AN nuovo vassallo alla corte dell’imperatore d’Occidente
Usa e costumi del ventriloquo di Gianfranco Fini
Ecco come Carlo Formenti, penna buona de “Il Corriere della Sera”, inizia un pezzo dedicato al saggio polemico di Stenio Solinas «Per farla finita con la Destra», licenziato alle stampe per i tipi di una casa editrice di prestigio, la fiorentina “Ponte alle Grazie”: «Scorrendo le pagine di un pamphlet vi colpisce un’amara descrizione del “pensiero unico” dilagato dopo la caduta del Muro: destra e sinistra che sgomitano per occupare il centro. Notate poi che l’Autore, mentre non si stupisce se AN, si scopre liberale dall’oggi al domani (l’elettorato di destra è devoto alla “roba”, non alle ideologie), è disgustato da una sinistra che sacrifica sull’altare del mercato i valori della solidarietà e le “feconde illusioni” di una società giusta. Registrate infine bordate contro i progressisti pronti a rinunciare alla difesa dell’ambiente pur di partecipare all’inverecondo balletto liberaldemocratico”. Come non pensare alla penna di un irriducibile sessantottino?»
Alla luce di quanto anticipato dal presentatore di un così stuzzicante volume ancora non da noi letto la tentazione di «sessantottizzare» Solinas sarà stata certamente forte, ma il Formenti ha saputo brillantemente resistere all’assalto di questo vagheggiamento culturalmente affascinante ma, insomma, un po’ costruito. Innegabili, comunque, le solide coincidenze di elementi fondamentali dell’analisi solinasiana con quelli che fanno da supporto al severo monitoraggio posto in essere dalle componenti «antagoniste» delle Sinistre variamente collocate nei confronti dei compagni ammaliati dalle sirene liberiste e paracapitaliste di importazione angloamericana. Ossia di Reagan e della Tatcher.
Per quel che personalmente ci concerne, non siamo affatto indifferenti al nucleo centrale, allo zoccolo duro del durissimo ragionare di Stenio Solinas, specialmente di quella parte intensamente dardeggiata in direzione di una Sinistra impegnatissima nell’adorazione dei nuovi idola: il mercato (delle vacche, spesso e volentieri), le privatizzazioni, il liberismo, l’avversione a metà cinica e a metà demografica nei confronti dell’intervento pubblico nell’economia, la cosiddetta «flessibilità» nei rapporti di lavoro fra padroni e sindacati etc. etc. Detto questo consiglieremmo all’Autore, ove gli arridesse la augurabile fortuna diffusionale di una ristampa, di ripensare certe esasperazioni e dogmatizzazioni del suo contestare. Perché non sempre la Sinistra, anche quella più moderata, si è fatta in tutto e per tutto omologare dal sistema. Se il Polo cosiddetto delle Libertà avesse vinto nel ’96, scuola e sicurezza sociale sarebbero state privatizzate. Di più: non ci risulta che la Confindustria, Berlusconi e il suo ventriloquo Fini siano in estasi di fronte alla prospettiva dell’introduzione per legge delle 35 ore di lavoro a parità di retribuzione. Tutt’altro! Digrignano i denti e affilano le armi. E se per Forza Italia tutto questo è scontato, i finiani non perdono occasione per squalificarsi. Specialmente certi ex rautiani di nostra conoscenza, come, ad esempio, Galeazzino Ciano, al Secolo (d’Italia) Gianni Alemanno, grande teorico della sedicente «Destra Sociale» oltre che immarcescibile rivoluzionario anticapitalista e nazionale-popolare. Costui, responsabile dell’Ufficio lavoro di AN, appreso dell’accordo intervenuto all’interno della maggioranza per le 35 ore ha avuto la spudoratezza di diffondere un comunicato ufficiale con il quale annunciava la mobilitazione del suo settore per «evitare che la Confindustria venga isolata nella battaglia contro le nuove proposte del governo» (va da sé che citiamo a memoria). Vergogna!
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Queste osservazioni nulla tolgono al valore, all’interesse, all’importanza dell’opera, che notiamo, e annotiamo, attraverso lo strumento psichico dell’intuizione. Peraltro, la validità politica di «Per farla finita con la Destra» risulta accresciuta dalla totale assenza in esso di ogni riferimento nostalgico alla destra che fu.
Dice infatti il Formenti nella sua recensione, significativamente intitolata «Quel camerata sembra rosso»: «Ma perché vuol farla finita con la destra, allora? Forse per nostalgia della vecchia destra, quella “vera”? Non sembra. Queste pagine non trasudano nostalgia per un MSI definito “museo degli orrori e delle meraviglie”, con il suo repertorio di saluti romani, i gagliardetti e machismi da operetta: irriso da Solinas come visceralmente nemico della cultura, rivoluzionario a parole ma attento nei fatti agli umori di un elettorato moderato, conformista. Ai missini viene negato perfino il titolo di reazionari, perché manca loro “la turpe, affascinante grandezza dei veri reazionari”». Ecco uno spaccato sulla verità della Destra nostrale assolutamente accettabile, a patto però di operare certe distinzioni. Per esempio, non ce la sentiremmo di inquadrare in questa piedigrotta un Beppe Niccolai e il suo gruppo di amici, seguaci, cooperatori, che erano, che sono, persone serie e seriamente impegnate nel «sociale» e nel dialogo con gli «altri». Ulteriore esempio: Gianni Benvenuti, bella firma di “Tabularasa”, che ci ha tanto immaturamente e prematuramente lasciati pochi mesi or sono. Questi a tacer d’altri, con i quali si poteva, si può, si potrà, consentire o dissentire a seconda dei casi, ma la cui dirittura morale e disponibilità a sostenere le loro idee fino al sacrificio li configura come interlocutori esemplari e stimabili. Niente a che vedere, quindi, con i trasformisti, i plagiati, i voltagabbana di Fiuggi e Verona, imprudentemente valorizzati anche da certa Sinistra «sdoganatrice» in pro di Fini e Berlusconi sorda ai remoti ma attualissimi moniti di un Piero Gobetti. Il Gobetti autore del saggio “Elogio di Farinacci”, il Gobetti, insomma, antifascistissimo ma oppugnatore senza macchia e senza paura del vezzo tutto italico del cambiar casacca ad ogni spirar di diverso vento, delle abiure opportunistiche, delle transigenze convenienti ancorché sconvenienti. Tutte cose che il fondatore de “La Rivoluzione Liberale”, amico di Antonio Gramsci che ne aveva fatto un prezioso collaboratore de “L’Ordine Nuovo”, attribuiva, con forzatura ovviamente condivisibile, alla estraneità dell’Italia alla Riforma Protestante.
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Ad onta di tali riserve sulla destra, il ventenne Stenio Solinas ritenne di dovervi aderire. Perché mai? Al fine di appurare il motivo di detta contraddizione. Carlo Formenti va a trovare il Nostro nel suo ufficio a “Il Giornale”. Riferisce dell’incontro nei seguenti termini: «Per spiegarci il perché, estrae dal cassetto la foto di gruppo che lo ritrae assieme ai giovani intellettuali che, nella seconda metà degli Anni Settanta, fondarono la “Nuova Destra”, una compagnia che ricorda orgogliosamente come catacombale (“Spiavamo qualsiasi trafiletto, qualsiasi stroncatura per verificare la nostra esistenza”), ma ricca di fermenti morali e intellettuali».
Personalissimi pensieri in libera uscita. All’epoca il ricordo della Repubblica Sociale Italiana -soprattutto nella più retta interpretazione creativa, rivoluzionaria, socializzatrice- non era ancora del tutto spento negli ambienti del Movimento Sociale Italiano. Come mai il giovane Solinas non fu neppure sfiorato dal sospetto che la targa di «destra» era quanto meno inadeguata alla tradizione che quel partito diceva di voler rappresentare?
Fine dell’inciso. Perché erano di destra, Solinas e sodali? Per sfidare, sostiene il saggista, quello che definisce il conformismo imperante nei circoli dove ci si sarebbe qualificati «di sinistra» solo in omaggio a una moda. Sarà. Aspettiamo di leggere questo testo, di sicuro attraente, per capire se l’Autore si è reso conto che ci sono tanti e vari modi per essere «di sinistra». Lo si può essere sfidando schedature poliziesche, emarginazioni, indigenze; così come lo si può apparire facendo il bellimbusto nei salotti radical-chic.
In che maniera erano fascisti? In maniera tale, afferma il caporedattore de “Il Corriere della Sera”, che se il «loro» fascismo lo avessero manifestato durante il Fascismo come minimo sarebbero stati mandati al confino di polizia. Orbene, sia a noi consentito rilevare che questa è una forzatura. Indiscutibilmente il Ventennio mussoliniano venne, e resta, in evidenza come una dittatura, che però ebbe questa caratteristica: nell’ambito del regime la dialettica fra posizioni culturali e politiche diverse era, più che tollerata, abbastanza libera, talora addirittura sollecitata. Berto Ricci ad esempio, col suo “l’Universale”, al capitalismo, ai gerarchi, alla monarchia, ai conservatori non gliele mandava a dire, eppure a parte qualche rabbuffo, qualche richiamo, qualche «cazziata», continuò a svolgere il suo ruolo di anticonformista graffiante ma creativo. E non è vero ciò che ne scrisse il povero Ruggero Zangrandi nel suo “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”, cioè che quando mori combattendo in Africa settentrionale era sull’orlo dell’abiura antifascista, come ha inoppugnabilmente dimostrato con la splendida biografia di questo eretico dentro e non contro il mussolinismo uno studioso del calibro di Paolo Buchignani, esperto di «fascisti rossi». Si vuole qualche altro riferimento? Eccolo. Tullio Cianetti, capo dei sindacati operai del Littorio, mussoliniano di stretta osservanza ma non pregiudizialmente nemico di Marx -e, si direbbe, neppure di Bakunin, se è vero, come è vero, che promosse rapporti di reciproca informazione e di scambi culturali con la maggiore confederazione sindacale spagnola, la Federazione Anarchica Iberica- non aderì, insieme a tutti i cianettiani, ossia la sinistra sindacale fascista, all’alleanza con la Spagna reazionaria di Franco.
Questo essendo il clima dell’epoca, come immaginare in ceppi, in cattività, i ragazzi della “Nuova Destra” di Marco Tarchi e di Stenio Solinas per delitto di opinione all’interno del «fascismo reale»?
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Avvincente la pur rapidissima delineazione della piattaforma ideologica di questa “Nuova Destra” ormai pare a noi incarnata dal Solinas (del Tarchi non sappiamo; ricordiamo però che, scorrendo un suo scritto, apprendemmo che egli considerava del tutto provvisoria tale denominazione, inevitabile per il mantenimento di relazioni con l’ambiente d’origine) e dunque, presumibilmente, estinta se non quale filone culturale come gruppo politicamente attivo e organizzato.
Ma seguiamo ancora il resoconto del Formenti: «Ma che cosa sognavamo? Non un’altra destra, ma il superamento della dicotomia destra-sinistra, da sostituire con “un’etica e un’estetica della giovinezza”, uno spirito ribelle a ogni disciplina di partito e di gruppo, l’irriducibile vitalità di individui e comunità ostili alla potenza livellatrice del mercato, dei consumi di massa, dell’egoismo borghese».
Poi un’altra zampata all’omologazionismo della Seconda Repubblica: «Oggi tocca invece assistere a una neutralizzazione della differenza fra destra e sinistra che si realizza come insignificanza di ogni polarizzazione ideologica».
Ed ecco il Solinas dilagare ancora di più verso il «rosso», sempre nella icastica esposizione del suo collega-interlocutore: «Ma questo desiderio di “fare comunità” contro la socialità anonima del capitalismo animava i militanti di estrema sinistra degli Anni Sessanta e Settanta. E i velenosi ritratti che Solinas dedica agli ex-nemici rivelano in che misura egli si senta tradito da loro non meno che dagli ex-amici. Né è raro ascoltare da estremisti di sinistra «non pentiti» requisitorie altrettanto feroci contro il «pensiero unico».
E qui veramente «quel camerata sembra rosso», secondo recita l’azzeccatissimo titolo innestato in redazione sull’articolo formentiano.
Per il resto? Diciamo pure che il rosso si coniuga con l’azzurro (non quello berlusconiano, per carità!) -o, se si vuole, con il nero- allorché al «sociale» si aggiunge il «nazionale». E allora veniamo avvolti da spunti anch’essi molto gratificanti come questo che il Formenti, da par suo, riferisce con la sua prosa lucida e incalzante: «Prima di rispolverare banalità sulla coincidenza fra opposti estremismi cerchiamo le tracce di possibili differenze. Quando si scaglia contro il concetto di “nazione-azienda”, di un’identità nazionale definita dai numeri della contabilità economica, Solinas tenta di rianimare un’idea forte di nazione-popolo, affida alla riscoperta d’una memoria etnica e culturale la speranza di recuperare un senso di appartenenza, un progetto di aggregazione. E ricorda che, al contrario, “in quei miei coetanei avversari non c’era alcun interesse, alcun amore per l’Italia”. Erano gli stessi che oggi lo irritano parlando di eclissi dello stato-nazione e di società multietnica».
Uno sciovinista alla Le Pen, dunque, il Solinas che «sembra rosso»? Un intollerante che ha in uggia e in dispetto gli uomini con la faccia colorata, nera o gialla che sia? Neppure per sogno! Egli, tranquillizza il Formenti, «non è meno irritato dalla xenofobia e dal culto leghista della piccole patrie: non si tratta, scrive, di contrapporsi all’altro, ma di ritrovare la specificità del “carattere italiano”, di simbolizzare la differenza risvegliando adeguate capacità mito-poietiche».
Carlo Formenti vuole bene a Stenio Solinas. Diciamo questo non solo e non tanto perché si esprime positivamente -e meritatamente, diciamo noi, pur se tirannia di tempo ci ha vietato di prendere visione del frutto dell’ultima fatica di questo originalissimo intellettuale, ma siamo vecchi del mestiere e, dunque, abilitati ad arrivare al cuore di un libro per intuizioni- su “Per farla finita con la destra”, ma perché gli offre gratuitamente suggerimenti e consigli onesti. Questo, per esempio: «Attento, Solinas: con certe idee rischi di scoprirti anarchico».
Come mai queste parole? Gli è che il redattore del “Corsera” ha la precisa sensazione che la polemica solinasiana contro il «pensiero unico» collochi il suo amico-collega de “Il Giornale” e in perfetta simbiosi con le enunciazioni di una «testa d’uovo» anarchica oggi in gran voga quanto meno in certi ambienti culturali, ossia di Hakyn Bey (“Millennium”, ed. Shake). Vediamo: «Nell’era del pensiero unico -scrive questo intellettuale anarchico- il potere transnazionale del dio denaro può fare a meno degli stati e delle ideologie religiose che l’hanno servito fino a ieri. Ma se non c’è più spazio per una “terza posizione”, se esistono solo il pensiero unico e tutto ciò che gli resiste —aggiunge-, l’anarchico intelligente dovrà tentare di utilizzare anche nazionalismi e religioni neutralizzandone le valenze reazionarie».
Sbagliando o, mutatis mutandis, qui siamo nei domini culturali e ideologici di ciò che, in certi ambienti, si è convenuto chiamare «anarco-fascismo»? Si tratta di un filone elaborativo, attivistico, militante del Regime negli Anni Trenta, che fa corpo con la nozione defeliciana di «fascismo-movimento» contrapposta -un po’ schematicamente, a vero dire-, a quella di «fascismo-istituzione». Fra i massimi esponenti i nomi classici dell’ex-anarchico Berto Ricci, dell’ex-anarchico Lorenzo Viani, l’ex-anarchico e… successivamente «fascista-anarchico» Marcello Gallian, tutti eccelsi intellettuali.
Se così è, Stenio Solinas può «culturalmente» dormire sonni beati, tranquillissimi, perché è in ottima compagnia. Glielo dice uno che non «sembra rosso», ma lo è. Anche se accanto a questa tinta colloca da sempre, e con straordinaria felicità, il bianco e il verde per quel «socialismo con i colori d’Italia» di cui si cominciò a parlare negli Anni Settanta parafrasando una formula nata nella Sinistra francese. Un socialismo che faccia sventolare il Tricolore sull’unità inscindibile della Patria alla faccia del supertraditore Bossi, che, come dice, lo vorrebbe «gettare nel cesso». Alla faccia sua e dei suoi corteggiatori di Alleanza Nazionale di Forza Silvio.