(da un’intervista del 1997 rilasciata a Mediamente)
In questi ultimi tempi si sta rivalutando l’opera di Thomas Pynchon. Quali sono i motivi?
Non so se sia il caso di usare il termine ‘rivalutazione’; ho l’impressione che Pynchon si sia assicurato un posto assolutamente stabile nel canone della grande letteratura contemporanea. Non si tratta di una riscoperta, una rivalutazione ma di un ulteriore momento nella conoscenza di uno scrittore del quale non si può fare a meno. Le ragioni, a me sembra che siano riposte soprattutto nella capacità che Pynchon ha avuto di mettere in crisi i canoni attraverso i quali percepiamo o siamo abituati a percepire ed a rappresentare l’esperienza quotidiana. C’è un punto in The Crying of Lot 49 (L’incanto del lotto quarantanove), dove lo scrittore parla delle sensazioni che sono appena al margine della coscienza, appena ai limiti della percezione; in qualche misura, in questa sfera della percezione sfuma quello che sappiamo e quello che non sappiamo, quello che vediamo, quello che sentiamo e quello che non vediamo; a me sembra che questo alone di incertezza sia, paradossalmente, uno dei punti fermi della poetica post-moderna: la costruzione dell’incertezza.
In questo senso Lei, forse, sostiene che Pynchon è nuovo al grande pubblico, per il mistero che lo circonda; egli è noto perché è ignoto, è una presenza costituita da un’assenza; e questo mi sembra proprio un paradosso che trasferisce nella vicenda biografica di Pynchon, che a me non interessa particolarmente, il filo costante della sua opera creativa.
Qual è la collocazione di Thomas Pynchon tra le tante voci fuori dal coro della letteratura contemporanea americana? Pensiamo alla letteratura di origine cyber-punk come William Gibson o autori come Toni Morrison, che si fanno portavoci di una condizione di emarginazione particolare…
Se esiste un coro nella letteratura americana, Pynchon è il primo tenore; a questo punto non mi pare più fuori del canone, fuori del coro, ma quello che ha fondato un canone differente, uno dei protagonisti, insomma, una delle voci differenti ma che non possiamo più chiamare marginali. Rispetto a Gibson a me pare che ci siano dei contatti, dei rapporti abbastanza intensi, soprattutto questa incertezza sulla definizione di realtà e l’attenzione agli aspetti dell’oscurità del notturno, delle strade, del margine, dei rifiuti, degli emarginati, degli esclusi; questi elementi sono fortemente presenti anche in Pynchon. Inoltre, c’è un rapporto molto forte con la cultura di massa, con la televisione, per esempio, assunta in un’ottica di riuso. Rispetto ad autrici come Toni Morrison, la mia sensazione è che questa autrice non sia portatrice, voce di una condizione particolare di emarginazione; se c’è una scrittrice che, con un termine che non mi piace, possiamo chiamare ‘universale’ in questo momento negli Stati Uniti è proprio Toni Morrison; secondo una tradizione che da molto tempo seguono gli artisti afro-americani, partendo da una esperienza storica specifica, Toni Morrison costruisce un discorso che parla un poco per tutti. In Beloved, ma anche nell’ultimo Paradise, troviamo un paradigma dell’incertezza; in Beloved c’è questo confine tra vita e morte che viene varcato, in Paradise c’è un altro confine essenziale per la vita americana: il confine razziale tra bianchi e neri che viene messo in discussione. Mi sembra, quindi, che anche se Morrison è meno riconducibile al canone della post-modernità, tuttavia, questo canone dell’incertezza dei confini del reale è centrale in entrambi questi autori che Lei ha citato nella sua domanda. Incertezza dei confini che non significa, naturalmente, che la realtà non esiste, ma mette in evidenza una difficoltà che stimola l’obbligo morale alla ricerca, per poterla definire.
Quali settori della realtà sociale americana rispecchiano le storie di Pynchon?
Non userei il termine ‘rispecchiano’. Direi che Pynchon prende i suoi personaggi da fasce di soggetti che cercano di non rispecchiare, ma di tirarsi fuori, di stare ai margini. Certamente sono figure, se gli vogliamo fare un identikit sociologico, prevalentemente di classe media bianca; però una classe media bianca che è molto incerta sui contorni della propria identità e di tutte le identità.
Può fare riferimento ai confini sociali e geografici che i processi di globalizzazione favoriti dalla rete e dai nuovi mezzi di comunicazione aboliscono?
La biografia dei romanzi di Pynchon, non tanto quello che io amo di più, il The Crying of Lot 49, ma Gravity’s rainbow, o V., le storie che vi racconta avvengono in California ma cominciano in Belgio, cominciano in Italia; c’è una connessione frequente fra il locale ed il globale. Noi percepiamo le potenzialità che ci offre la rete anche grazie al fatto che Pynchon, prima che la rete esistesse, ci ha preparato uno sguardo capace di pensarle come possibilità. Contemporaneamente, una delle figure centrali di Pynchon, che è quella dell’entropia, è proprio retta dalla preoccupazione che una espansione illimitata ed indifferenziata di una globalizzazione senza controlli finisca per essere, poi, una stasi totale: se tutto è comunicabile con tutto c’è una preoccupazione in Pynchon che, in realtà, non passi nessuna comunicazione.
La possibilità di perdere o acquistare sempre nuove identità a seconda del contesto in cui ci si trova, tipica del navigatore della rete, non rispetta, a Suo avviso, anche una caratteristica dei protagonisti dei romanzi di Pynchon?
Sì e no. Mi spiego; questa possibilità di acquisire sempre nuove identità è l’altra faccia del rischio che qualunque identità acquisita non significhi nulla e non sia un’identità perché è instabile, perché ti può essere sottratta non solo per tua scelta, ma anche perché qualcuno violentemente te la toglie. Il gioco dei travestimenti dei nomi, degli spostamenti, dei cambiamenti, è un gioco contemporaneamente di possibilità e di rischio che all’interno ha anche l’euforia. Possiamo essere qualunque cosa e la preoccupazione è: potremmo non essere niente. Questo elemento c’è in Pynchon, si trova in Gibson, è presente nel cyber-punk, perché rende molto più seria la loro scrittura e la proposta che fanno. La proposta che fanno è: “anything goes”. Possiamo essere qualunque cosa, e la proposta è: se possiamo essere qualunque cosa non è detto che possiamo rimanere quello che desideriamo rimanere, che potremmo anche desiderare di essere qualcosa. Ma questa possibilità rischia di essere continuamente sottratta, nel senso che potremmo essere costretti ad essere qualunque cosa. Questa dimensione dà spessore al gioco di Pynchon, al cyber-punk e, forse, anche alla rete.
Pynchon è uno degli scrittori più celebrati dalla cultura di Internet. Esistono numerosi siti dedicati alla sua opera. Come si spiega questo interesse dei navigatori?
In Pynchon c’è la suggestione critica della possibilità. Io ho fatto l’esempio, in una relazione, di un brano di Pynchon che funziona esattamente come un ipertesto; questo testo è stato scritto prima che gli ipertesti ci fossero, negli anni sessanta: la possibilità proprio di navigare attraverso diverse storie possibili, che si sposa ad un’idea molto forte della smaterializzazione, della comunicazione come processo non materiale, della costruzione dell’identità attraverso la comunicazione che è un processo non materiale, quindi della non materialità delle identità. Contemporaneamente, c’è una resistenza in Pynchon che non sempre vedo nei navigatori acritici della rete; una resistenza alla indifferenzazione; c’è l’idea che da qualche parte, forse, un mondo materiale continua a sussistere. Ed è questo il dialogo che si svolge intorno a Pynchon. Però non c’è dubbio che, anche proprio per la vicinanza generazionale e di formazione culturale, la passione per la cultura di massa, per la cultura di consumo, per i consumi culturali, è presente il gioco dell’abolire la differenza fra la cultura alta, la cultura bassa che accomuna un poco tutta la cultura della così detta post-modernità. E, chiaramente, Pynchon è una figura, per la sua assenza, che non può non appassionare i soggetti dell’immaterialità.
Come ha affrontato, Pynchon, il tema della comunicazione?
Io ho l’impressione che Pynchon si muova in questo spazio, in queste due possibilità. C’è un punto, in Gravity’s rainbow, dove la protagonista vede i fili del telefono e pensa a tutte le voci che stanno nell’aria; in questo passo emerge l’idea che siamo tutti avvolti nella comunicazione, perché queste comunicazioni passano attraverso vibrazioni dell’aria, in questo momento l’aria che ci sta intorno sta vibrando di voci, di persone che parlano; non riusciamo a parlare ma le voci vibrano, ci entrano dentro, le onde passano attraverso il corpo; siamo tutti immersi in questo flusso di comunicazione e questo flusso di comunicazioni espresso attraverso i fili del telefono, in qualche misura, ci attraversa, ci rende trasparenti, ci toglie il corpo. E ci dà una quantità sterminata di voci possibili. Sostanzialmente, in Gravity’s rainbow, questo tema dell’incertezza, dello sfumarsi, dei contorni della conoscenza è reso ancora più complesso dal fatto che Pynchon non ci permette nemmeno di dire: “benissimo, il mondo è conoscibile”. Dopo averci immerso in questo flusso di comunicazione intercambiabile, molteplice, in cui tutto può essere qualunque cosa, alla fine, ci dice: “e se non fosse così? Se in realtà, invece, il mondo fosse conoscibile?” Da una parte, dopo averci sottratto la certezza, ci sottrae pure il dubbio, pure la certezza del dubbio: non ci possiamo adagiare nella tranquillità del dire che tutto è relativo, forse non è vero.