Egregio direttore Stefano Folli,
Lei è al timone della testata giornalistica più prestigiosa e moderata d’Italia. E’ un incarico che impone un’inversità proporzionale tra prestigio e irrilevanza politica. Le Sue parole pesano, anche in questo tempo che ha corroso la credibilità di qualunque rilievo intellettuale. Le Sue scelte hanno a tutt’oggi un’incidenza sociale non secondaria. Non Le scrivo per contestarLe impostazioni di ordine editoriale e politico – cosa che eventualmente gradirei fare, secondo i canoni con cui Corrado Stajano ha espresso il proprio disaccordo rispetto al cambio di direzione del Corriere. Sono incline a giudicare pressanti e ben più ampi della Sua possibilità di intervento i giochi che, attualmente, si stanno facendo sulla testa perfino della proprietà del quotidiano da Lei diretto. Le scrivo, invece, per contestare, con la massima indignazione consentitami, ogni sillaba di un’operazione che mi pare di uno squallore irredimibile: il dibattito da Lei lanciato su un Nuovo Illuminismo a Milano. Il mio obbiettivo polemico non sono le parole da Lei scritte nell’elzeviro domenicale, bensì la convocazione di Massimo Cacciari ed Emanuele Severino all’interno di questo dibattito – un dibattito indicativo di quanto sta succedendo in Italia oggi: una tragedia, e nemmeno la più classica.
Vorrei, prima di violentare le salme mediatiche di Cacciari e Severino (con il loro incedere a danno di corpi e menti), riprendere la questione centrale da Lei sollevata: una possibile rinascenza della cultura illuministica a Milano, una riappropriazione, da parte dell’ex capitale morale d’Italia, di un ruolo di centralità operativa, di elaborazione del futuro. Come è ovvio, non è plausibile contestare alcunché di una simile speranza, che è comune non soltanto ai neofilosofi italiani, ma a tutti noi, che a Milano ci siamo nati, ci siamo cresciuti e anche ammalati. E’ piuttosto da contestare, se non l’obbiettivo, la traiettoria con cui questa speranza spera di raggiungere il centro del bersaglio.
Io non so se Lei, direttore, sia o meno milanese. Posso quindi comprendere soltanto parzialmente i motivi che La spingono a citare, per l’ennesima volta, Beccaria e poi la borghesia cosiddetta “illuminata” di Milano, quale supposta tradizione portante della meneghinità laboriosa, riformista, spregiudicatamente all’avanguardia (perfino cattolica: Cacciari addirittura rievoca Manzoni). E’, questo richiamo che Lei compie, un punto da chiarire, rispetto a un giudizio che gli italiani ancora devono formulare sulla propria storia recente. Non è possibile comprendere cosa siano stati non dico gli ultimi vent’anni, ma nemmeno gli ultimi dieci, qui in Italia, se non si fa piazza pulita di questo luogo comune che pretende di ammantare di oro falso la sordida malizia con cui ancora regna su di noi, a partire da Duomo irradiandosi fino a Pantelleria.
Insomma, direttore, Lei è davvero convinto che la tradizione veteroilluminista, alla Beccaria, sia in diretta continuità con questo spettro mediatico a bassa intensità di audience che sarebbe “la borghesia illuminata milanese” nel Novecento? Chi sono questi borghesi “illuminati”? I Bassetti? I Falck? Il fu sindaco Greppi? Che cosa hanno fatto per noi, milanesi e italiani, questi illuminati signori? Posso avanzare un sospetto in merito? Eccolo: questi signori non hanno fatto niente. Niente. Meglio: hanno fatto di peggio. Cosa? Questo: hanno distrutto il tessuto sociale, lo hanno imbrattato con uno stile di pensiero e di vita intriso del più bieco e devastante economicismo, hanno licenziato, convertito, spaccato famiglie, imposto un salto nel buio esistenziale e collettivo. Si sono fatti, come si userebbe dire in istrada, “i cazzi loro”.
Un esempio, abbastanza emblematico, che sfugge nella lettura del bel saggio, recentemente uscito presso Einaudi, di Luciano Gallino, circa il declino industriale in Italia. Un esempio che utilizzo con emblematica virulenza, vista la recente tragica scomparsa di uno dei protagonisti della saga dinastica di cui tratto: i Falck. Ecco il ruolo dei Falck, non nella storia di Milano, ma a oggi, a posteriori, dopo quella storia gloriosa, lucida e ottonata: un ruolo pari allo zero, dannoso, incivile, vilissimo. Questa che il laico Tg3, l’altra sera, legittimava proprio come “dinastia”, ha dapprima imposto un ghetto della migliore alienazione classista in quel di Sesto San Giovanni; poi ha deciso che, siccome produrre non era più lucroso, si poteva passare direttamente a una conversione, con colossale taglio di migliaia di lavoratori, coccolati e cresciuti nell’idiozia di un affetto umanissimo nei confronti delle macchine antiumane che li ammazzavano (un paradosso che i marxisti dovrebbero sempre tenere in debito conto). Quindi la parola d’ordine è stata: conversione e finanziarizzazione. Certo, è la moda degli ultimi vent’anni: dal prodotto alla volatilità del prodotto; dalla cosa al servizio. Siccome i signori del Nuovo Illuminismo sono, per l’appunto, illuminati, hanno capito prima di tutti quello che, poi, tutti avrebbero fatto. Ecco, in questo processo che ha guidato la vita milanese degli ultimi venticinque anni, cosa è accaduto: si è perso il collante sociale, in una rincorsa alla terziarizzazione avanzata della vita; si sono alzati in modo scriteriato i tassi di aspettativa degli individui, ricomponendo una sorta di aleatoria comunità delle prospettive individuali, totalmente insufficiente a riempire il vuoto psichico creato dalla distruzione della socialità; non si è investito affatto in cultura, bensì in eventi che sembravano culturali, transitori ed effimeri, peraltro – dia retta a un intellettuale milanese – aventi a che fare con la cultura come una cartolina con il luogo da cui viene spedita; si è abbandonata l’Università, lasciandola in mano a baronie scatenate e ciniche, prive di progetto, saccenti, autoreferenziate, che hanno permesso l’esplosione a granata dell’antico progetto pedagogico e formativo, diffranto tra Statale e Bicocca e altri enti minori; si è esaltato, anche in tempi di crisi marcia, il modello milanese, pneumatico ed efficientista, fatto di cartolarizzazioni finanziarie, plausi alla evidente bolla della Nuova Economia (che mi pare tanto Nuova quanto l’Illuminismo che Lei, direttore, invoca), gracidio che evoca l’apotropaica riforma Biagi (un’autentica accelerazione dei processi degenerativi di cui sopra), il ritorno alla “politica del fare” e del “condominio”; si è permessa la volatilizzazione della partecipazione politica, in sequenza con decisioni strategiche che lo Stato perpetrò ventidue anni orsono. E a fronte di tutto ciò, la “dinastia” Falck ci ha offerto: storie private sotto pubblici riflettori da telenovela sudamericana, con processi, mercimoni, matrimoni, figliazioni postume, regate, ritegno assai “morale” del loro conducator, cattolicesimo di quest’ultimo e laicismo del primo cugino, articoli della Sua giornalista Lina Sotis a pompare un culto che non sfiora nemmeno i vertici di quello tributato ai Simpsons. Basti leggere la lettera di Alberto Falck ai propri figli, oggi pubblicata dal Suo giornale: ecco come processi interni a un’azienda (perché di questo si tratta e di nulla più) vengono elevati incivilmente a modello civile. Che poi ci arrivi un premier a mettere un piede tra porta e stipite, per convincerci che lo Stato è una grande azienda, beh, non deve stupirci.
Ciò che intendo è che lo sfascio, quello che la rivoluzionaria inchiesta caduta sotto la sigla “Tangentopoli” ha denunciato ma non punito, ha in questo modello di Nuovo Illuminismo il proprio amnio naturale. Senza i Falck, io non vedo Berlusconi. Senza i Pesenti, io non vedo la sottocultura leghista. Senza i Bassetti, io non prevedo lo sfaldamento tra società civile e impegno (se la ricorda, la “Lista Bassetti”?).
Vengo ora, brevemente, alle indegne passerelle che Massimo Cacciari ed Emanuele Severino si sono presi sulle pagine del giornale da Lei diretto.
Ora, se c’è qualcuno che non ha proprio il diritto di parlare su Milano, questi è Massimo Cacciari. Questo signore, che è sempre nel “mèllei” esitativo di chi pretende di insegnarci a vivere e pensare, ha albergato per anni a Venezia, a insegnare la filosofia in una facoltà non filosofica, salvo darci lezioni di laicismo e precisione etica e antimetafisica. Questo signore è stato sindaco di Venezia. Questo signore è talmente sgamato nei processi comunicativi e di prassi sociale, essendo filosofo, da cadere nella grettezza del baillamme gossipparo, venendo citato dal premier Berlusconi di fronte al premier danese, per fatti pecorecci che suonano quale leggenda metropolitana. Cadendo nella più bieca delle disavventure pettegole, questo signore adesso viene a insegnarci come si dovrebbe risollevare Milano. Lo fa essendo stato convocato da Don Verzè, il padre padrone del San Raffaele, per organizzare una specie di università a pagamento su discipline fumosamente umanistiche. Nelle parole di Massimo Cacciari, Don Verzè appare quale coraggioso parroco di una frontiera alta e meneghina, finanziaria e imprenditoriale e culturale. Ah sì? Beh, non è proprio un Illuminismo Nuovo quello che viene delineandosi, se trainato da Don Verzè, celeberrimo prete-manager milanese amico di Craxi e Berlusconi, con in dote l’altrettanto noto ospedale privato da lui presieduto, il San Raffaele. Nell’ordine di arresto del super ispettore ministeriale di una recente inchiesta, condotta su ospitaliere e ospedale, spiccano le “interferenze” sulle norme del bilancio di previsione dello Stato per il 1998 e del bilancio pluriennale ’98-2000, per i contributi statali alla ricerca scientifica a favore del Centro San Raffaele del Monte Tabor di Milano, per l’appunto, di don Verzé. Vale la pena ricordare che il sacerdote è già stato condannato per abuso edilizio e per la ricettazione di due quadri rubati a Napoli. E che cinque primari, funzionari e direttore sanitario del san Raffaele sono stati indagati a Milano per truffa aggravata ai danni dello Stato (la cosiddetta “Sanitopoli”). E’ questo signore che ha deciso di rilanciare in Milano il progetto di una cittadella tutta interna, privata. Per farlo, si è dato al marketing culturale: la filosofia che ritorna di moda, e che Cacciari presenta come una maniglia di ottone lucidato fino alla consunzione, altro non è che una strategia di marketing a favore di una sottospecie di polo universitario filosofico, guidato da una trimurti filosofica: lo stesso Cacciari, Emanuele Severino (intervistato sul Corriere dopo Cacciari) e Giovanni Reale (che immagino non verrà intervistato). Costoro ora dispongono anche di collana editoriale dedicata: in Bompiani. E, a quanto vedo, anche della tribuna del Corriere.
Io comprendo, direttore Stefano Folli, che il Suo mestiere comporti obblighi di relazione e compromessi faticosi con la tristizia delle vicende politiche che sembrano locali, ma sono nazionali. Capisco l’imbarazzo di vivere un arco di attesa, che durerà fino ad aprile, per l’arrivo in proprietà di Salvatore Ligresti. Comprendo tutto. Però, se ci pensa, Berlusconi Don Verzè e Ligresti non sono propriamente Nuovo Illuminismo. La cultura amministrativa di Gabriele Albertini, nemmeno. Tognoli, invocato da Cacciari, neanche. E, Le garantisco, nemmeno i Falck e i Bassetti.
Il ruolo chiave, in questa città, lo giocherà il ritorno di una società intellettuale che è davvero lontana dalla onomanzia e dalle strutture correnti.
Le preannuncio, per fare soltanto un esempio, che gli scrittori italiani stanno pensando di aprire a Milano una specie di Scuola Holden (quella fondata da Alessandro Baricco a Torino): solo che sarà totalmente gratuita e permanente. Se desiderano, i signori Cacciari e Severino possono ambire a venire a insegnare qualche ora: non verranno pagati, esattamente come tutti gli altri intellettuali che terranno lezione.
La ringrazio della pazienza e dell’occasione che ha fornito per parlare di simili argomenti. Suo
giuseppe genna
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