di Paolo Chiocchetti
Ci sono voluti 19 soldati morti per incrinare le ipocrisie sulla campagna militare italiana in Iraq. L’idea di una “missione di pace” priva di rischi, di una scampagnata fatta di passeggiate al mercato, bambini sorridenti e pacchi-dono, si è dissolta brutalmente in un inferno di macerie, sangue e sconcerto.
La tradizionale politica dell’Esercito Italiano di interferire il meno possibile negli affari locali e stringere taciti compromessi o espliciti accordi con i notabili e le fazioni in campo; lo sforzo strenuo di apparire un’altra cosa rispetto a inglesi e americani, “italiani brava gente”, dediti non ad una guerra ma ad attività meramente umanitarie e di aiuto alla popolazione; tutto questo non ha potuto che scontrarsi con i dati fondamentali della situazione: una popolazione ridotta allo stremo da otto anni di guerra con l’Iran, dodici di embargo e bombardamenti e due guerre contro coalizioni occidentali, lasciata ora in balia di una disoccupazione di massa, una criminalità dilagante, servizi e sussidi pubblici inesistenti e un’occupazione coloniale straniera priva di piani e interessata solamente al controllo di petrolio e appalti. Un contesto che, inevitabilmente, avrebbe prima o poi richiamato sui militari italiani – parte, per quanto riluttante e “dal volto umano”, dell’esercito d’occupazione responsabile, assieme all’ormai misterioso Saddam, per i drammatici problemi del momento – la rabbia della popolazione irachena, e le ritorsioni della resistenza.
Non prendiamoci in giro. La responsabilità materiale di questo, come degli altri attentati, ricade su gruppi di guerriglia dai contorni ancora incerti, spesso controllati da forze reazionarie come Al-Qaeda o i nostalgici di Saddam. Ma la responsabilità politica di aver mandato quei ragazzi – forse arruolatisi per fuggire dalla precarietà e alla mancanza di prospettive del Mezzogiorno, forse spinti da un malinteso senso del dovere, certamente accecati da una società che vede nei più poveri, deboli e indifesi non fratelli ma oggetti da sfruttare, disprezzare, temere e reprimere – a morire, e a morire non per una nobile causa ma per quella dell’asservimento di un popolo e delle sue risorse, ricade su chi questa missione ha deciso e approvato.
Ricade su Berlusconi e sul suo governo fantoccio che, con sotterfugi tipicamente italiani, ha prima scelto un’ipocrita “non belligeranza” concedendo al medesimo tempo l’uso di basi e spazio aereo, e poi si è illuso di poter pesare nella corsa agli appalti della ricostruzione inviando qualche migliaio di carabinieri sorridenti in mezzo ad una polveriera pronta ad esplodere.
Ricade sui grandi mass-media, che hanno spesso e volentieri fatto cassa di risonanza ai deliri dei guerrafondai e ad uno stucchevole patriottismo militarizzato che si sperava ormai morto e sepolto con il cadavere di Mussolini (e che invece il Presidente della Repubblica stesso ha contribuito pesantemente a riesumare).
Ma ricade anche, in misura non minore, sui sepolcri imbiancati dell’opposizione, i vari Fassino, D’Alema, Rutelli, che hanno dottamente sollevato obiezioni alla guerra sulla base di “vizi di procedura” (comportandosi nei confronti dell’alquanto eterea legalità internazionale come i farisei del Vangelo nei confronti della legge mosaica), votato il finanziamento della missione italiana (di fatto, l’unica forma di partecipazione concreta dell’Italia alla guerra sottoposta all’esame del Parlamento) e, come la scaltra destra a volte ricorda loro, condotto di persona una guerra in Kosovo altrettanto illegale e immorale della presente.
Oggi, davanti alle immagini delle bare dei 12 carabinieri, 5 soldati e dei 2 civili italiani, come di fronte al ricordo dei già dimenticati 8 iracheni (e fa riflettere che, chi piange lacrime di coccodrillo sui “nostri” morti, non rivolga per un momento il pensiero ai milioni di caduti provocati in Iraq dalla politica occidentale degli ultimi venticinque anni), è giusto lasciare spazio alla pietas e ritirarsi in un amaro silenzio a riflettere sull’intrinseca dignità della vita umana, e su come la nostra società in mille modi la sopprima, neghi o perverta. Ma domani, cosa resterà nelle nostre menti di questo massacro?
Rimarrà il dolore e la tristezza per la capacità degli “schernitori di noi carne umana”, come cantavano i soldati della Grande Guerra sul fronte di Gorizia, di mandare degli esseri umani a uccidere e morire per la bilancia di potenza tra USA, EU e Cina, per le concessioni petrolifere irachene e per i profitti della Bechtel.
Rimmarrà lo sconforto di fronte ad un Iraq “libanizzato”, in preda al caos politico e socio-economico, alla proliferazione di bande terroristiche e signori della guerra, alla frammentazione politica su basi etniche, linguistiche e religiose, e alla mera lotta per la sopravvivenza che diventa ogni giorno più difficile.
Rimarrà l’orrore di assistere in tutto il mondo alla crescita di consenso per l’islamismo radicale, l’antisemitismo, il razzismo, il militarismo e l’arabofobia.
Ma, non dimentichiamolo mai, rimarrà anche la speranza e la promessa di un futuro migliore, incarnata nei milioni e milioni di cittadini del mondo che ogni giorno si mobilitano, scendono in piazza, scioperano e resistono contro un capitalismo fatto di guerra, miseria e devastazioni. Dalle migliaia di manifestanti inglesi attesi a Londra nei prossimi giorni per dare il degno benvenuto alla visita di stato di Bush al suo fido alleato Blair, ai due sindacati iracheni dei lavoratori e dei disoccupati che, in condizioni terribili, lottano ogni giorno per ridare al loro popolo pane, diritti e libertà.