di Ferdinando Fasce
[da altroNovecento]
Un autorevole
osservatore e consulente di politica estera statunitense si chiedeva,
nella primavera del 2001, a conclusione di un’impegnativa rassegna
della storia delle relazioni internazionali USA: ” Che tipo di egemonia
vogliamo e perchè? Quali sono le politiche che conservano al
loro interno la nostra parte migliore e allo stesso tempo minimizzano
i rischi e i costi associati al mantenimento di un dominio mondiale?
Che senso ha il nostro ‘impero’? Quello di renderci ricchi, di proteggerci,
o di costruire un mondo migliore? Qualunque sforzo per sviluppare
una visione efficace sulla politica estera non deve tralasciare queste
e altre tematiche.” 1
Lo sforzo recente sicuramente più ambizioso e discusso di articolare
la politica estera statunitense è naturalmente la cosiddetta “Dottrina
Bush”. Essa forma l’oggetto centrale del presente saggio. Il quale
si concentra perciò più sulle enunciazioni strategiche che sulle politiche,
anche se cerca di collocare tali enunciazioni nel loro contesto e
dunque non manca di far riferimento alle politiche stesse. Ma appunto
l’intento principale è rileggere il dopo-11 settembre alla luce della
sinora più organica formulazione della linea di relazioni internazionali
USA successiva ai terribili attentati terroristici, ricostruendo la
genesi e la morfologia della dottrina, evidenziandone novità, continuità,
problemi e contraddizioni, e accennando infine alle possibili ricadute
sul caso iracheno. Anche se non mancherà qualche riferimento al dibattito
mondiale in proposito, l’attenzione è comunque qui concentrata sulla
discussione interna agli Stati Uniti. 2
1.
La Dottrina Bush
Oltre a portare
il nome di colui che si può considerare con tutta probabilità “il
meno colto (presidente) della storia degli Stati Uniti” 3
(ma che non per questo, non va preso sul serio 4),
la dottrina Bush ha due caratteristiche peculiari finora non adeguatamente
considerate. Anzitutto si tratta del primo caso di “dottrina” elaborata
in tempo di guerra. Non bisogna dimenticare infatti che gli Stati
Uniti sono, secondo quanto ha ribadito più volte, dall’11 settembre,
il loro presidente, una nazione in guerra.
La seconda peculiarità della Dottrina Bush è il fatto che si tratta
di un dispositivo processuale, costruito gradualmente nel tempo. Le
altre dottrine di politica estera magari assumevano tale nome in seguito
– com’è il caso della Dottrina di Monroe, enunciata nel 1823, ma che
comincia ad essere chiamata così solo un trentennio più tardi – ma
si esaurivano in una formulazione determinata, data una volta per
tutte, legata a un atto ufficiale e a una datazione specifica. Invece
qui abbiamo una specie di work in progress: come dicevano nella
primavera del 2002 (quando cioè essa entra stabilmente nel lessico
politico) 5, due convinti sostenitori
di questa formula nella sua interpretazione più ambiziosa e aggressiva,
la Dottrina Bush “si sta dispiegando, si sta svolgendo”. 6
Lo ha fatto, in effetti, in quattro tappe: corrispondenti ad altrettanti
momenti topici nei quali – lungo l’anno compreso fra il settembre
2001 e quello del 2002 – Bush jr. ha svolto, con i risultati più lusinghieri
dal punto di vista del consenso nel paese, il ruolo di Comandante
in Capo delle Forze Armate, esercitando la leadership sulla base dell’unico
potere esclusivo esplicito del quale gode il presidente secondo il
dettato costituzionale. A loro volta, le quattro tappe sono divisibili
in due fasi, divise da un diverso baricentro retorico: nella prima
e seconda tappa l’enfasi è eminentemente negativa, concentrata, cioè,
sulla minaccia che incombe sugli Stati Uniti e sul mondo; la
terza e quarta tappa ruotano invece attorno all’elaborazione esplicita
della risposta, invero già in parte presente, ma che a questo
punto diventa l’oggetto fondamentale della riflessione.
Prima tappa, settembre 2001. Comprende il primo discorso di Bush,
tenuto, a caldo, l’ 11 settembre stesso, e un secondo, giustamente
più noto, che è quello, ormai celebre, alla nazione, di nove giorni
dopo. In quest’ultimo caso per la prima volta si parla, da parte degli
osservatori, anche se in modo ancora approssimativo, di Dottrina Bush.
Che cosa dice Bush in queste due occasioni? In risposta al criminale
attentato dei terroristi modifica radicalmente la politica estera
spostandola sulla lotta al terrorismo, rispetto al quale, dice, nel
primo discorso, l’11 settembre, che “Non faremo distinzioni fra i
terroristi che hanno commesso questi atti e quelli che li ospitano”.
Un punto, questo, che viene poi ribadito nel discorso del 20 settembre,
laddove il presidente nota che “Ogni nazione che continua ad ospitare
e appoggiare il terrorismo sarà ritenuta un regime ostile agli Stati
Uniti.” Stati Uniti che sono, dice Bush “una nazione in guerra”, la
cui guerra al terrorismo forse non finirà con questa generazione,
forse dovrà durare per decenni essendo essa una battaglia che avrà
fine solo con la fine del terrorismo. “La nostra guerra al terrore
– conclude il presidente – comincia con al-Qa’ida, ma non finisce
lì. Non finirà sinchè ogni gruppo terrorista di respiro globale venga
trovato, fermato e sconfitto”. Una battaglia aperta, dunque, e non
semplicemente una battaglia americana, bensì “la battaglia del mondo,
la battaglia della civiltà; di tutti coloro che credono nel progresso
e nel pluralismo, nella tolleranza, nella libertà.” 7
Non può sfuggire come qui, beninteso sotto la fortissima e comprensibile
eccitazione del momento dettata dall’evento terroristico, riecheggi
un classico argomento eccezionalista, tipico del pensiero di politica
estera e di politica interna statunitense; un argomento originato
dal senso di un destino unico e diverso, che spinge a identificare
e proiettare la causa americana come la causa del mondo intero, essendo
gli americani chiamati alla missione di salvezza, che li pone su un
piano separato rispetto a tale mondo. 8
L’ afflato eccezionalista torna, del resto, nelle seconda tappa del
percorso della Dottrina Bush, cioè il Discorso sullo Stato dell’Unione
del 29 gennaio 2002, che si caratterizza anch’esso per un’enfasi eminentemente
negativa, di chiarimento della natura della minaccia. Per definire
la quale si ricorre adesso ad accenti che provengono dall’arsenale
reaganiano (il “male”, parola che ricorre ben tre volte in poche righe,
nel documento), combinati a una metafora (“asse”), che, elaborando
il parallelo con la seconda guerra mondiale istituito dalla stampa
subito dopo gli attentati (11 settembre= Pearl Harbour) e con la preesistente
equazione fra Saddam Hussein e Hitler, vuole iscrivere il progetto
dell’amministrazione Bush sotto l’egida della “buona guerra” rooseveltiana
e suggerire un nemico che, al contrario del soggetto terrorista, elusivo
e fantasmatico, che ha colpito Twin Towers, è coeso (“asse”) e chiaramente
individuabile. Si parla infatti di “asse del male”, costituito dai
“regimi che sostengono il terrore e i loro alleati terroristi”, con
una esplicita indicazione degli stati coinvolti; che sono poi Nord
Corea, Iran e Iraq: ovvero gli “stati canaglia”, già nel mirino, negli
anni novanta, dell’amministrazione Clinton, secondo una formula chiarita
da una figura di spicco dell’establishment di politica estera clintoniano,
Anthony Lake. 9
Contro questi soggetti gli Stati Uniti sono chiamati ad una guerra
che ha il duplice obbiettivo di eliminare i terroristi, da un lato,
e di impedire agli stati loro alleati di minacciare gli Stati Uniti
e il mondo, dall’altro. E’ una battaglia per la dignità umana e la
libertà (enduring freedom), condotta, si dice, “con la più
ampia cooperazione mondiale” di “amici e alleati”: dall’Europa (peraltro
quasi assente dal resto del discorso), all’Asia, all’Africa, all’America
Latina. Rispetto a tale situazione c’è inoltre la significativa presa
d’atto delle novità di schieramento che l’11 settembre ha prodotto,
con un “pericolo comune che cancella vecchie rivalità” e porta, al
fianco degli Stati Uniti, appunto rivali del passato più recente come
la Russia, la Cina e l’India (senza contare che tra le “novità” indotte
dall’11 settembre, nella coalizione stretta attorno agli USA, occorre
aggiungere lo stesso Pakistan).
A questo secondo stadio dell’elaborazione della Dottrina la minaccia
è dunque paradossalmente al tempo stesso precisata e allargata al
punto da diventare senza confini, proiettata com’è su una sfera ancora
più ampia e impegnativa di quanto previsto sinora, appunto con la
formula della “lotta contro il male” (al quale il documento non esita
a contrapporre, nelle righe finali, riflettendo la forte impronta
religiosa fondamentalista di una parte consistente dell’amministrazione
Bush, la vicinanza salvifica di Dio: “il male è reale e va combattuto…Dio
è vicino”). Tanto che di lì a qualche mese, tre autorevoli “falchi”
(due teorici e un membro di spicco dell’amministrazione), si sentono
autorizzati a un notevole allargamento dell’orbita della politica
estera. I due teorici interpretano il discorso sullo Stato dell’Unione
come un invito esplicito al regime change, in due dei tre capisaldi
dell'”asse del male” (Iraq e Iran), e magari, in prospettiva, addirittura
nel “competitore strategico” cinese. 10
Dal canto suo, la figura di punta del governo, il Segretario alla
Difesa Donald Rumsfeld, in maggio arriva a invocare la “difesa della
nazione contro l’ignoto, l’incerto, il non visto, il non atteso”.
11 Una frase, quest’ultima, che, con
la sua enfasi sull’incertezza e sulla paura che ne deriva, tradisce
la lunga militanza di chi l’ha pronunciata fra le trincee della guerra
fredda. 12
Nemmeno un mese dopo la dichiarazione di Rumsfeld, scatta il passaggio
dalla minaccia alla risposta, con la terza tappa che
è quella del discorso del giugno 2002 ai cadetti di Westpoint. Dal
punto di vista dei toni, la caratterizza una forte curvatura unilateralista,
che riflette, del resto, sia convinzioni espresse a più riprese da
Bush subito dopo l’11 settembre, sia le modalità sostanziali
dell’azione in Afghanistan. Quanto ai temi, emergono due punti-chiave,
anche se è il secondo a monopolizzare su di sé per il momento l’attenzione
degli osservatori: l’intenzione USA di conservare la preponderanza
militare (“l’America ha, e intende tenere, forze militari al di là
delle sfide”) e la famosa formula dell'”azione preventiva”, ovvero
della rivendicazione degli Stati Uniti del diritto di usare la forza
contro ogni stato che sia visto come ostile e che compia azioni orientate
all’acquisizione di armi di distruzione di massa (nucleari, biologiche,
chimiche). 13 Torneremo in seguito sulle
reazioni degli osservatori a questo discorso. Per il momento preme
passare alla quarta tappa, nella quale la risposta si precisa e articola
nell’ambito del documento più teoricamente sofisticato fra quelli
qui considerati. Si chiama Strategia di Sicurezza Nazionale (National
Security Strategy), è stato redatto dal Consigliere alla Sicurezza
nazionale Condoleeza Rice ed è reso pubblico dalla Casa Bianca il
17 settembre 2002. 14 In esso si completa
l’orizzonte strategico della risposta, nel momento stesso nel
quale viene esplicitata la radice della minaccia. Quest’ultima
è esposta all’inizio del documento: l’America – che gode “di una forza
militare senza precedenti e di una grande influenza economica e politica”,
avendo guidato vittoriosamente la “grande lotta” contro le “visioni
totalitarie distruttive” che hanno segnato il ventesimo secolo – non
è più minacciata, come può esserlo stata in passato, da aggressive
potenze conquistatrici, ma piuttosto da “reti di individui che agiscono
nell’ombra” e “stati fallimentari, che mancano”. E’ minacciata, cioè,
da un’assenza, da un’assenza di stato, o da stati che sono falliti,
stati totalitari e aggressivi come quelli definiti dall’asse del male
che aiutano i terroristi.
La risposta è affidata a una complessa combinazione di messianismo
wilsoniano (così com’è wilsoniano in fondo tutto il tema della minaccia)
15, e di politica della forza, della
potenza, della supremazia. 16 Gli Stati
Uniti, si dice, usano e useranno la forza attuale senza eguali per
preservare e creare un equilibrio di potenza (formula che ricorre
ben tre volte) che difenda e sviluppi le forze della libertà. Ovvero
l’unico modello sostenibile – da notare che a questo punto il modello
è diventato unico – di successo nazionale: un modello basato
su libertà, democrazia e libertà d’impresa, da esportare ovunque.
Dopo averlo difeso, naturalmente, dalla nuova minaccia del terrorismo
e degli “stati canaglia” (torna qui la necessità-missione di “liberarsi
dal male”) con la cooperazione eccezionale di tutte le potenze, secondo
un sistema di accordi e di coalizioni flessibili – il che riflette
posizioni che Bush aveva già manifestato nel pre-11 settembre e contiene
ora, però, un esplicito riferimento soprattutto alla Russia – e con
il sostegno degli organi internazionali e dei principali centri di
potere internazionali (ribadito il riferimento in questo caso alla
NATO). Ma anche in questo documento, che pure ha una forte componente
di dichiarato multilateralismo (la cooperazione, gli organismi internazionali,
il rapporto con tutte le principali potenze), non manca, quasi in
conclusione, il richiamo, tipico dell’amministrazione Bush jr., della
ferma intenzione USA, se necessario, ad agire da soli.
2. Continuità
e novità
Forse la lettura
più incisiva, a caldo, di quest’ultimo documento, l’ha fornita un’autorevole
voce dell’establishment, Business Week. Per il quale la nuova
strategia significa essenzialmente tre cose: primo, gli Stati Uniti
“sono liberi di prendere le iniziative preventive verso i terroristi
e verso gli stati che abbiano le armi di distruzione di massa”; secondo,
“a nessun paese o coalizioni di paesi sarà mai permesso di sfidare
la superiorità militare degli Stati Uniti”; terzo, “misure unilaterali
sono migliori dei trattati e delle organizzazioni internazionali nel
prevenire la diffusione delle armi nucleari”. 17
Ma non meno utile è evidentemente interrogarsi, con uno sguardo più
ampio, sulle novità e sulle continuità che il documento e la Dottrina
Bush presentano rispetto alle tradizioni della politica estera statunitense.
Partiamo dalle novità. Sul piano strategico esse sono costituite
evidentemente dai due cardini della guerra al terrorismo come chiave
della politica estera e della linea di azione preventiva (su cui torneremo
in forma critica fra breve). Sul piano ideologico di nuovo
c’è soprattutto la citata commistione, in forma inedita ed esplicita,
di due elementi come il messianismo e la politica della forza, finora
presenti separatamente, o associati, ma solo in forma implicita.
Nuovo è anche per un Repubblicano come Bush jr. il recupero del legato
wilsoniano, sia pure in una versione decisamente “muscolare”, priva
di ogni connotazione di “patriottismo” cosmopolita, secondo un impulso
visionario comunque inedito nell’ambito del Grand Old Party del secondo
dopoguerra, con la parziale eccezione del solo Ronald Reagan (al quale
comunque Bush jr. ha mostrato di volersi ispirare sin dagli esordi
col recupero del progetto dello “scudo spaziale”). 18
Infine, passando rapidamente al piano delle politiche, vi spiccano
soprattutto due elementi nuovi: la presenza e il progetto di presenza
in Asia centrale e il mutamento tattico rispetto alla Russia, all’India
e al Pakistan. 19
Per quanto riguarda invece le continuità, quelle di lunghissimo
periodo, vale a dire l’eccezionalismo e l’unilateralismo, le abbiamo
ampiamente sottolineate; ma non è inutile rimarcare ancora una volta
la forza e l’intensità inaudite con le quali sono state in
questo caso rielaborate. 20 Altrettanto
evidente è la filiazione dall’esperienza della Guerra fredda, che
si esprime, da un lato, nella visione, del mondo e delle relazioni
internazionali, dualistico-manichea, e, dall’altro, nel concetto di
“preponderance of power” attorno al quale, secondo alcuni studiosi,
ruota tutta l’elaborazione del vittorioso scontro bipolare con l’Unione
Sovietica. 21 Mentre nel concetto di
“failing states” e della necessità-missione dell’intervento
USA non pare inappropriato scorgere echi del cosiddetto Corollario
Roosevelt alla Dottrina di Monroe, là dove Theodore Roosevelt diceva,
all’inizio del secolo scorso, che, nel caso di stati incapaci di reggersi
in maniera democratica, avrebbero provveduto gli Stati Uniti. Con
la profonda differenza, beninteso, che il Corollario era riferito
al solo emisfero occidentale, mentre il progetto di Bush jr. viene
proiettato in una visione globale, con una connotazione di “sicurezza
totale” che riecheggia, ma, in una chiave di dichiarata crociata messianico-interventista
e di “moralismo unilateralista”, il Franklin Delano Roosevelt della
seconda guerra mondiale. 22
3. Problemi
e contraddizioni
Com’era prevedibile,
date la sua complessità e ambizione, la Dottrina Bush non ha mancato
di sollevare innumerevoli discussioni sui problemi e sulle contraddizioni
che la materiano. Li possiamo raggruppare sotto tre categorie: di
natura valoriale, attinenti, cioè, al rapporto tra i valori sottesi
alla nuova strategia e quelli condivisi dalla comunità politica internazionale;
di ordine logico-strategico e infine relativi alla fattibilità e plausibilità
operativa. 23
Una prima, decisiva critica valoriale proviene dal mondo del
diritto internazionale e ha trovato la sua formulazione più chiara
in un saggio di Michael Byers. Quest’ultimo mostra con grande ricchezza
di argomenti come l’idea di un’azione “preventiva” sovverta quasi
due secoli di progressiva costruzione di limiti giuridici al ricorso
alla forza nella soluzione delle dispute internazionali; una costruzione
che, partendo dal riconoscimento della necessità di “autodifesa” emerso
in un incidente, apparentemente minore, in realtà con profonde conseguenze
giuridiche, fra gli Stati Uniti e il Canada britannico, avvenuto nel
1837, e passando attraverso il periodo fra le due guerre mondiali,
è approdata alla dichiarazione della Carta dell’ONU, con l’invito
a tutti gli stati a evitare la minaccia o l’uso della forza. Viceversa
l’attuazione del principio del “preemptive strike“, conclude
Byers, “ci porterebbe lontano dal sistema dell’ONU, verso un mondo
anarchico dominato dal potere bruto, da alleanze mutevoli e da disperati
tentativi di stati vulnerabili di acquisire la capacità di deterrenza”.
24
Non meno significative sono le obiezioni sollevate da quegli osservatori,
anzitutto statunitensi, che sottolineano come, vista la posta altissima
che, proprio dal punto di vista valoriale, la Dottrina Bush stabilisce,
in realtà gli Stati Uniti non sono in grado di soddisfare tale posta
perché non sono in condizioni di dare lezioni di virtù al mondo. In
primo luogo perché hanno un passato di scheletri nell’armadio, cioè
di rapporti imbarazzanti con regimi dittatoriali e autoritari, che
in certi casi (vedi proprio il caso Iraq) riguardano addirittura anche
lo stesso “asse del male”, e un presente che riguarda lo scomodo alleato
saudita. 25 In secondo luogo perché,
si dice da più parti, la battaglia per l’enduring freedom contrabbanda
per interessi umanitari e universali quelli che sono invece, legittimi,
ma affatto miopi e ristretti, interessi petroliferi statunitensi e
relative preoccupazioni di Washington sulla lealtà del medesimo alleato
saudita. In terzo luogo perché vicende come Enron e WorldCom (e le
ancora non chiarite responsabilità, in tali vicende, dei vertici politici
del paese, a partire da Cheney e forse dallo stesso Bush jr.) gettano
un’inquietante luce di discredito sul presunto “unico modello sostenibile”,
in nome del quale viene condotta la crociata contro terroristi e “rogue
states“. Prova ne sia la preoccupazione diffusa, negli ambienti
imprenditoriali e politici statunitensi, per la delegittimazione che
gli scandali borsistici USA hanno provocato nei confronti del modello
americano nei paesi in via di sviluppo. 26
I problemi logico-strategici (di linea, obiettivi e congruenza
mezzi – fini) sono stati sollevati anzitutto da alcuni veterani, di
varia obbedienza ideologica, dell’analisi della politica estera USA
sulle due sponde dell’Atlantico: da George Kennan, a Pierre Hassner,
a Stanley Hoffmann. Secondo Kennan, la dottrina Bush è “un grande
errore in linea di principio”, perché, nel suo afflato universalistico
e religioso, propone una pericolosa asimmetria tra gli Stati Uniti
e il mondo. Tema, questo, poi ripreso da Stanley Hoffmann, che ha
sollevato la questione della possibilità stessa di fare politica estera
(e sostenerla nel tempo) solo affidandosi a una lotta al terrorismo.
Col risultato di rischiare costantemente di precipitare nel paradigma
riduzionista dello “scontro di civiltà” (e viceversa di sottovalutare,
aggiunge Hoffmann, lo scontro, concretissimo, fra le diverse “globalizzazioni”
attualmente in corso sul piano economico, politico e culturale, e
le loro drammatiche conseguenze per la popolazione del pianeta). Mentre
Hassner ha plausibilmente puntato l’indice sul fatto che la “guerra
preventiva” fa esplodere ed esaspera quel “dilemma della sicurezza”
per “sfuggire al quale”, dice lo studioso francese, “tutto il sistema
internazionale dopo Hobbes” si è organizzato. Con l’attacco preventivo,
osserva Hassner, si esalta l’ “hubris nel senso più classico”,
con effetti di pericolosa destabilizzazione, potenzialmente devastanti,
sul piano degli equilibri internazionali (e, aggiunge lo studioso
francese, di possibile grave limitazione delle libertà fondamentali
anche all’interno degli Stati Uniti). Altri hanno aggiunto che in
effetti la nuova linea USA mette addirittura in discussione deliberatamente
la “stabilità” stessa come “valore”. 27
L’accenno agli effetti destabilizzanti nel sistema internazionale
ci introduce alle perplessità e alle critiche avanzate sul terreno
concreto della fattibilità e plausibilità operativa.
Qui più che mai le polemiche si sono concentrate e ancora proseguono,
appuntandosi su tre argomenti principali, rispetto ai quali i sostenitori
della Dottrina, pur avendo fatto segnare alcuni indubbi punti a loro
favore nella prassi, come vedremo, rispetto alla questione irachena,
non paiono ancora aver dato risposte complessive adeguate.
Un primo argomento concerne la vaghezza e contraddittorietà dei piani
relativi alla “guerra al terrorismo” e il fatto che essa, come del
resto gli esiti finora conseguiti dall’azione contro bin Laden mostrano,
non sembra capace di andare alla radice dei problemi sottesi al fenomeno.
Sicchè anche un osservatore tendenzialmente favorevole alla Dottrina
come lo storico Bruce Kuniholm richiama con forza il fatto che “contenere
l’aggressione richiede una dinamica positiva capace di dare alla gente
(delle aree coinvolte) speranza perché riconosce i loro bisogni tanto
quanto i nostri”. Senza dimenticare, aggiungono altri studiosi, le
palesi divisioni interne all’amministrazione Bush, che, come l’andamento
zig-zagante sulla questione nordcoreana ha mostrato, non garantiscono
una coerenza e continuità d’azione all’altezza degli obiettivi definiti
dalla Dottrina. 28 Un secondo argomento
concerne le conseguenze economiche e sociali per gli Stati Uniti della
overextension prevista dal progetto: ovvero una prevedibile
riaffermazione delle componenti più retrive del complesso militare-industriale,
in linea certo con l’ultraliberismo selettivo bushiano, ma che, stando
ai risultati sinora conseguiti dall’amministrazione sul piano economico
seguendo proprio questa linea (la peggior performance dai tempi di
Herbert Hoover), non promette niente di buono per il futuro del paese
sul medio e lungo periodo. 29 Infine,
c’è la questione – sollevata da un ampio e variegato fronte, che va
da Business Week ai teorici liberal delle relazioni internazionali
– delle minacce alla nozione e alla realtà della sovranità nazionale
che la Dottrina pone, postulando una “sovranità condizionata”, e delle
gravi e imprevedibili risposte che ne possono provenire da quanti
si sentono minacciati. 30
In questo modo siamo già passati, insensibilmente, sul terreno più
scivoloso, per gli storici, dell’attualità più immediata e dell’applicazione
della nuova linea USA al caso iracheno. Si tratta di eventi troppo
vicini e rispetto ai quali la documentazione è ancora evidentemente
troppo ambigua e lacunosa per poterne trattare con la dovuta profondità
analitica. Limitiamoci dunque a un paio di osservazioni, non senza
aver ribadito la convinzione, che condividiamo con tutti i democratici,
che il regime di Saddam Hussein, come notava recentemente Timothy
Garton Ash, è una nefasta dittatura, che ha invaso due volte i propri
vicini e violato sedici risoluzioni ONU nell’arco di dodici anni;
una dittatura della quale è sperabile gli iracheni e il mondo riescano
a liberarsi il prima possibile. 31 La
prima osservazione è che, anche stando alle cronache più recenti –
cioè alla presentazione, dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU,
da parte del Segretario di Stato Colin Powell, delle “prove” che,
secondo il governo USA, giustificano una linea dura contro il regime
dittatoriale di Saddam Hussein sino all’eventuale ricorso alla forza
– non si può non convenire con quanto Federico Romero scriveva un
mese e mezzo fa, affermando che “l’amministrazione Bush ha imposto
la questione Iraq nei termini che essa voleva, ha costruito un solido
consenso interno alla propria politica pur lasciandosi mano libera
sui termini della sua applicazione, ha portato l’ONU a riprendere
le ispezioni in Iraq in termini così draconiani da mettere apertamente
in discussione la natura e la permanenza del regime”. Né si può discutere
il fatto che, prosegue Romero, l’iniziativa di Bush è caduta in un
vuoto di “visioni alternative che affrontino i problemi del Medio
Oriente, del terrorismo globale e della sicurezza internazionale in
termini credibili”. 32 Non c’è bisogno
di sottoscrivere i ruvidi ricami teorici di un “falco” come Robert
Kagan sull’inane “pacifismo” europeo contrapposto alla “forza” statunitense
per riconoscere come oggi “la vecchia Europa si trovi dinanzi l’ingrata
scelta fra l’irrilevanza in un ordine globale dominato dagli Stati
Uniti e la complicità in una guerra guidata dagli Stati Uniti”. 33
Detto questo, mi risulta difficile, però, e veniamo così alla seconda
osservazione, non riproporre, visto che sul piano teorico mi pare
conservino in notevole misura la loro validità, le obiezioni che proprio
sul caso iracheno sono emerse, fra gli osservatori americani, riguardo
alla Dottrina Bush. Dalla questione delle famose “pistole fumanti”,
che neppure la presentazione di Powell pare aver risolto 34.
A quella di un possibile “contenimento” attraverso ispezioni sempre
più rigorose e costanti proposto da studiosi realisti come John J.
Mearsheimer o da filosofi liberal come Micahel Walzer 35.
A quella di “quale guerra” (al terrore? a un regime?), con quali mezzi
e con quali conseguenze, sollevata da osservatori diversi come l’ex
comandante NATO Wesley K. Clark, l’autorevole opinionista E.J. Dionne
e i tanti che si sono interrogati sulle drammatiche conseguenze del
conflitto per la popolazione irachena e sull’incerto assetto futuro
dell’Iraq e della regione. 36 A quella,
di natura più generale, sollevata da Stanley Hoffmann contro lo “wilsonismo
con gli stivali” e contro la “sempre più incensatoria immagine di
sé” che l’azione unilaterale USA nell’area incarna, a suo giudizio,
in quanto espressione della Dottrina Bush. 37
E’ impossibile evidentemente prescindere dallo stato di fatto – ovvero
dal problema che il regime di Saddam pone alla comunità internazionale,
dalla debolezza degli interlocutori internazionali degli Stati Uniti,
dai pericoli reali e dalla reazione emotiva che l’11 settembre ha
prodotto in questi ultimi e nel mondo. Ma neppure possiamo dimenticare
o sottovalutare le componenti mitologiche e ideologiche della Dottrina
Bush, l’impulso egemonico che essa contiene, gli interessi che nasconde.
Dopo l’11 settembre qualcuno suggerì di rileggere le pagine d’apertura,
che parevano profetiche, del Melville di Moby Dick, là dove
si parla di “Sanguinosa battaglia in Afghanistan”. L’America della
Dottrina Bush ci spinge a procedere nella lettura del capolavoro di
Melville almeno sino al capitolo 128. Là dove, cioè, Ahab, sordo a
ogni impulso che non sia quello della sua caccia ossessiva, rifiuta
di ascoltare le richieste d’aiuto di Gardiner, capitano di una nave
in difficoltà, alla disperata ricerca del figlio dodicenne caduto
in mare. “Capitano Gardiner – dice Ahab – …anche ora, sto perdendo
tempo. Addio, addio”. 38 Il senso del
tragico, è vero, non si addice ai nostri tempi, smagati, postmoderni
e muscolari. Ma…
Ferdinando
Fasce
Università di Bologna sede di Forlì
Note
1
W. Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della
politica estera degli Stati Uniti d’America, tr. it., Milano,
Garzanti, 2002, p. 374.
2 E’ appena il caso di richiamare i limiti
fisiologicamente connaturati, e ai quali questo saggio evidentemente
non sfugge, all’esercizio della cosiddetta “storia del presente”,
cioè all’esame di vicende ancora in corso. Vedi T. Garton Ash, Storia
del presente. Dalla caduta del muro alle guerre nei Balcani, Milano,
Mondadori, 2001, pp. 3-16.
3 M. C. Miller, The Bush Dyslexicon.
Observations on a National Disorder, New York, Norton, II ed.
aggiornata, 2002, p. 6.
4 E’ il giusto invito rivolto da N. Podhoretz,
In praise of the Bush Doctrine, in “Commentary”, september
2002, pp. 19-28, nell’ambito di un articolo che la acritica esaltazione
delle posizioni di Bush che contiene, però, rende praticamente illeggibile.
5 S. Yagur, Imperious Doctrines: U.S.-Arab
Relations from Dwight Eisenhower to George W. Bush, in “Diplomatic
History”, fall 2002, p. 571.
6 R. Kagan, W. Kristol, Remember the
Bush Doctrine, in “The Weekly Standard”, 15 aprile 2002, p. 10.
7 “Washington Post”, 21 settembre 2001.
Vedi inoltre W. Lafeber, The Bush Doctrine, in “Diplomatic
History”, fall 2002, p. 557; B.R. Kuniholm, 9/11, the Great Game,
and the Vision Thing: The Need for (and Elements of) as More Comprehensive
Bush Doctrine, in “Journal of American History”, September 2002,
pp. 426-438.
8 La più efficace riconsiderazione critica
recente di questa tendenza in politica estera sta in M. Young, The
Age of Global Power, in T. Bender (a cura di), Rethinking American
History in a Global Age, Berkeley, University of Californai Press,
2002, pp. 274-294. Più in generale, T. Bonazzi, Struttura e metamorfosi
della civiltà progressista, Venezia, Marsilio, 1974.
9 Text of the State of the Union Address,
in “Los Angeles Times”, 29 gennaio 2001. Su Lake e gli “stati canaglia”,
N. Guyatt, Another American Century? The United States and the
World after 2000, London and New York, Zed Books, 2001, pp. 122-123,
che consente di vedere gli elementi di continuità fra l’età di Clinton
e quella di Bush jr.
10 R. Kagan, W. Kristol, art. cit. Sul
rapporto programmatico con la Cina cfr. J. L. Harper, Le sfide
internazionali, in “EuropaEurope”, 2001, n. 1, pp. 61-63. Sulle
onde di lungo periodo del progetto di regime change, che ha
nel vicepresidente Dick Cheney un punto di riferimento centrale, D.
Armstrong, Dick Cheney’s Song of America, in “Harper’s Magazine”,
ottobre 2002, pp. 76-83.
11 Cit. in F. FitzGerald, George Bush
and the World, in “The New York Review of Books”, 26 settembre
2002, p. 85.
12 A.G. Grossman, Neither Dead Nor
Red. Civilian Defense and American Political Development During the
Early Cold War, New York and London, Routledge, 2001, pp. 42-50.
13 Per un efficace commento a caldo, R.
Falk, The New Bush Doctrine, in “The Nation”, 15 luglio 2002,
pp. 9-11.
14 Full Text: Bush’s National Security
Strategy, in “New York Times”, 20 settembre 2002, dal quale citiamo.
Vedine anche la traduzione sia in “Liberazione”, 10 ottobre 2002,
che in L. Annunziata, No. La seconda guerra irachena e i dubbi
dell’Occidente, Roma, Donzelli, 2002, pp. 115-154. J. Diehl, Rice
produces a brilliant synthesis, in “International Heradl Tribune”,
1 ottobre 2002 ne ha fornito una prima, informata, anche se troppo
apologetica (e perciò non condivisibile da chi scrive), lettura.
15 F.Ninkovich, The Wilsonian Century.
U.S. Foreign Policy Since 1900, Chicago, University of Chicago
Press, 1999.
16 Sono qui debitore nei confronti della
importante lettura che ne ha dato F. Romero, La National Security
Strategy di George W. Bush, in corso di pubblicazione in “ItalianiEuropei”.
Ringrazio l’amico e collega Romero per avermi messo a disposizione
il testo prima della sua uscita. Alle conversazioni con Romero e con
Mario Del Pero su questo e altri punti devo numerose preziose indicazioni.
17 B. Nussbaum, Foreign Policy: Bush
Is Half Right, in “Business Week”, 7 ottobre 2002, pp. 45-47.
Il corsivo è mio.
18 Di “nuovo wilsonismo”, frutto di “un’implicita
alleanza” fra “liberal internazionalisti…e conservatori unilateralisti”
invero parlava già, nella primavera 2001, W. Pfaff, The Question
of Hegemony, in “Foreign Affiars”, marzo-aprile 2001, pp. 221-232,
riferendosi a elaborazioni dei “falchi” Robert Kagan e William Kristol.
Su Bush jr. e lo “scudo spaziale” F. Fasce, Ritorno al futuro?
La Casa Bianca di Bush II, in “EuropaEurope”, 2001, n. 1, pp.
52-57.
19 Lafeber, op. cit.
20 A proposito dell’unilateralismo quale
elemento costante della politica estera USA dalle origini va ricordato
in particolare il lavoro di M. Dunne, U.S. Foreign relations in
the twentieth century: from world power to global hegemony, in
“International Affairs”, 2000, n. 1, pp. 25-40.
21 M. Leffler, A Preponderance of Power.
National Security, the Truman Administration and the Cold War,
Stanford, Stanford University Press, 1992.
22 M. Hirsch, Bush and the World,
in “Foreign Affairs”, settembre-ottobre 2002, p. 26.
23 Come nel resto dell’articolo, abbiamo
concentrato la nostra attenzione sulle correnti prevalenti, fra gli
studiosi, nell’attuale dibattito sulla questione.
24 M. Byers, Jumping the Gun, in
“London Review of Books”, 25 luglio 2002.
25 G. Byford, The Wrong War, in
“Foreign Affairs”, luglio-agosto 2002, pp. 34-42; O.G. Afoaku, U.S.
foreign policy and authoritarian regimes: Change and continuity in
international clientelism, in “Journal of Third World Studies”,
fall 2002, pp. 13-40.
26 R.N. Bellah, The new American empire,
in “Commonweal”, 25 ottobre 2002, pp. 12-14; “International Herald
Tribune”, 8 luglio 2002.
27 B. Cumings, Making the world safe
from evil, in “The Nation”, 28 ottobre 2002, pp. 27-30; S. Hoffmann,
America Alone in the World, in “American Prospect”, 23 settembre
2002 e Idem, Clash of Globalizations, in “Foreign Affairs”,
luglio-agosto 2002, pp. 104-115; L’action preventive est-elle une
stratégie adaptée? Le contradictions de l’empire americain. Entretien
avec Pierre Hassner, in “Esprit”, agosto-setembre 2002, pp. 72-86;
P. Hassner, La guerre sdans régles, in “Le Nouvel Observateur”,
10-16 ottobre 2002, pp. 126-128; G. J. Ikenberry, America’s Imperial
Ambition, in “Foreign Affairs”, settembre-ottobre 2002, p. 55; J.
Harris, The Us military in the era of globalisation, in “Race
and Class”, 2002, n. 1, p. 10.
28 Kuniholm, op. cit., p. 438.
29 J.K. Galbraith, The Unbearable Costs
of Empire, in “American Prospect”, 18 novembre 2002.
30 Nussbaum, art. cit., p. 128;
Ikenberry, op. cit., p. 53-54.
31 T. Garton Ash, In defence of the
fence, in “The Guardian”, 6 febbraio 2003. Su Saddam e il suo
regime vedi la sintesi di Marcella Emiliani in questo stesso fascicolo.
32 Romero, art. cit. Rispetto alle
osservazioni di Romero credo che vada semmai verificata la consistenza
reale del consenso interno alla politica Bush.
33 S. Chesterman, To be irrelevant
or to go alone, in “International Herald Tribune”, 7 febbraio
2003. Vedi anche J. Steele, The new vassals, in “Guardian”,
7 febbraio 2003. Su Kagan, vedi R. Kagan, Puissance et faiblesse,
in “Commentaire”, autunno0 2002, pp. 534-535.
34 K. Vanden Heuvel, Powell Fails to
Make Case, in “The Nation”, 6 febbraio 2003; I.H. Daalder, J.M.Lindasy,
Forward Thinking, in “American Prospect”, 7 febbraio 2003.
35 J. J. Mearsheimer, S.M. Walt, Can
Saddam Be Contained? History Says Yes, inedito, 12 novembre 2002
(ne devo copia a Mario Del Pero, che ringrazio); M. Walzer, Più
ispettori e permanenti, in “Corriere della Sera”, 31 gennaio 2003.
Walzer, però, sembra non considerare la complessità della questione
delle sanzioni, che ripropone in modo acritico.
36 D. Ignatius, A General’s Doubts
e E.J. Dionne jr., But Which War? in “Washington Post”, 31
gennaio 2003; J. Fallows, The Fifty-First State?, in “Atlantic
Monthly”, novembre 2002, pp. 53-64.
37 S. Hoffman, The High and the Mighty,
in “American Prospect”, 23 novembre 2002.
38 H. Melville, Opere, a cura di
M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 1991, vol. II, p. 1485. Vedi inoltre
J. Harding, Call Me Ahab, in “London Review of Books”, 31 ottobre
2002, p. 10.