Ali le Magnifique è stato il caso letterario francese del 2001, con tutti gli ingredienti per far discutere: firmato con uno pseudonimo, Paul Smaïl, che dà adito a qualsiasi illazione [ma in seguito Jack-Alain Léger ha rivelato di essere Paul Smaïl, ndr], è ispirato alla storia del serial killer dei treni francesi Sid Ahmed Rezala, morto suicida un paio d’anni fa nel carcere di Lisbona. Il libro ha fatto discutere prima ancora di uscire: ritirato in extremis dalla casa editrice Calmann-Lévy a causa, pare, dei troppo feroci e violenti attacchi all’establishment culturale e politico non solo francesi, è stato successivamente pubblicato dalla Denoel, casa editrice storica e nota per aver pubblicato i migliori scrittori stranieri e non (da Philip K. Dick a Ray Bradbury, da Jack Kerouac a Norman Mailer sino a Arto Paasilinna).
In Italia Alì il magnifico, tradotto da Feltrinelli (pp. 538, 18,00 €), almeno sino ad oggi è passato quasi del tutto inosservato: un peccato perché nel romanzo si respira davvero “un soffio di rivolta” ed il suo autore merita di essere letto e di essere ascoltato. Anche perché Paul Smaïl — che abbiamo incontrato in un’intervista via mail – non solo ha scritto un attacco al cuore di ogni stato cosiddetto democratico, ma ha evidenziato uno dei problemi fondamentali di ogni arte contemporanea: il fatto che si dia più peso all’autore che al contenuto, che ci si interessi di più (e si valuti di più) CHI ha scritto (cantato, suonato, dipinto) rispetto a COSA è scritto, cantato, suonato, dipinto.
Proprio da questo punto è partita la nostra conversazione.
Da dove nasce la decisione di non rivelare la tua identità? Forse perché, come scriveva Rimbaud, “Io è un altro”?
Io è molti altri! E giocare con le proprie identità è una delle ultime libertà che ci sono rimaste, in questi tempi opprimenti di panottica mediaticosociale in cui viviamo. E poi, vedevo in questo anche il miglior modo per uno scrittore, di essere giudicato non su ciò che è – o che dà l’illusione di essere: l’uomo pubblico, l’uomo sullo schermo, l’uomo in carne fatta di pixel – bensì su ciò che scrive, su ciò che inventa, su ciò che immagina.
Nella prefazione sottolinei il pericolo dell’alleanza tra il fanatismo religioso, il conformismo sociale, il fascismo mercantile e la schiavitù volontaria delle masse rincretinite della società dello spettacolo. Verso la fine del libro, poi, accenni ad una nuova forma di totalitarismo: le nostre democrazie occidentali…
Io penso effettivamente che le nostre democrazie occidentali stiano andando
sempre di più verso un nuovo totalitarismo, tanto più sornione e difficile da combattere perché si presenta sotto aspetti avvenenti (che a me danno la nausea) del cool, del simpatico, dell’easy, del soft, del light, del giovane giovane giovane eccetera. Naturalmente, “Altrove è peggio!”. Conosco l’argomento. Ma rifiuto di cedere a questo ricatto che ci fanno i Bush, i Berlusconi, i Blair, i Chirac – o l’economia di mercato, e ciò che l’accompagna: la società di mercato, la cultura del mercato, eccetera – o la miseria, il terrorismo, le donne velate, eccetera. Per citare ancora una volta Rimbaud: “La vita vera è altrove.”
Camus, ne “La caduta”, scriveva che “Quando tutti saremo colpevoli, allora sarà la democrazia”. Sei d’accordo?
Io la penso esattamente al contrario:quando saremo tutti innocenti… o per dirla meglio: quando non penseremo più in termini di colpa e di innocenza.
Ma mi servirebbero ore e ore, pagine e pagine per esprimere il mio sentimento a questo proposito.
A proposito di colpa: nel tuo romanzo è come se la società cercasse colpevoli da punire sotto i riflettori, ma non smettesse l’esistenza della colpa. Come se la colpa oggi tendesse ad essere eliminata. Un’ipotesi inquietante. Che tra l’altro è anche la tesi formulata da Pascal Brucknernel saggio “La tentazione dell’innocenza” e da Stangerup nel bellissimo romanzo “L’uomo che voleva essere colpevole”…
I politici, e in generale coloro che prendono le decisioni, fanno una sorta di doppio gioco molto perverso che consiste nel colpevolizzare la società intera e nel colpevolizzare la nostra esistenza in tutti i suoi aspetti, fino ai nostri piaceri più banali: la sigaretta, il bicchiere di vino…ma contestualmente svalorizzando la nozione di colpa, di peccato. Il Male che si scrive con la M maiuscola è sparito, ma tutto è male. La Colpa non esiste più, ma il cittadino è costantemente in colpa. Un esempio idiota, ma molto rappresentativo: la patente di guida è diventata da noi una patente a punti: per il solo fatto di avere un volante fra le mani, si è a priori colpevole. Ma se hai commesso un delitto sulla strada, non è più una colpa: solo qualche punto in meno sulla pagella, come a scuola. Siamo infantilizzati. Siamo deresponsabilizzati. E credo che sia questa “decolpevolizzazione colpevolizzante”, se posso dire, che fa impazzire i più fragili, o i più degni – gli Ali il Magnifico…è questa scomparsa del “tragicità della vita” che ci rende tutti depressi.
Nel libro citi molto spesso Guy Debord: in effetti che “la società dello spettacolo non consiste in un insieme di immgini, ma di un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini” è piuttosto profetico…
Adesso, Guy Debord si ritrova in tutte le salse (almeno in Francia). Ma è un modo subdolo di non volerlo ascoltare, di non volerlo capire. La sua opera viene ridotta a una banale critica dello spettacolo. “L’anti-Berlusconi!”, ho letto in non so più quale stupido giornale – si tratta in realtà di una critica molto più radicale del mondo “realmente al contrario”…
Leggendo “Alì il magnifico” mi è venuto in mente l’Ellis di “American Psyco” e il Palahniuk di “Fight Club”: il primo per il ricorso alla figura di un assassino seriale mediato con le sue vittime attraverso l’ossessione della pubblicità, il secondo per il ricorso ad un linguaggio dove la ripetizione ossessiva è (im)portante nel fluire della scrittura. Sono autori che ti hanno influenzato? E’ una coincidenza o il delirio di un critico?
Ho letto “American Psycho”, che ho trovato notevole. Ma innanzitutto perché è un romanzo balzacchiano (l’ho detto à Bret Easton Ellis quando ho avuto il piacere di conoscerlo e lui si è detto d’accordo, anche se lui cita più volentieri Dostoevskij). E’ possibile che io ci abbia pensato inconsciamente, ma non mi sono mai detto – “Toh!scriverò un “French Psycho”…e non ho mai letto una sola riga di Palahniuk. Quindi, stai delirando solo a metà!
Un tuo riferimento certo, quasi ossessivo, è Rimbaud, che citi spessissimo, quasi fosse uno spot: pensi che le sue “illuminazioni” abbiano ancora un senso per masse di gente illuminata al neon?
“Assolutamente moderno”…, diceva. E lo è, in effetti. Non nel senso moderno, assolutamente moderno, della parola moderna. Ma in questo, che è sempre più presente fra di noi. Rileggo Départ, o Solde, o Démocratie, e dico a me stesso: “Ecco.”
A proposito di masse: sullo sfondo del tuo libro c’è il degrado di una periferia parigina che è poetica solo nella topomastica. Una scelta piuttosto ironica rispetto al cinismo di media che questo degrado tendono a spettacolarizzarlo…
Ma non ho inventato niente purtroppo! Solo osservato! le periferie più lugubri hanno tutte la loro Città dei Poeti, la loro Città dei Fiori…e tutto il cinismo della nostra epoca è là, in questi nomi. Più la realtà vissuta è feroce, più il vocabolario è poetico e floreale. Oppure si creano degli eufemismi, delle sigle per indicare quello che non si vuole più vedere: i ciechi sono non-vedenti, i clochards sono SDF (sans domicile fixe, NdT), eccetera. Adorno, Klemeper, Arendt, e altri, hanno dimostrato che questa néologomania era una delle armi più pericolose del fascismo e del nazismo…
Dici che arriveremo al limite descritto da Lydie Salvayre? Nel suo romanzo “Anime belle” immagina che si organizzino dei veri e propri viaggi turistici attraverso le periferie più degradate d’Europa…
Ma io trovo già intollerabile il turismo di massa nei paesi poveri, e lo trovo ancora più intollerabile quando è praticato dalle “belle anime”… gli adepti del Guide du Routard (non so come lo chiamate, ma credo che esista una versione italiana), dell’ideologia del “Routard” di cui si è giustamente preso gioco Michel Houellebecq. Ogni sera, al telegiornale, gli abitanti delle nostre periferie più diseredate sono filmati come vengono filmati gli animali selvatici delle riserve africane nei documentari sugli animali. E io non dubito che il libro di Lydie Salvayre, una scrittrice che apprezzo molto, sia premonitore:presto, dei tour operator organizzeranno dei safari fotografici nei quartieri poveri, a pochi chilometri da Parigi…
Il tuo protagonista tenta di ribellarsi a tutto questo degrado non solo periferico. Tempo fa Beigbeder (autore di “99 franchi”)mi diceva che il vero pericolo è che la disobbedienza diventi una forma di obbedienza. Sei d’accordo?
Solo Beigbeder poteva proferire una tale cazzata! Un deficiente,
drogato di prodotti, finto anticonformista e vero piccolo borghese, un mistificatore il cui solo talento consiste in pochi slogan pubblicitari, questo povero pagliaccio parlava di sé, evidentemente: delle sue piccole provocazioni formattate, delle sue piccole trasgressioni fabbricate apposta per andare in onda in prima serata, della sua stessa disobbedienza che è, in effetti, la forma più abietta della sottomissione e del compromesso.
Cominceremo la rivoluzione senza di lui! E lo impiccheremo, questo collaborazionista della SS (Società dello Spettacolo)!
Martin Page, invece, nel suo “Coment je suis devenu stupide” (“Come sono diventato stupido”, NDT) ironicamente sostiene che l’unica soluzione è diventare stupidi…
E’ ironico? Vabbè. Ma mi fa pensare a quei finti spiriti forti che nel XVIIe secolo, credevano di trovare la pace dell’anima giocando a fare i devoti: alla fine, hanno vinto i Gesuiti! E molti dei miei contemporanei che credono di praticare l’insolenza non hanno avuto bisogno di diventare
stupidi, non hanno avuto bisogno di cambiare niente…toh! Beigbeder, per esempio!
Per quanto mi riguarda, tenterò di limitarmi all’intelligenza…