Guardo le bolle che vengono in superficie. Respiro: l’acqua nel bottiglione si increspa. Provo a
parlare e le bolle si moltiplicano come i tagli della mia anima. Osservo il tubo di gomma che dal
mio petto esce, forma un’ansa e discende nel vaso di vetro, ai piedi del letto: fa male.
Tutto è dolore.
Come ci sono arrivata qui? All’ospedale, dico. La diagnosi la conosco: pneumotorace. E’ il terzo in
un mese. Al termine medico, neutro, anonimo, preferisco la frase: mi è scoppiato il polmone!
Ridono i medici, gli amici e anche tu hai riso. A volte rido anch’io, poi la fitta spegne la risata
in una smorfia e tutto diventa aria, quella maledetta aria che si è insinuata tra la pleura e il
polmone come l’altra donna, che si è infilata tra noi. Come una coltellata alla scapola destra,
improvvisa, non prevista. E il polmone non ha retto, è collassato.
Provo a tossire: nei dieci centimetri d’acqua scoppia la tempesta, e ribolle, il liquido sembra
non avere pace. Io non ho pace.
Penso. Ora.
Penso che mi hai sempre tradito, durante la gravidanza, dopo e persino mentre partorivo tuo figlio.
Sei un gran bastardo. Tu che dicevi di amarmi non ci sei mentre pezzetti di me evaporano
nell’acqua della bottiglia. Anche mentre mi bucavano il torace per infilarmi il tubo non c’eri.
Il tuo corpo era presente, la tua mente però pensava già al fastidio di dover venire in
ospedale. Pure il chirurgo se n’è accorto durante la recita del marito devoto.
Signora, quando c’è suo marito lei peggiora! Forse sarebbe il caso non venisse più.
Sono giorni che sto in questa stanza d’ospedale, siamo in cinque. Le due signore accanto le
hanno operate la settimana scorsa, la poveretta del letto di fronte sta morendo, la ragazza dall’altra
parte è tutta fratturata per un incidente. E’ il mese di luglio, la finestra è rotta: l’aria irrespirabile,
c’è odore di morte, di merda e di sangue. Non riesco nemmeno a piangere, le lacrime sono tutte
nella bottiglia. Piango nel polmone afflosciato, bolle d’aria trovano sfogo nel tubo di drenaggio,
scorrono lungo la via di plastica e si riversano nell’acqua. Ci gioco, trattengo il fiato per vedere la
calma piatta; sospiro e una leggera brezza muove il liquido; tossisco: si crea il caos.
Vado avanti per ore come ipnotizzata, il vaso è una sfera, cristallo, posso leggere
il passato e il futuro.
Una volta dicevi che ero io la donna della tua vita, senza di me il mondo non esisteva, mi
chiamavi principessa e seminavi la casa di biglietti con scritto ti amo e tuo per sempre: il passato.
Domani l’intervento. Quando tornerò a casa te ne andrai con l’altra, la donna della tua vita.
Non ci sarai: il futuro.
Il presente è la tortura del dolore fisico a tratti insopportabile. Eh sì, perché mentre il polmone
risale, comprime il tubo sottile: un corpo estraneo dentro di me.
Fa male, un male cane. Vorrei urlare, gridare che non ce la faccio a resistere, che ti odio.
Poi la ragione parla, sussurra, cerca di convincermi: tu non c’entri, non c’è causa per il
pneumotorace, è accaduto punto e basta. Un’altra voce, profonda, sale dalle viscere, ribatte che
nei polmoni risiede il dolore.
Quella sera, quando hai detto che te ne andavi, non ci sono state scenate. Forse se fosse esplosa
tutta la mia rabbia, dico forse, non mi sarebbe scoppiato qualcosa dentro. Qui, nel torace, proprio
dove entra questo maledetto tubo. Un dolore sordo e inaspettato, un’esplosione come quella di un
vulcano che erutta dopo anni di inattività, una coltellata alla schiena e poi il silenzio.
Fuori un pezzo di ghiaccio, dentro morivo.
Domani mi operano, non sanno ancora se mi apriranno completamente o riusciranno a
intervenire con quella tecnica nuova: ti entrano dentro facendo tre buchi. Sarà una sorpresa.
Riattaccheranno il polmone alla pleura, potrò respirare di nuovo senza sentirmi morire ogni volta
che un pezzetto di mondo cerca di entrare e di uscire da me.
Il ritmo del respiro: ti accorgi della sua esistenza solo quando sembra sfuggirti.
Guardo la bottiglia, gioco con le bolle d’aria che salgono in superficie, le conto, le faccio
saltare, le calmo, le cullo. Gioco con il mio respiro finché non ne rimane una sola: la osservo.
Mi viene in mente quando da bambina giocavo con le bolle di sapone e cercavo di soffiarci sopra
per farle volare, fino al momento in cui scoppiavano nell’aria. Tu sei una bolla di sapone, a un certo
punto sei scoppiato: ecco non è rimasto più nulla. Sto con il dolore per l’ultima notte, voglio
ascoltarlo fino in fondo, diventare il dolore per ricordarmi chi sei.
Domani sarà tutto finito.