[Sta per uscire in versione italiana, per Lo Specchio di Mondadori, Electric Light, raccolta di versi del premio Nobel irlandese Seamus Heaney, per la traduzione di Luca Guerneri. Pubblichiamo una recensione intorno all’originale a cura di Andrea Marchesini]
Electric Light (Faber & Faber, pp.86) è l’undicesima raccolta di poesie di Seamus Heaney, il poeta irlandese del Derry, Nobel del 1995. In questo libro Heaney si misura con i differenti generi poetici offerti dalla tradizione, come l’egloga, l’elegia, l’epigramma, lo scherzo, e con i toni ora della lirica estatica, ora dell’aneddoto pungente, o della conversazione rilassata di un dopo cena. Le emozioni che porge al lettore sono spesso permeate da una appassionata riflessione sull’infanzia: quella privata, del poeta, e quella della guerra civile del suo popolo martoriato, ma anche quella della cultura europea e del suo linguaggio oggi più che mai minacciato dalla volgarità della standardizzazione.
La coscienza dei propri sessantadue anni lo porta a ricordare i giorni, i luoghi e gli amici perduti, e lo fa nei toni freddi (a lui consueti) di Auden e di Larkin (dal cui pessimismo prende però le distanze) ma non dimentichi, a tratti, della calda passione di Yeats, e delle sottigliezze liriche di Graves o della Bishop.
Fin dal primo componimento, At Toomebridge, celebra la bellezza del paesaggio intrecciata con l’orrore della storia (“Dove c’era il posto di blocco / Dove venne impiccato il ragazzo ribelle nel 98”) riflettendo sulla natura del mondo da cattolico uso a leggerne i misteri come se fosse il libro di Dio, ovvero la lingua indecifrata con cui ad ogni costo ci si deve riconciliare per non perdersi nella disperata successione delle morti di quanto contiene: cose, persone, ricordi. Ma i paesaggi della sua infanzia nel Derry sono emozionanti soprattutto perché c’è l’uomo, cioè la tradizione che innanzitutto è traduzione di abitudini, racconti, tentativi di capire, e di violenza che ricorre inspiegabile ma certa come una stagione. E questo si riflette nella toponomastica che trattiene tracce del conflitto tribale anglo-irlandese.
Con piglio smaliziato e irriverente qui Heaney gioca il ruolo del “sixty-year-old smiling public man”, per dirla con Yeats e, cosciente della propria autorità, passeggia nei giardini della poesia con passo capace di far proprie tutte le suggestioni che incontra. Così in Audenesque canta la scomparsa dell’amico Iosif Brodskij imitando nel tono e nello stile le quartine dell’elegia scritta da Auden per la scomparsa di Yeats. E altrove Heaney si esibisce in una serie di appassionanti traduzioni da Virgilio, da Puskin, e in poesie dall’intento imitativo dedicate al polacco Zbigniew Herbert, a Ted Hughes, Fitgerald (traduttore di Omero e di Virgilio). Tra queste ultime spicca The Gaeltacht, parodia del dantesco “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, dove Heaney affronta il tema della fama letteraria e del desiderio di tornare all’innocenza delle Origini: Gaeltacht è una regione dell’Irlanda del Nord dove si parla ancora il gaelico, e dove il poeta dichiara di voler tornare con un paio di vecchi amici (“I wish, mon vieux, that you and Barlo and I”) che non ci sono più, come non ci sono più gli anni Sessanta, quando con loro chiacchierava nei vecchi pub della contea, e sarebbe bello, dice, “se le persone che siamo ora / potessero ascoltare quello che dicevamo allora”.
Il tentativo del poeta, e in qualche modo dell’idea di poesia di cui si fa alfiere, è quello di ricatturare la forza primigenia del Paesaggio, della Cultura e dell’Amicizia, e per farlo Heaney mobilita, e lo fa con il vigore controllato di un artigiano del suo calibro, tutte le energie dello sguardo infantile, intriso com’è di gioia mitica, fondatrice di visioni, abitudini, idee. Electric Light può infatti essere letto come un libro sulla ricerca della lingua perduta dell’infanzia di un uomo e di un popolo. Frequenti le poesie dove, con la quieta tenacia del ruminante, Heaney rimastica schegge delle antiche lingue gaelica e anglosassone per far riaffiorare nell’inglese d’oggi l’impeto della vocazione visionaria dei popoli d’Irlanda: le sue frasi si colorano di parole come wildtrack o gabble (farfugliare) che vengono dalle parlate contadine dell’interno ed evidenziano la verve onomatopeica della “lingua perduta”. Abbondano gli arcaismi, quelli di matrice anglosassone più dei gaelici, e non sorprende nell’autore della più felice traduzione inglese del Beowulf, premiata nel 1999 con il prestigioso Whitbread. Ed ecco che in una poesia come Sruth Heaney riflette sulla natura bilingue, storica e religiosa, della “razza” e della “verità” irlandesi.
Nella poesia che chiude la raccolta e dà il titolo al libro, Electric Light, Heaney ricorda di essere stato, bambino, nella casa di una vecchia parente un po’ Musa e un po’ Sibilla. La vecchia, che ha un’inquietante unghia del pollice spaccata, gli rivela la luce elettrica, la radio e, per estensione, il mondo “illuminato” dell’età matura: “Grasso di candela coagulato, venato dalla fuliggine dello stoppino… / L’unghia del pollice spaccata […] Nella prima casa dove vidi la luce elettrica / lei sedeva con le ciabatte di feltro foderate di pelo con la cerniera giù […] sulla stessa sedia, e bisbigliava / Con una voce che quando l’alzava altro non faceva / che bisbigliare. Eravamo tutti e due disperati // La notte che mi lasciarono lì, quando piansi e piansi / sotto le lenzuola, sotto lo spreco di luce / Lasciata accesa nella stanza.” E l’unghia spaccata che allora lo terrorizzava oggi il poeta l’immagina conficcata nel suolo del Derry, incapace di decomporsi, trasformata dal ricordo in una sorta di totem indistruttibile.
Meditando sulla morte degli amici e del padre, Heaney specula sulla propria. La terra, i ricordi, la morte, un nodo più saldo di quello gordiano, fuso con il mistero altrettanto insondabile della nascita. In una delle poesie più felici della raccolta, Out of the Bag (Usciti dalla borsa), l’autore rivede, con gli occhi incantati, un po’ impauriti ma allegri dell’infanzia, i bambini costruiti con pezzi di neonati uscire dalla stanza del parto vomitati dalla borsa nera del dottor Kerlin, e suggerisce così, senza che l’ironia stinga nel sarcasmo, come la creazione letteraria sia figlia dello sporco sudore più che di una mistica predisposizione dell’animo. Qui la retina del poeta viene impressionata dalla luce che filtra attraverso la pupilla del bambino, finché gli occhi del dottor Kerlin non diventano “Due spioncini nella porta chiusa della stanza in cui vedevo / ogni volta che si faceva il suo nome.” Un immaginario alla Frankenstein, in un certo qual modo, abitato però dalla beffarda libertà e dallo stupore trepidante che sempre si annidano nell’infanzia di un uomo sensibile.
E sono proprio l’umorismo, la tenerezza, la precisione della lingua semplice e colta di Heaney ad affascinare il lettore, coinvolto nel desiderio (proprio, forse, di tutta la poesia) di rendere significativo, nel senso letterale del termine, il pulviscolo di eventi, cose, destini di cui è fatta la grana dei giorni. Un poeta lucido ma non glaciale, dai toni talvolta bruschi, ma mai urlati, ammirevole per la rigorosa reticenza con cui corteggia la propria passione, complesso nella ricerca della semplicità. “Da quando”, si chiede Heaney, “Sono il primo e l’ultimo verso di una poesia / L’inizio e la fine di quella poesia?”