di Danilo Arona
Cosa si dovrebbe scrivere o dire quando uno dei registi che più hai amato nel bel tempo che fu ti esce con un film come questo? Personalmente da qualche anno taccio. Per due motivi: il primo, mi è capitato di conoscere Dario Argento, trovandolo sicuramente migliore (colto, raffinato, simpatico e “modesto”) degli ultimi film da lui firmati; il secondo, da quando mi sono messo a lavorare sulla narrativa di genere, avverto molto più pudore nel raffrontarmi in quanto critico con gli altrui prodotti. Così, ad un recente incontro palermitano organizzato da Dario Flaccovio, me ne sono stato ben muto in angolo ad ascoltare l’infuocata tenzone tra l’argentiana senza condizioni Alda Teodorani e lo scrittore Giacomo Cacciatore, come tanti sconfortato dagli ultimi film di Argento.
Però Il cartaio è un film che ti obbliga a uscire dalla codarda neutralità.
A volte un film che non si riesce ad amare lo si può certo odiare. A me e a molti di voi sarà capitato, una volta nella vita, di “odiare” un’opera cinematografica. Un film che si odia, di solito, ha in ogni caso una sua intensità, una sua collocazione. Non sono pochi, ad esempio, quelli che odiano certe cose “estreme” di Lynch o Ferrara. Si può dissentire, ovvio, ma il loro atteggiamento è comprensibile.
Il cartaio non rientra neppure in questa categoria. E’ impossibile amarlo, ma risulta così imbarazzante da non poterlo neppure aborrire. Dopo dieci minuti ti devi pizzicare sulla pudenda sinistra per costringerti a ricordare che stai vedendo l’ultimo film di Dario Argento, quello di Profondo rosso e Suspiria, il regista italiano che mostri sacri americani (Friedkin, Raimi, Carpenter) hanno definito “maestro di cinema”. Non c’è nulla di riconoscibile come “argentiano” in questo sconcertante sottoprodotto che sembra la 22° puntata di Distretto di polizia (ma quelli hanno sceneggiature di ferro specie se sono firmate da Fois), recitata in modo cagnesco e dialoghi inverosimili, dove un plot di povertà totale si affanna a de-costruirsi attorno all’idea neppure malaccio del videopoker tra il serial killer e la polizia. Nulla, né l’audacia inventiva, né la “solita” metariflessione sulla verità dell’immagine (quella che si vede è aria super-fritta che pesca da un grumo di suggestioni già storiche alla Strange Days o alla Ring), né l’atmosfera, né le musiche da rave di Simonetti, neppure quel minimo d’approfondimento caratteriale o psicologico che dovrebbe caratterizzare anche il più raffazzonato prodotto di genere e che in ogni caso era presente nelle prime opere del nostro. Piccoli spot qua è là che piluccano (citano?) situazioni e idee altrui, da Il silenzio degli innocenti (il seme di passiflora negli orifizi delle vittime) ai tanti cyber-killers che hanno affollato il noir cineletterario dell’ultimo decennio, dalla Bigelow a Jeffery Deaver, con rimandi in blocco a frammenti di proprio e glorioso cinema (la traccia sonora delle cannonate del Gianicolo che sta al verso del volatile esotico ne L’uccello dalle piume di cristallo e la scoperta della derelitta villa del cartaio che ricalca pari pari quella di Profondo rosso). Di suspense e motivazioni nemmeno dal buco della serratura: il mestiere del nostro, quale noi lo conosciamo, s’intravede soltanto nella sequenza notturna dell’aggressione notturna a Stefania Rocca, ma è tutto perché poi ci tocca fare i conti con l’assassino che è un poliziotto collega della Rocca (e che uccide via Internet perché lei non se lo fila…), con un finale che ti lascia inebetito per la comicità speriamo involontaria, con la patetica falsa pista del barista e altro che mi sono dimenticato.
Insomma, alla fine questo film non lo odi. Ti guardi attorno, mentre si accendono le luci, e scopri nello sguardo di molti una tonalità di tenerezza. Esatto, Il cartaio fa tenerezza, ma suscita anche rimpianti che fanno male al cuore di chi ha amato Dario Argento. Perché, accidenti, chi non ha amato L’uccello dalle piume di cristallo o Profondo rosso, e la loro forza dirompente rispetto al cinema dell’epoca?
Una domanda in ogni caso bisogna porsela: qual è in realtà il problema del film, ammesso e non concesso che di problema si tratti? Mi pare non esistano dubbi: la scrittura. Non c’è. Questo film non è scritto. Sta insieme. Grazie ad un regista che notoriamente gira come pochi e che fa sfoggio per un’ora e tre quarti della bravura e del know how che nessuno al mondo potrebbe negargli. Magari agli argentiani doc e sfegatati come i Tentori e le Teodorani ciò può bastare. Ma al mondo reale non basta più. I film che ti lambiscono le viscere, attualmente, esibiscono testi d’acciaio che sfidano le intelligenze di chi li vede, raccogliendone le provocazioni. Soprattutto nel thriller e nel noir, mai come oggi divenuti meta-generi oltre lo steccato delle convenzioni. Dario Argento abbisogna di un testo d’acciaio, con le palle e il sudore intellettuale della sofferenza creativa. Quando questo connubbio avverrà, saranno forse nozze di sangue, magari il capolavoro che in tanti attendono ancora.
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