza nell’eco dei metri poetici da lui serviti, la prosa di Brodskij raggiunge toni nuovi, complessi e dolceamari.
(Traduzione di Simonetta Frediani)
IOSIF BRODSKIJ, Dolore e ragione, trad. di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, pp. 268, e 18,00
IOSIF BRODSKIJ, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi, pp. 290, €20,00