di Valerio Evangelisti

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Non c’è tanto da dire.
Immagino che le famiglie dei soldati e dei civili francesi uccisi in Algeria, negli anni ’50 e ’60 del sanguinoso secolo XX, piangessero i loro cari, a buon diritto. Del resto, moltissime di quelle vittime non avevano nessuna colpa. Erano andate a difendere l’ordinamento coloniale perché comandate, perché lo giudicavano naturale, perché qualcuno le aveva convinte che fosse un dovere. Erano rimaste stritolate da un meccanismo allestito da altri. Personaggi cinici che i campi di battaglia e le zone a rischio li conoscevano solo da carte geografiche irte di bandierine.

Oggi, a mezzo secolo di distanza, non si discute più di quei lutti personali, ma di chi avesse ragione tra francesi e algerini. La risposta praticamente unanime è: gli algerini.
Vale per i belgi in Congo, per i portoghesi in Angola…
Forse conviene guardare anche il presente come se fossero passati cinquant’anni. E’ difficile, in certi momenti, ma è l’unico modo per cogliere tensioni e tendenze di lungo periodo, quelle che fanno la storia. Poi, su queste ultime, formare un giudizio.
Non è facile, ripeto, ma non è nemmeno impossibile.
Più facile è invece giudicare chi, a fronte di militari italiani caduti in Iraq, si lancia in una retorica patriottarda dagli echi risorgimentali, e chiama a una sorta di nostra riscossa nazionale. C’è una nota stonata in simile, unanime fanfara (da Ciampi in giù). Questa volta i patrioti sono gli altri. Noi siamo gli austriaci, i Radetzki, i Cecco Beppe. Gli occupanti, gli invasori: quell’ “austriaca gallina” che l’Inno a Oberdan invitava a massacrare a suon di bombe e a colpi di pugnale.
Sia maledetto chi ci ha messi in questa posizione del cazzo, ed espone giovani vite alla morte per quattro latte di petrolio.