Un’ora fa uscivo dal cinema milanese Colosseo, dove mi sono annullato nella visione di Young Adam, il film tratto dal romanzo del leggendario Alex Trocchi, che le Edizioni Socrates hanno appena pubblicato, mentre Fandango si è data al Libro di Caino. Parlerò più avanti direttamente dei libri di Trocchi, quando li avrò letti. Trocchi, figura mitologica e anticipatrice del situazionismo, è una sagoma per me confusa, scoperta in occasione del bellissimo speciale che qualche settimana fa gli ha dedicato Alias. Faccio appello ai direttori e ai redattori di Carmilla, che hanno l’età e lo spirito per saperne un po’ più e meglio di me. Però dopo la visione di questo film grigiazzurro, sorta di noir esistenzialista camusiano, mi sembra necessario che, se ancora non abbiamo qui affrontato il mito di Trocchi, almeno si lasci la parola a qualcuno in grado di farlo. Questo qualcuno è il brillantissimo Simone Barillari, che su RaiLibro ha dedicato un lungo intervento a quest’italoscozzese che Ginsberg definì “la mente più brillante che abbia mai incontrato”…
Alex Trocchi l’astronauta
Il sesso, l’eroina, la politica e il linguaggio per lo scrittore scozzese Alexander Trocchi, a quasi vent’anni dalla sua morte
di Simone Barillari
«… mi è difficile ricordare ed esprimere, e difficile esprimere e ricordare, se talvolta le parole emergono dalla pagina improvvise, innaturali, come fossero scheletri maligni e tintinnanti che mi accusano e mi divertono con le loro mosse oscene che fanno impazzire il mondo, immagino che ciò accada perché esse si prendono una specie di vendetta ancestrale su di me, sull’uomo che in ogni momento è pronto a schierarle per la morte o la resurrezione… » si legge nel Libro di Caino di Alexander Trocchi.
Quello che ormai rimane di lui — a poco meno di vent’anni dalla sua morte unanimemente ignorata e mentre quest’epoca accantona quella di cui Trocchi fu il più segreto tessitore —, quello che adesso rimane è soprattutto e quasi soltanto una lontana leggenda, convenzionale come ogni leggenda anche nei suoi orrori.
Public junkie
Tra l’inizio degli anni Cinquanta e il suo ultimo giorno, dunque, Alexander Trocchi era stato il tossicomane dichiarato per antonomasia, e insieme a William Burroughs — di cui fu amico — e forse ancora più di lui, inventò la figura rabbiosa del public junkie e predicò la droga come strumento di eversione politica. Trocchi e Burroughs si incontrarono per la prima volta su un aereo in volo per Edinburgo nell’estate del 1962, invitati entrambi a una convegno letterario e lì subito accomunati nell’epiteto di “feccia cosmopolita”, cosmopolitan scum, con cui il dimenticato poeta scozzese Hugh MacDiarmid li salutò, rivendicando un canone della letteratura scozzese al quale Trocchi non avrebbe mai avuto accesso. Quello che Trocchi rispose conteneva un condivisibile grado di oggettività, ma non per questo dice meno di lui: Trocchi gli rispose di aver scritto lui stesso tutto quello che di buono la letteratura scozzese aveva prodotto negli ultimi vent’anni. A New York, nei mesi che seguirono, Burroughs e Trocchi avrebbero avuto modo di frequentarsi assiduamente, quando Burroughs, a volte in compagnia di Marianne Faithful, andava sulla chiatta di Trocchi che spesso lo aiutava a bucarsi, «le vene erano già completamente rovinate, ma il vecchio Alex avrebbe trovato le vene anche a una mummia».
Intorno alla tossicodipendenza, poi, la biografia di Alexander Trocchi annoverava una consueta rassegna di apocalissi private, che ha senso ricordare solo nella misura in cui scrittura e vita sono state in Trocchi indissolubili e a tratti indistinguibili: due mogli iniziate all’eroina, la seconda mandata a prostituirsi per la droga nei giorni stessi in cui le dedicava il suo maggior romanzo; alcuni figli, in parte abbandonati, in parte eroinomani, uno morto piuttosto giovane, un altro suicida a quattro mesi dalla scomparsa del padre; e alla fine di tutto il cliché magnetico dell’eclisse allo zenit, di chi abbandona sottraendosi al destino che gli dovrebbe assegnare il talento, gli ultimi venticinque anni trascinati sul suo terzo libro, profeticamente intitolato The Long Book, con il quale avrebbe riscosso anticipi rivendendolo a sempre nuovi editori senza mai portarlo a termine, e forse senza aver mai creduto di averlo davvero cominciato.
Eppure, con il secondo e con pochi altri scritti, Alexander Trocchi aveva teorizzato tra i primi in Europa l’espansione della coscienza attraverso le droghe, la loro virtù sociale di opposizione al sistema, inserendosi nella lunga tradizione che da James Boswell, scozzese come lui, portava fino a Jean Genet, che Trocchi tradusse: ed è ora legittimo quanto inutile domandarsi perché, nei volumi che oggi ripercorrono quella stagione artistica, venga ricordato quasi soltanto per aver definito nel Libro di Caino il termine cool, marchio di quell’epoca nato dal gergo dei tossicodipendenti, dove indicava il senso di benessere che ha l’organismo sotto eroina — «la percezione si chiude verso l’interno del corpo, le palpebre si appesantiscono, il sangue prende coscienza di sé, una lenta fosforescenza si disperde in tutta la struttura della carne, dei nervi e delle ossa; l’organismo ha la sensazione di essere intatto e infrangibile, e soprattutto inviolabile. Per descrivere l’atteggiamento generato da questo senso di inviolabilità alcuni americani hanno usato la parola cool».
Parigi: Merlin e pornografia
Durante il tempo in cui visse a Parigi, nella prima metà degli anni Cinquanta, Alexander Trocchi si mantenne producendo sotto improbabili pseudonimi (Jean Blanche, Carmencita de las Lunas) romanzetti pornografici in serie, vedendo inoltre “nella stesura di opere pornografiche la possibilità di mandare l’establishment a farsi fottere”. Dei suoi dirty books ha più tardi rivendicato queste paternità: White Thighs [Cosce bianche], Thongs [Cinghie], The Carnal Days of Helen Seferis, School for Wives [Scuola per Mogli] e Helen and Desire, che dev’essere considerato il libro erotico più riuscito. È forse la più sicura verifica del talento di Trocchi il fatto che, malgrado gli accordi contrattuali prevedessero una scena di sesso ogni sei pagine, la storia di Helen Smith, attraverso gli esotismi ugualmente prevedibili di spiagge australiane e deserti nordafricani, attraverso stupri invocati e l’indispensabile prostituzione, ammetta di essere descritta e interpretata anche come la lenta dissoluzione di una personalità nei gironi del sesso. Trocchi lo scrisse in otto giorni, nel 1953, firmandolo come François Lengel — perché nello slang di Glasgow FL era il nomignolo del preservativo.
Oltre a sé, per quasi tre anni Trocchi riuscì a mantenere in vita anche una rivista letteraria, il Merlin, dove trovarono ospitalità autori reietti dell’epoca, Beckett e Ionesco, Apollinaire e Genet: “un mezzo per combattere la chiusura mentale”. E per i libri come per la rivista l’editore fu il famigerato Maurice Girodias dell’Olympia Press, a cui Trocchi consigliò Histoire d’O come Lolita, facendolo uscire a Parigi nella sua prima edizione mondiale.
In realtà, tutta la prosa di Trocchi, anche quella alta, e una parte significativa delle sue poesie, sono percorse come un circuito elettrico da una tensione erotica quasi intollerabile, da un desiderio fisicamente doloroso non soltanto per il sesso ma per la carne nella sua consistenza imperfetta di materia, nelle sue corruzioni oscene. Nel suo romanzo migliore, poco importa se davvero in una scena autobiografica, viene celebrata l’inconcepibile sensualità di una giovane donna sformata dalla fatica e con un moncherino di legno al posto della gamba. Un’ulteriore notizia, che non per forza dev’essere autentica per essere significativa e che aggiunge forse al quadro della sua ossessione più di quanto si perda per via di una certa grossolanità, riferisce che Trocchi era il cerimoniere di pratiche orgiastiche nella cerchia delle sue amicizie.
L’internazionale situazionista.
Anche da altri eccessi di quell’epoca, comunque, Alexander Trocchi si lasciò segnare quasi come da stigmate, perseguendoli come si può perseguire la necessità di un segno. A Parigi elaborò al fianco di Guy Debord e Jacqueline de Jong le tesi rivoluzionarie e i primi manifesti di quella che sarebbe presto diventata l’Internazionale Situazionista. Nelle riunioni semiclandestine sulla riva sinistra della Senna veniva predisposta la technique du coupe du monde, una presa non cruenta del potere planetario attraverso la lenta infiltrazione nei mezzi di produzione culturale di massa. Per anni ancora, ben oltre la plausibilità dei suoi piani, Trocchi portò in dibattiti e pubblicazioni sui due continenti il suo Sigma Project, quella che sul numero della rivista dell’Internazionale Situazionista uscito nel gennaio 1963 lui prospettava come l’insurrezione invisibile di un milione di menti. «Il colpo di stato mondiale dev’essere culturale nel più vasto senso del termine. Con i suoi mille tecnici, Trotzky occupò i viadotti e i ponti e gli snodi telefonici e le centrali elettriche. La polizia, vittima delle convenzioni, contribuì alla sua brillante impresa montando la guardia ai vecchi chiusi nel Cremlino. Loro stessi non avevano avuto la necessaria elasticità mentale per cogliere che la loro presenza nelle tradizionali sedi del governo era irrilevante. La Storia li aveva aggirati. Trotzky aveva le stazioni ferroviarie e le centrali elettriche, e all’atto pratico il “governo” veniva chiuso fuori dalla Storia da parte delle sue stesse guardie. Così l’insurrezione culturale deve impossessarsi delle reti della comunicazione e delle centrali della mente». Per la presa dei mezzi di produzione culturali i tecnici silenziosi avrebbero dovuto essere un milione, e il nome del progetto, il sigma simbolo algebrico della somma, voleva forse contenere anche l’enorme forza dell’unione.
La rivoluzione culturale si sarebbe contemporaneamente impadronita delle università, ne avrebbe ridisegnato la funzione e i metodi. «Le burocrazie delle università si mescolano con la burocrazia di stato, vi si specchiano in piccolo. […] Le università sono divenute fabbriche per la produzione di funzionari qualificati. Il sistema competitivo incoraggia le tattiche diligenti, ben oliate, quelle più plausibili. È certamente una sofferenza e forse perfino un pericolo per uno studente interessarsi profondamente alla sua materia, o dovrà sempre essere pronto a dimostrare le sue competenze; gli studenti nelle nostre università sono talmente occupati a esercitarsi nell’apparenza che si incontra raramente qualcuno che si preoccupi della realtà. L’intero sistema è un esiziale anacronismo. […] L’Università Spontanea — un luogo dove inventare efficaci moduli comportamentali, dove gli allievi possano imparare come dovremo essere se dovremo essere e fare insieme. […] La secessione unanime delle menti più vitali è la sola risposta. Il basilare cambiamento di condotta descritto finora deve accadere. STA ACCADENDO. Il nostro problema è rendere gli uomini consci di questo fatto, e ispirarli a partecipare. L’uomo deve prendere il controllo del suo futuro: solo così potrà mai sperare di ereditare la Terra».
A metà degli anni Cinquanta, Alexander Trocchi condivideva questi discorsi con Jacqueline de Jong, Asgern Jorn e soprattutto Guy Debord, per il quale quegli anni e discorsi possono verosimilmente appartenere all’incubazione del più importante saggio sui mass media del Novecento, La Société du Spectacle, la cui copertina originale era in carta vetrata, per eliminare anche fisicamente qualsiasi libro del passato gli fosse stato messo accanto. In una lettera da Parigi datata 21 settembre 1957, quando da oltre un anno Trocchi viveva negli Stati Uniti, Guy Debord lo saluta così: “Comunque, qui ci divertiamo. Conto sempre su di te per due o tre piccole rivoluzioni in cantiere. A presto.”
Adamo e Caino.
Niente di tutto questo — le droghe e l’ossessione della carne, l’oltranza politica e una perversa sorta di carisma — rimase estraneo ai due romanzi compiuti che sono la sua unica eredità letteraria. Uscito nel 1956, Giovane Adamo potrebbe ancora acconsentire alla definizione di romanzo, storia di un’ossessione sessuale inscritta in un omicidio, ma è già insofferente dei canoni e delle strutture romanzesche. Nel 1960, mentre a New York Trocchi era insieme a Ginsberg e Corso tra gli artefici della cultura beat, e poco prima che un’imputazione per spaccio di stupefacenti a minore lo portasse a espatriare in Canada dove incontrò Leonard Cohen e lo iniziò all’oppio, veniva pubblicato in America dopo interminabili rifiuti editoriali Il Libro di Caino, che sommava in sé narrazione, pamphlet e diario politico e filosofico, “Caino e le sue orazioni, Narciso davanti al suo specchio”, registrando esistenza e impeti di un tossicomane. «Da molto tempo ho maturato l’impressione che lo scrivere che non è ostensibilmente un’operazione dell’autocoscienza risulta essere per il nostro tempo qualcosa di scarsamente autentico. Penso che ogni dichiarazione dovrebbe essere datata, il che è un altro modo di dire la stessa cosa. Non conosco nessun ragazzo ignorante o sciocco che possa accettare per vere le vecchie forme oggettive. Non esiste nel libro alcun personaggio abbastanza grande da porre in dubbio la validità del libro stesso?»
Entrambi i romanzi, sia pur in misura e modi diversi, trasportano in ambito letterario la cifra di radicale eversione che meglio di ogni altra descrive Trocchi, la sua volontà incondizionata di situarsi al di là e al di sopra di qualsiasi regola costituita, ponendosi in uno stato di sospensione quasi extraterritoriale di ogni autorità: accomuna le due storie la presenza di una chiatta di cui sono inquilini i protagonisti. Un antagonismo irriducibile ed esteso a ogni attività che Trocchi abbia intrapreso era la più eclatante misura di quella vita, di cui la sua letteratura può forse considerarsi la continuazione con altri mezzi. In uno dei primissimi numeri di Merlin, un editoriale di Trocchi portava il titolo di War and Words, e in questo approssimarsi anche quasi nel suono della letteratura alla lotta è contenuto ogni suo scritto. Le pagine sono attraversate da una rabbia meticolosa contro tutti dispositivi del romanzo classico — «nessun inizio, né mezzo, né fine» scrive nel Libro di Caino, mentre cerca a poco a poco di sottrarre dal suo libro ogni traccia di struttura narrativa. Alexander Trocchi fu tra i primi a tentare una letteratura slegata dall’artificio letterario, una scrittura che desse conto del suo divenire — «perché ora so che la struttura stessa del linguaggio è ingannevole». Una chiave di lettura cui andrebbero forse sottoposti i suoi due romanzi e il progredire del suo stile da uno all’altro riguarda lo sforzo prolungato, di cui a volte pare si avverta la lenta dolorosità, per abbandonare nel Libro di Caino ogni possibile canone del racconto, per liberarsi dallo stile e dai congegni del plot, quasi inscritti nella naturale facilità della sua narrazione. «Credi che sia facile? Credi che non debba far altro che sedermi e scrivere questa maledetta roba? Non ho una trama. Non ho personaggi. Non mi interessa tutto il solito armamentario. Non lo capisci? Quella è letteratura falsa. Io devo iniziare con il presente, qui, ora. Io…» Quest’incondizionata adesione al tempo che scorre, questa furibonda intimità con l’istante è la tortura di quei giorni perpetrati contro di sé. «L’angoscia dovuta a quest’obbligo di registrare comincia a gonfiarsi oltre il senso della registrazione. […] In certi momenti mi ritrovo a considerare tutta la mia vita come un’introduzione al presente, con il presente che rimane l’unica cosa da dichiarare […]. Il passato deve essere trattato con rispetto, ma ogni tanto dovrebbe essere affrontato, violentato. Non dovrebbe mai essergli consentito di pietrificarsi. Ogni uomo scoprirà chi è. Caino o Abele. E poi renderà l’immagine di sé coerente con sé stessa, ma solo se sarà prudente egli lascerà che sia in contraddizione col mondo esterno.»
Quello che si avverte al fondo della sua scrittura, quello che forse più di tutto lo ha spinto su posizioni di intransigenza politica, morale e artistica di cui ha scontato a più riprese e in modi diversi le conseguenze, è stata l’esigenza di misurare costantemente, con una lucidità cruenta e ininterrotta, la sua distanza dal sistema, verificandola su di sé, sul suo corpo e nella pagina, e ostentandone continuamente gli effetti e le ferite, esibendole come garanzia di estraneità e perfino di purezza innanzitutto davanti a sé, e forse negandosi infine anche la responsabilità del suo talento. «Ho avuto bisogno delle droghe», si legge in una nota trovata tra le carte di Trocchi dopo la sua morte, «per abolire dentro di me il doloroso riflesso della schizofrenia dei miei tempi, per spegnere l’impulso di tirarmi subito in piedi e di uscire nel mondo a vivere un’identità appropriata e tradizionale… Gli astronauti che erano i miei eroi si muovevano lungo le traiettorie dello spazio interiore… Volevo evadere dalla prigione mentale del mio linguaggio, volevo renderlo nuovo».
(per la collaborazione e i materiali offerti nella realizzazione di questo speciale, l’autore desidera ringraziare Anna Battista, curatrice del “Giovane Adamo”, e Leonardo Giovanni Luccone, traduttore del “Libro di Caino”)
[da RaiLibro]