di Daniela Bandini
Mario Desiati, Neppure quando è notte, peQuod, pp.162, € 10,50. Mario Desiati è nato nel 1977 e vive nella Valle d’Itria dove lavora in uno studio legale. E’ uno degli autori selezionati nell’antologia I poeti di vent’anni (Stampa, 2000, a cura di Mario Santagostini). Questo è il suo primo romanzo. Assolutamente sintetica la biografia di questo giovane autore, del quale avremmo voluto sapere molto di più. Sappiamo solo che questo romanzo è un piccolo caso editoriale, nel senso che nel giro di dieci giorni è arrivato alla sua seconda edizione. E lo merita senz’altro.
Neppure quando è notte racconta la vita di Franz Maria, emigrato pugliese a Roma, deciso di vivere e sopravvivere a Roma con uno “zainetto pieno di libri, da Kafka a Hrabal, da Hasek a Jan Neruda , Musil, Holan, fino a Pasolini”. Una vita ai margini, dove il dio dell’alcool regna incondizionato nelle misere vesti di un cartone di Tavernello o un di un “mitico” Zonin bianco da due litri. Ma dove anche la più calpestata delle dignità non tollera il sapore ripugnante di un McChicken e Big Fish di un McDonald dato in pasto ai barboni, perché è nella filosofia McDonald non buttare via niente di tutto quel ben di dio.
Ma a tutto, evidentemente, c’è un limite. Nel romanzo, l’avventura di strada più estrema è vissuta con una lucidità sconcertante. L’essere ultimo, il disprezzato che non disprezza ma vivacchia cercando di crearsi il suo angolo da dove osservare il mondo e coglierne le opportunità, che guarda in giro e vive la sua città con i riti della stazione Termini, gli orari della Caritas, i pellegrini, l’anno santo, le leggende di barboni che diventano miliardari o che vengono invitati in Vaticano per l’annuale lavaggio dei piedi… Figure leggendarie che ai nostri occhi si accontentano di degradare il paesaggio o gettare discredito sull’amministrazione comunale, mentre si rivelano perfetti interpreti delle nostre stesse contraddizioni portate al limite.
Il risveglio dopo uno sbronza fa parte della nostra esperienza collettiva, ma il risvegliarsi sempre la mattina dopo una sbronza è la più raccapricciante delle realtà. “Quando mi svegliai sotto la montagna di stracci dove avevo dormito, pensai di essere morto. Sentivo un tale fottuto freddo da non capire un accidente. Ero quasi assiderato. Il cattivo odore di cherosene degli stracci mi diede lo shock per riprendere a riflettere… La prima cosa che facemmo, appena usciti, fu quella di andare al drugstore e comprare il nettare della giornata. Il sacro nettare era un bel bottiglione di vino bianco…”
Ma non tutte le sbronze sono uguali. La vita e le sbronze di Franz Maria non sono le stesse di Charles Bukowsky, sono molto italiane: avranno lo stesso grado alcolico, ma sono italiane. Sono italiani gli scenari e l’emarginazione “integrata” dei personaggi, è italiano lo stile politico, sono italiani i cittadini alle prese con la nuova immigrazione di albanesi e zingari, sono italiane le provocazioni cantate a squarciagola di “Bella Ciao”, le risse con le “Teste Glabre che facevano la ronda contro i marocca, i mangiabanane, i negroidi, le battone, i finocchi, contro gli anarcoidi e parassiti come me…” Sono italiani gli innamoramenti, dove non è l’emarginazione che unisce o divide, ma l’oggettivo ritrovarsi nella stessa strada a quell’ora, e dove l’innamoramento sembra a volte una resurrezione a volte una frustrante costrizione, dove l’ultimo aspetto degno di essere vissuto è proprio l’oggetto del nostro amore. Una carica della polizia e lui che la salva da un pestaggio…
La città di Roma è fondamentale in questo romanzo. Immensa e generosa, accogliente, piena di pertugi anche psicologici dove ripararsi, ma anche piena di fasci, di gente che cerca la rissa, la provocazione: “Sai quel cubo di travertino dove te lo devi mettere la prossima volta che fai una protesta del cazzo, comunista di merda?” Scrivo da Bologna: impensabile a Bologna.
La generazione di Franz Maria, lamenta l’autore, è una generazione che non ha dato niente perché prima altri avevano già fatto tutto. Avevano fatto la Resistenza, avevano fatto il ’68 e la stagione delle lotte operaie, avevano fatto il ’77. Insomma, Franz Maria ha la netta sensazione di non poter rappresentare nulla, eppure viene fuori, nella sua feroce e dolorosa voglia di vivere, questa memoria storica. Ma così forte che quasi sembra l’urlo represso di milioni di oppressi, sembra il quadro vivente del “Quarto Stato” che avanza un po’ barcollante sotto l’egida della trionfante bandiera rossa, c’è tutto il moto rabbioso di un’esistenza che non vuole essere calpestata. Sembra che non sia passato invano, il passato…
Nella vita di Franz Maria c’è tutto questo e non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Non c’è un commento moralistico da fare. C’è la condivisione di un dolore e c’è la solidarietà, c’è il linguaggio di strada, né scontato né monotono, c’è molta politica e molta riflessione sui politici ma, caso unico se non raro, non c’è la minima traccia di qualunquismo. “… Cazzo, ma non lo capisci che senza religione vivremmo meglio? Non ci sarebbe quel casino che sta dalle tue parti. Cristo, Maometto, Geova. Ognuno con in testa le sue idee, i suoi principi. Maccheccazzo sono questi principi religiosi se per questo devi ammazzare un altro, ma sbronzatevi tutti, dico, sai che bello, un diluvio di vino invece che di acqua, al posto dei quaranta giorni di piogge torrenziali, un delirio di Aglianico dal cielo, oppure uno chardonnay glaciale da bere. Su questo edificare la nostra civiltà, la nostra tradizione. Immagina un mondo fondato, senza ipocrisie, sopra un bicchiere semipieno e bombato, guardarlo in controluce e dichiarargli: ubriacami”…
Alla salute, per l’ultima volta, Franz Maria.