di Tariq Ali
Da The Guardian, 4 novembre 2003, traduzione Fabio Berardi
Ripubblichiamo un editoriale che ci era sfuggito ma non perde di attualità [PC]
Qualche settimana fa, gli ospiti del Pentagono sono stati invitati ad una speciale proiezione casalinga di un vecchio film. Era la Battaglia di Algeri, il classico anti-colonialista di Gillo Pontecorvo, inizialmente censurato in Francia. Si può supporre che la proiezioni sia stata puramente educativa. La Francia vinse quella battaglia ma perse la guerra.
Almeno al Pentagono si stanno rendendo conto che la resistenza in Iraq sta seguendo un percorso anticoloniale familiare. Nel film possono aver visto atti compiuti dalla resistenza algerina, circa mezzo secolo fa, che potrebbero essere stati ripresi la scorsa settimana a Fallujah o a Baghdad. Allora, come ora, la potenza occupante descrisse tutte queste azioni come “terroristiche”. Allora, come ora, i prigionieri dopo essere stati catturati venivano torturati, le case nelle quali questi si rifugiavano insieme ai loro fiancheggiatori venivano abbattute e la repressione è stata intensificata. Alla fine la Francia si è dovuta arrendere.
Negli Stati Uniti è nato una sorta di dibattito su come le perdite subite nel dopoguerra abbiano superato quelle subite durante l’invasione che costò agli iracheni almeno 15.000 vite. Pochi possono negare che l’Iraq sotto l’occupazione USA è in uno stato molto più caotico di quanto non fosse sotto Saddam Hussein. Non c’è ricostruzione. C’è la disoccupazione di massa. Gli USA non credono che gli iracheni siano capaci di far pulizia e così vengono utilizzati migranti sud asiatici e filippini. Questo è un colonialismo nell’epoca del capitalismo neo-liberale nel quale gli Stati Uniti e le aziende loro “amiche” hanno la precedenza. Seppur in queste circostanze un Iraq occupato potrebbe diventate una solida oligarchia, il nuovo cosmopolitismo della Bechtel e della Halliburton [la Bechtel è un’azienda che gestisce progetti di ricostruzione mentre la Halliburton è una società petrolifera che progetta e costruisce impianti d’estrazione, ndt].
È la combinazione di tutto questo che alimenta la resistenza ed incoraggia molti giovani a combattere. Pochi di loro sono pronti a tradire quanti stanno combattendo. Questo è della massima importanza, perché senza il tacito supporto della popolazione una reale resistenza diventa impossibile.
Il “maquis” Iracheno [analogia con il movimento francese nato durante il secondo conflitto mondiale per combattere l’occupazione nazista ed i collaborazionisti francesi, ndt] ha indebolito la posizione di Gorge Bush negli Stati Uniti e ha permesso ai politici Democratici di criticare la Casa Bianca arrivando, con Howord Dean, a suggerire un ritiro totale entro due anni. Anche i benpensanti che si sono opposti alla guerra, ma che sostengono l’occupazione e che ora denunciano la resistenza, sanno che senza di questa essi dovrebbero confrontarsi con il trionfalistico coro dei guerrafondai. Inoltre, molto più importante è il fatto che il disastro in Iraq ha ritardato indefinitamente ulteriori avventure in Iran e in Siria.
Una delle dichiarazioni più comiche dei mesi passati è stata quella di Paul Wolfowitz, il quale ha dichiarato in una delle frequenti conferenze stampa tenuta a Baghdad che “il maggior problema era che ci fossero troppi stranieri in Iraq”. Molti iracheni vedono negli eserciti d’occupazione i veri “terroristi stranieri”. Perché? Perché una volta che è stato occupato un paese si deve agire in stile coloniale. Questo accade anche se non si trova resistenza, come nei protettorati di Bosnia e Kosovo. Dove c’è resistenza, come in Iraq, l’unico modello che viene proposto è una via di mezzo tra Gaza e Guantanamo.
Né è ammissibile che commentatori occidentali i cui paesi stanno occupando l’Iraq pongano condizioni a quelli che vi si oppongono. Si tratta di una gigantesca occupazione ed è questo che determina la risposta. Secondo le fonti dell’opposizione irachena ci sono più di 40 organizzazioni resistenti. Si tratta di baathisti, dissidenti comunisti disgustati dal tradimento del Partito Comunista Iracheno che appoggia l’occupazione, nazionalisti, gruppi di soldati ed ufficiali iracheni allo sbando a causa dell’occupazione per finire con gruppi religiosi sunniti e sciiti.
I grandi poeti iracheni – Saadi Youssef e Mudhaffar al-Nawab – che furono in passato brutalmente perseguitati da Saddam, ma che sono ancora in esilio, rappresentano la coscienza della loro nazione. I loro furiosi poemi denunciando l’occupazione e irridendo ai collaborazionisti e alle quinte colonne aiutano a sostenere lo spirito di resistenza e la voglia di rinnovamento.
Youssef scrive: sputerò in faccia ai burattini / sputerò sulle loro liste nere / io dirò che siamo noi il popolo iracheno / noi siamo gli alberi ancestrali di questa terra.
E Nawwab: e mai credere ai combattenti per la libertà / chi si rivolta senza armi / credetemi, io sono stato bruciato in quel crematorio / la verità è che siete grandi solo come i vostri cannoni / mentre chi agita coltelli e forchette / ha semplicemente occhi per il suo stomaco.
In altre parole, la resistenza è fondamentalmente irachena ma non mi sorprenderei se altri arabi stessero attraversando i confini per aiutarla. Se ci sono polacchi ed ucraini a Baghdad e Najaf, perché gli arabi non dovrebbero aiutarsi tra loro? Ma il fatto chiave della resistenza odierna è che essa non è chiaramente localizzata è il classico primo stadio di una guerriglia che combatte contro un esercito d’occupazione. L’abbattimento, ieri, di un elicottero statunitense Chinook segue la stessa logica. Se poi questi gruppi passeranno alla seconda fase e costituiranno un Fronte di Liberazione Nazionale Iracheno resta ancora da vedere.
Che le Nazioni Unite possano agire come un “onesto intermediario” dimenticatelo, specialmente in Iraq, dove è parte integrante del problema. Tralasciando i “traguardi” raggiunti precedentemente (come la gestione delle sanzioni killer e l’appoggio ai settimanali bombardamenti anglo-americani protrattisi per 12 anni), il 16 ottobre il Consiglio di Sicurezza si è disonorato ancora accogliendo “la risposta positiva della comunità internazionale all’ampiezza della rappresentativa del consiglio del governo [iracheno] e il supporto agli sforzi del consiglio di governo per mobilitare la popolazione in Iraq”. Nel frattempo ad un lesto impostore, Ahmed Chalabi, è stata data la poltrona irachena alle Nazioni Unite. Può essere d’aiuto ricordare come gli USA e la Gran Bretagna hanno insistito affinché Pol Pot mantenesse la sua poltrona per oltre un decennio dopo essere stato rovesciato dai vietnamiti. L’unica norma riconosciuta dal Consiglio di Sicurezza è la forza bruta, ed oggi è un’unica potenza con la capacità di esercitarla. Ciò a causa del fatto che per molti, nell’emisfero sud ma anche altrove, l’ONU sono gli Stati Uniti.
Il Medio Oriente arabo è oggi il teatro di una duplice occupazione: l’occupazione israelo-americana di Palestina ed Iraq. Se inizialmente i palestinesi sono stati demoralizzati dalla caduta di Baghdad, l’emergere di una resistenza li sta ora incoraggiando. Dopo la capitolazione di Baghdad, il leader israeliano della guerra Ariel Sharon disse ai palestinesi “tornate in voi, ora che il vostro protettore se ne è andato”. Come se la resistenza palestinese dipendesse da Saddam o da qualcun altro. Questa vecchia concezione coloniale che vede gli arabi perduti senza un comandante è stata smentita sia a Gaza che a Baghdad. E laddove Saddam dovesse cadere vittima domani, la resistenza potrebbe aumentare invece che spegnersi.
Prima o poi, tutte le truppe straniere dovranno lasciare l’Iraq. Se non lo faranno volontariamente saranno cacciati. La loro presenza continuativa è un incitamento alla violenza. Quando la popolazione irachena riconquisterà il controllo del proprio destino decideranno l’organizzazione interna e la politica estera del loro paese. Si può sperare che questo combinerà democrazia e giustizia sociale, una formula che ha illuminato l’America Latina ma che è fortemente osteggiata dall’Impero. Nel frattempo, gli iracheni hanno una cosa di cui possono essere orgogliosi e di cui cittadini britannici e statunitensi dovrebbero essere invidiosi: un’opposizione.