Non sono un critico cinematografico, parlo a pelle (e parlerò di pelle): e chiedo quindi perdono per avere intercettato soltanto in parte l’incredibile patrimonio cinefilo e citazionista che Daniele Ciprì e Franco Maresco mettono a disposizione nell’impressionante organismo rabelaisiano de Il ritorno di Cagliostro, ultima fatica dell’infaticabile e non tanto cinico duo. Però io credo non sia fondamentale, in quest’epoca di devastazione civile, occuparsi solamente del linguaggio, o della struttura, o del background. Sono convinto che il discorso diretto sulla poetica, sulla suggestione di un sogno possibile, sia ben più incisivo. Nel caso de Il ritorno di Cagliostro, quanto a incisività, siamo a livelli che il cinema occidentale si sogna e che soltanto per un complesso di colpa si esplora nella cinematografia slava, medio ed estremo orientale. Ciprì & Maresco hanno allestito un’interzona che precipita l’artificialità al grado zero della sua espressione: si tratta di un indimenticabile sfregio perpetrato nei confronti non soltanto dell’effettistica speciale, bensì di ogni automatismo creativo, di ogni soluzione che si sia fossilizzata modularmente al di fuori del libero spirito umano. Il libero spirito umano è un bambino che gioca: il film di C&M è un gioco – universale, incantevole, liberissimo e perciostesso liberatorio. Salva, salva lo sguardo, salva dal pensiero – salva dal macchinico che si candida a recluderci in un simulacro di libertà.
Utilizzo una parola che mi infastidisce – “simulacro” – a bella posta. E’ una voga, quella dei simulacri. L’epos dei simulacri, ai nostri giorni, è Matrix, con tutto il suo irritante corollario di osservazioni intellettualistiche completamente fuori bersaglio, con le piccole polemiche tra piccoli filosofi – Baudrillard – e piccoli registi – i fratelli Wachowski -. Il simulacro sarebbe, a detta dei maestri di quel simulacro del pensiero che è il pensiero dei simulacri, una sorta di inveramento contemporaneo della teoria iperuranica di Platone. Se n’andassero, più che affanculo, a studiarsi Platone: questa interpretazione vergognosamente massimalista della teoria delle Idee nulla ha a che fare con la metafisica platonica. Anzitutto per un banale motivo di critica tautologica: non ha senso rappresentare con simulacri il simulacro. L’arte non è questa cosa qui, questa melma di provincialismo d’accatto, riruminato col solito buccinante biascichio americano o arricchito dei rotacismi di uno stronzo francese. La supposta condanna dell’arte da parte di Platone (anche se non è qui il caso di fare un discorso rigorosamente filologico) è soprattutto una condanna all’arte come mimesi, come rappresentazione del mondo che si pone in quanto interpretazione vera del mondo stesso, in un processo di identificazione proiettiva che obnubila il libero gioco della coscienza. Quando Deleuze parla di “macchine desideranti”, intende all’incirca colpire il medesimo obbiettivo. Il macchinico non è extraumano e la lezioncina di due cotti da Playstation originari della Polonia non potrà convincerci del contrario: anzi, la loro lezioncina è proprio il macchinico.
Non è quindi per un’inesplicata attrazione che esercita su di me l’arte povera che io denuncio la povertà dell’arte: è per un indignazione calcolata e partecipe al tempo stesso, a salvaguardia dell’ultima categoria che si oppone alla desertificazione del reale, che è poi la desertificazione della coscienza. In quest’opera di esaltazione della creazione libera da ogni vincolo, in questo capolavoro barocco della fantasia al suo stato infantile, in questo flusso complesso e aggrovigliato di desiderio in libera uscita, Il ritorno di Cagliostro si costituisce come una delle tappe fondamentali di una tradizione cinematografica di stampo umanista.
Infantile è l’unica aggettivazione possibile per il cagliostro di Ciprì & Maresco: qui siamo nel preverbale, prima della costituzione dei linguaggi istituzionalizzati, prima della fossilizzazione del cognitivo e dell’emotivo, prima della messa in trono dell’esercizio del potere sganciato dalla forza liberatrice del potere. Eravamo già abituati ai borborigmi, ai peti, al tartaglio, al balbettio che C&M utilizzano quale categoria espressiva fondamentale: ma mai si era arrivati a un uso tanto raffinato e disinibito, e infine liberatorio, di questo magma che ribolle e schizza da sotto il linguaggio. Ne Il ritorno di Cagliostro, il risultato di un preverbale autonomo perché autogeno viene raggiunto attraverso un miracolo di intensità. Non c’è soluzione di continuità, non c’è calo: solo un po’, dopo l’avvento del nano narratore, a tre quarti – ma è appunto un calo dovuto all’inevitabile autointroduzione del linguaggio protocollare, con la sua sintassina e la sua ritmichina ben codificate. Lo stratagemma per giungere a una simile inesausta intensità è il solito: il tormentone. Solo che qui viene elevato a norma di costituzione di un universo narrativo – una narrazione fuori dalla narrazione, bucherellata, flaccida come le carni di certi figuri che si paralizzano sullo schermo. Non è più il tormentone: è il fort-da con cui Freud emblematizza il gioco continuo tra sì e no del bambino, che potrebbe continuare all’infinito e che, in effetti, continua da sempre lungo tutta l’opera di Ciprì & Maresco.
Il riso è preverbale e, in quanto apice del preverbale, è liberatorio. In quanto liberatorio è anarchico. La dilatazione del comico, l’irragionevolezza del comico: ecco la strumentazione spartana con cui i due registi siculi ascendono a un’opera di svuotamento zen del bacino ideologico, per raggiungere, loro sì, ciò che sta dietro il simulacro: la vuota coscienza. Incausata, la comicità che sprigiona il loro film è deliberatamente dilatata, per fare perdere la sensazione che esista una risata azionata a comando. Non esiste un colpo di scena uno, ne Il ritorno di Cagliostro: segno incontestabile che Ciprì & Maresco hanno capito davvero che cos’è la suspence. Questa dilatazione (che è pure dilatazione dei corpi, quindi dell’attonica e della prossemica, vale a dire di tutto il bagaglio riduzionista con cui il macchinico sta dando l’assalto alla psicologia umanista) è una forma di ascesi in progress. E’ l’uscita dal regime della fatica, dall’ideologia del lavoro necessitante – come se ridere, o sospendersi, dovesse essere una fatica o un lavoro: la critica a questa ideologia alienante fa del film di C&M un’operazione fortemente politica. Una delle più penetranti e sconvolgenti che l’estetica contemporanea in Italia abbia portato su grande schermo.
Non mi addentro nel labirinto di considerazioni che sarebbe d’obbligo fare a proposito dell’uso dei corpi, che ne Il ritorno di Cagliostro raggiungono l’annullamento per eccesso di esposizione e presenza, quasi ci trovassimo di fronte allo spettacolo di una supernova che implode per troppa massa e diventa il vuoto. Certo è che l’indistinguibilità tra corpo, preverbale e riso, il triangolo delle Bermude in cui Ciprì & Maresco affogano lo “spettatore”, dovrebbe fare riflettere, più che i critici, che sono inutili, gli artisti tutti, qualunque sia la forma d’arte che praticano.
Un conto è dire (ed, essendo in due, dirsi) che il bimbo rivela che il re è nudo. Un altro conto è essere non uno, ma due bimbi, in particolare siciliani, che additano il corpo lisciato gracile e spoglio del monarca. E’ esattamente ciò che hanno fatto Ciprì & Maresco. Prima che levino dalle sale Il ritorno di Cagliostro, il che avverrà con largo anticipo sulla messa in scena del terzo Matrix, andate a vedervi questo bastione dell’umanesimo contemporaneo. Ne uscirete senza avere pensato – nel senso che sarete stati non sotto, ma sopra il pensiero.
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