L’anello che non tiene, il bellissimo saggio di Lucio Del Corso e Paolo Pecere edito da minimum fax, è un testo di cui si avvertiva la mancanza da almeno due decenni in Italia. Per comprendere i motivi di questa disperazione per assenza, basti leggere l’esplicativo sottotitolo del libro: Tolkien fra letteratura e mistificazione. A quale mistificazione si allude, qui? A una distorsione importante, che per anni gli intellettuali italiani hanno contribuito a fare crescere a dismisura, per cecità, incapacità e mancanza di cultura: che il fantastico esoterico fosse un apparato conoscitivo e artistico di destra. Mi si passi la greve espressione: fu una cazzata.
Fu una cazzata sotto ogni punto di vista: anzitutto critico, poi politico. Critico: perché è impossibile avvicinare la letteratura con categorie tanto idiote ed esogene, da un lato; e poi perché questo giudizio tranciante lasciava intendere la stima che i critici nutrivano nei confronti della letteratura fantastica. Politico: perché la destra non ha una cultura, non ha elaborato mai una cultura e non la elaborerà mai, per il fatto che considera la cultura come atto sovrastrutturale. C’è tuttavia un motivo di più profonda incomprensione dell’umano, nei trascorsi momenti di sottovalutazione politica del fantastico: ed è che il fantastico è il politico. L’abominio tradizionalista sventagliato nelle bocche destrorse nulla ha a che vedere, come bene indicò Furio Jesi, con il patrimonio archetipale umano, che del fantastico è la materia di elaborazione. Qui non si tratta di sdoganare nessuno: Guénon resta un reazionario, ma, se si vuole comprendere il sistema simbolico di certe tradizioni, volenti o nolenti bisogna leggere Guénon.
Ecco, dunque, perché L’anello che non tiene diventa non solo una vasta escursione tolkeniana, ma un profondo lavoro di corretta rilettura di un macrogenere letterario, che coincide con il patrimonio del politico e dell’immaginario della nostra contemporaneità.
Pubblichiamo qui la recensione a L’anello che non tiene apparsa su una testata che, in questo caso, è al di sopra delle parti: Avvenire. L’autore è Alessandro Zaccuri, che di fantastico letterario e cinematografico se ne intende parecchio, avendo anni fa pubblicato per Fazi lo splendido Citazioni pericolose, quello che va considerato uno dei saggi italiani più importanti sull’immaginario in epoca contemporanea.
E poi gli hobbit si buttarono a destra
Un saggio indaga trent’anni di prefazioni cambiate, volantini ciclostilati e siti Internet. Perché «le radici profonde non gelano».
di Alessandro Zaccuri
[Avvenire – 18 settembre 2003+
Qualche anno fa, quando iniziarono a circolare le prime notizie su una nuova versione cinematografica del Signore degli Anelli, la critica italiana di sinistra si allarmò. E non poco. Ma come, protestavano, ritorna Tolkien, e con Tolkien ritornano il sangue e il suolo, le croci celtiche e magari anche quelle uncinate…
Se avessero provato a condividere simili preoccupazioni con qualche collega straniero, i critici nostrani avrebbero fatto fatica a spiegarsi. Anche dal punto di vista strettamente cinematografico, infatti, sulla scena internazionale Tolkien ha una fama tutt’altro che reazionaria. Basti ricordare che il primo tentativo di trasformare in un lungometraggio la saga del Signore degli Anelli era stato realizzato (senza particolare successo) nel 1978 da un cartoonist molto libertario come Ralph Bakshi. Del resto, lo stesso Peter Jackson – il regista della spettacolare trilogia cinematografica che sta per concludersi con l’uscita de Il ritorno del re -, continua a coltivare molto gelosamente il proprio profilo di neozelandese anarcoide e allergico allo star system hollywoodiano.
Insomma, l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui Tolkien è tenuto in forte sospetto antidemocratico. Vogliamo dirla tutta? Da noi Il Signore degli Anelli è stato a lungo considerato un libro, se non fascista tout-court, almeno neofascista. E pazienza se una delle prime interpretazioni del romanzo – peraltro respinta dallo stesso autore – identificava Hitler in Saruman, zelante servitore tecnologico dell’Oscuro Signore, riservando agli Alleati il ruolo salvifico che nel racconto è svolto dall’hobbit Frodo e da tutta la Compagnia dell’Anello.
Ma come può essere nato un fraintendimento così clamoroso? Come è potuto accadere che la pacifica Contea da cui Bilbo Baggins parte per le sue avventure diventasse il teatro dell’ennesimo mistero all’italiana? Se lo sono chiesti due giovani studiosi non ancora trentenni, Lucio Del Corso e Paolo Pecere, studioso di paleografia greca il primo e di filosofia il secondo. Due dei tanti lettori che, pur apprezzando le favole di Tolkien, fanno fatica a riconoscersi nella vulgata corrente. Il risultato di questo disagio è un libro agile e documentatissimo, polemicamente intitolato L’anello che non tiene (minimum fax, pagine 224, euro 7,50). Un’analisi di «Tolkien fra letteratura e mistificazione», precisa il sottotitolo, che prende in esame un trentennio abbondante di letture e riletture all’italiana. A partire dal fatidico 1970, quando arriva in libreria l’edizione Rusconi del Signore degli Anelli accompagnata dalla prefazione in cui Elémire Zolla traccia le linee dell’interpretazione «tradizionale» dell’opera. Un saggio, sottolineano a più riprese Del Corso e Pecere, che sostituisce la prefazione dettata dallo stesso Tolkien per l’edizione inglese del 1966, nel quale il filologo-romanziere denunciava come arbitraria qualsiasi operazione allegorica compiuta a partire dal suo testo. Prima di arrivare in Italia, infatti, Il Signore degli Anelli aveva già fatto la sua brava militanza politica nei campus universitari statunitensi, dove il mite Frodo era stato arruolato a forza tra i contestatori stile Berkeley. Non per niente, la stessa Rusconi aveva pensato bene di presentare il librone con l’ambigua qualifica di «Bibbia degli hippies», nonostante il saggio di Zolla andasse in tutt’altra direzione, e cioè verso la riscoperta di una filosofia perenne espressa attraverso il linguaggio del mito e destinata a sfociare nel rifiuto del mondo moderno. In altre parole, Tolkien come araldo di una Tradizione che, prima di Zolla, era stata propugnata da un pensatore all’epoca davvero impresentabile come Julius Evola. La svolta decisiva, però, avviene nel 1977, quando i giovani del Movimento sociale italiano scelgono di apporre l’insegna di «Campo Hobbit» al proprio raduno estivo, dando origine a una tradizione (con la t minuscola, questa volta) che si protrae ancora oggi, come testimonia il minuzioso lavoro di ricerca di Del Corso e Pecere. Passato dai volantini ciclostilati ai siti Internet, un verso come «le radici profonde non gelano» si è trasformato in uno slogan politico dal tono vagamente minaccioso, appena appena stemperato dalla vicinanza con le foto di Liv Tyler, la bella attrice americana che sullo schermo interpreta l’elfa Arwen.
Fin qui, il come. Resta da capire il perché. Una possibile risposta, lasciano intendere gli autori, sta nella difficoltà, per la destra degli anni Settanta, di rintracciare un sistema di riferimenti culturali che non risultasse compromesso con le vicende storiche del fascismo. Nasce da qui l’equivoco principale, quello di un romanzo (tale Tolkien ha sempre considerato la sua opera) interpretato alla stregua di un mito: filosofia perenne, esoterismo, tradizione. Con un ulteriore paradosso, che nel nostro Paese ha portato a leggere come testi «impegnati» in senso politico anche i prodotti della heroic fantasy più commerciale, nella quale il complesso sistema di riferimenti culturali sotteso al Signore degli Anelli si riduce a mero – e talvolta anche un po’ ridicolo – espediente narrativo.
Caso singolare, quello del Tolkien «di destra», ma anche abbastanza sintomatico, come sostiene Andrea Cortellessa nella sua postfazione all’Anello che non tiene. È quella che Harold Bloom chiamerebbe «mislettura» e Richard Rorty «transvalutazione»: la pretesa che un testo letterario debba significare sempre altro rispetto alle intenzioni dell’autore. È così, in fondo, che nascono le leggende.