Sembrerebbe indelicato che uno scrittore di thriller si metta a parlare di un collega. Sembrerebbe, ma il caso in questione presenta alcune specificità piuttosto ambigue. Primo: chi scrive non è un autore di thriller. Usa forse alcune gabbie e alcuni codici del thriller, ma il suo intento è un altro. Secondo, l’autore di cui egli va indelicatamente a parlare, non è uno scrittore. Altra specificità: lo scrivente è apparso nelle classifiche di vendita solo sporadicamente, un paio di volte; quello di cui si scrive, invece, è il re del mercato della narrativa 2003. Il primo non ha avuto accesso ai templi del lancio di publishing (la copertina di Sette, l’invito a Otto e 1/2, la convocazione a Mantova); esperienze che il non scrittore di cui si tratta ha attraversato con generosità. Per togliere ogni ombra di invidia da questo intervento: non stiamo parlando di Giorgio Faletti e del suo parathrillerone Io uccido. Stiamo parlando del mercato e della letteratura. E’ una questione seria e annosa, su cui sono stati impegnati cervelli prestigiosi. Aggiungo la mia voce in qualità di contribuente di infimo grado. La mia posizione: ormai la letteratura di genere rischia di essere la quinta colonna che il capitalismo e l’antiumano si sono conquistati nel comparto umanistico – e, più precisamente, in quello letterario.
La riflessione che qui segue prende spunto dall’attenzione che un telegiornale nazionale ha dedicato, in occasione di un servizio sul Festival letterario di Mantova, proprio a Giorgio Faletti, in qualità di rappresentante degli scrittori italiani tutti anzitutto, e poi addirittura degli scrittori tutti, anche quelli stranieri. Ma come? Cazzo, a Mantova c’erano Kertesz, Esterhazi, Franzen, Eugenides, Byatt – e questi concedono un tempo inimmaginabile di espressione a Giorgio Faletti? Beh, è successo: ora possiamo soltanto riflettere sul perché e sul percome.
Anzitutto: siamo davvero convinti che quelli a Mantova, eventualmente da intervistare al posto di Faletti siano anch’essi dei veri scrittori? Cito emblematicamente il caso di Jonathan Franzen. Esce con un saggio che Einaudi posiziona con un packaging che tende una trappola: sembra un romanzo e non lo è. Il saggio lo demoliremo riga per riga in un prossimo intervento. Per il momento: Franzen è esattamente il contrario dell’umanista, una perfetta quinta colonna dell’artificiale che pare umano e non lo è. E’ un mistificatore del cinismo e delle buone intenzioni, uno il cui apparato cognitivo – con il perfetto stile che perfettamente governa, con la perfetta comprensione intellettuale su quanto va affrontato ora per risultare perfetto – annulla ogni possibilità di empatia autentica con un lettore che non si faccia irretire dall’eccezionale costruzione di un contenitore proiettivo adatto all’attualità. Questa finzione estrema (finzione di chi sembra scrivere la fiction umana e invece scrive la fiction finta) è stata denunciata in passato dalla critica quale avamposto di una spettacolarizzazione tesa all’eliminazione dell’uomo, alla sostituzione ultimativa dell’umanità con una massa, apparentemente distinta, di SHROUD, il manichino parlante del V di Pynchon (un testo del ’61 che descrive l’oggi come nessuno scrittore di oggi sarebbe in grado di fare). Valga lo stesso per Eugenides. Comprendo che l’essere sintetico penalizza la legittimità di quanto asserisco – nel caso si voglia approfondire le ragioni di questa posizione rimando ad America Falling 1.0 e 2.0.
Non hanno quindi tutti i torti, i subdoli “colleghi”, a pressare il povero Faletti con microfoni e domande inutilmente insistenti. Sfatato il dubbio di uno snobismo a priori nei confronti dell’uomo di spettacolo che ha scritto un thrillerone di successo, entriamo nello specifico: cioè il rapporto tra thriller, spettacolo, mercato e letteratura (per quanto si possa fare qui, in maniera poco profonda e rigorosa…).
Da tempo il thriller è un agente patogeno che trasforma la letteratura in portatrice sana. Di cosa? Di una malattia che, per l’appunto, ha una mira devastante: la falsificazione dell’uomo. Il thriller, con gli apparati di cui dispone, si mette al servizio di un potere pervasivo, ineffabilmente assediante le bocche degli uomini: un potere che non sembra tale, anche se in effetti, qualcosa, sembra. Sembra questo, precisamente: sembra una deriva storica. “Eh, se uno vende trecentomila copie, qualcosa ha intercettato, i lettori decretano che è bello”; “Eh, le cose ormai vanno così, decide il mercato”: è la banalità di base con cui si ha a che fare da decenni. Ecco, no. No, le cose non stanno così. Il thriller è il più opportuno dei contenitori proiettivi, poiché fa leva sulla suspence, uno strumento retorico che innalza la retorica alle sue antiche vocazioni politiche. La suspence sospende. Se si attende non si pensa. E’ una porta stretta, che introduce a un bivio non visibile (quel bivio che chiunque abbia lavorato sulla suspence in termini ultrapsichici, come Kafka alla fine del Processo, non attraversa – una porta che deve restare serrata, poiché essa si spalanca sempre, qui e ora). Il bivio: o si va all’intercettazione della verità della forma psichica umana, o si percorre la strada dell’alienazione umana. Il thriller, se non viene governato con una sapienza che non ha nulla a che vedere col sapere, è un potente mezzo di alienazione. Un conto è il non pensare che trascende la mente; un altro conto è il non pensare che cala nell’idiozia. L’idiozia collettiva a cui l’apparato antiumano intende condurre la comunità umana è esattamente una suspence infinita, piacevole: rassicurante. Sembrerebbe paradossale: l’inquietudine che rassicura. E, infatti, si tratta di un paradosso: si attraversa quella porta per ottenere l’esito di una sospensione della ragione che appaia razionale o, cosa perfino più grave, di un’emozione che sembra emotiva davvero e invece non lo è.
E’ il rischio dei codici e gli scrittori lo sanno. Scrittori contemporanei che hanno in vista l’epica (penso ai Wu Ming, a Evangelisti e Moresco) sanno perfettamente che l’epica vive di codici – ma sanno anche che quei codici non devono essere impositivi, ideologicamente autoritari, intenti a una normalizzazione delle intelligenze emotive. Tutt’altro: quei codici devono aprire, devono introdurre all’avventura della specie, a una messa in gioco totale del divenire che si opponga alla cristallizzazione del divenire stesso. Se il divenire subisse una codifica, si incancrenirebbe, fossile che ha la forma di una vita – ma una vita funeraria, apparente, non più sorgiva. La retorica e i generi vanno usati come codici di anticodificazione. L’occasione identitaria che forniscono è il contrario dell’identità stabile, acclarata, tranquilla, rassicurante. Se l’identità si carcinomatizza in una forma definitiva, il potere – che è l’antiumano – ottiene la sua vittoria: il congelamento del tempo, l’abolizione dell’uomo, questa equazione personale i cui termini non sono mai in pareggio. La variabile umana è tale soltanto se impazzita. La prevedibilità è antiumana: è minerale.
Sia negli elementi (e Montecarlo, e il tipo della Cia, e il corridore di formula 1, e il serial killer), sia nello stile, sia nella creazione di aspettative, Io uccido di Giorgio Faletti è alienante: è l’emblema perfetto dell’alienazione. Sia chiaro: ciò deve costituire un cruccio costante per chi lavora con un genere che fa della suspence il proprio perno funzionale. Sappiamo tutti cosa accadrà. Sappiamo perfino come accadrà. Un’ondata di benessere di seconda mano, pur sempre preferibile agli aspri venti che ci raffica il mondo ogni giorno in faccia, coglie i lettori che da un libro cercano la consolazione del piacere. E’ il contrario del fantastico. E’ la ragione fetida di un realismo che si autoprove come tale e che, invece, realismo non è: concerne una realtà che l’antiumano vuole imporre quale realtà definitiva, improrogabile, indiscutibile – e che invece va sovvertita, sempre.
L’utilizzo della paranoia e l’evocazione della morte restano due ipocrisie che il genere thrilleristico, grazie a lavori come quello di Faletti o, se si vuole volare più alto, dell’ultimo Connelly, irrora con impareggiabile virulenza da almeno tre decenni nei teneri crapolini occidentali. Il sospetto perenne che le cose non stiano così, con tanto di pacca sulla spalla alla fine per conferma che tu lettore sei stato bravo e avevi intuito la soluzione giusta, è uno dei mezzi più sottili che si possano utilizzare per prevenire tentazioni rivoluzionarie. E’ la tecnica del Perugia di Falcetti: il casino organizzato. Sembra casino, ma si tratta di un’organizzazione scientificamente studiata, efficiente, utilitaristica e – si noti la perversione – lontanissima dai canoni della bellezza. Quanto all’evocazione della morte: fa specie il successo che i cadaveri letterari, ormai per nulla squisiti, ottengono grazie al giallo, al noir e al thriller – proprio in un’era in cui si fa fatica a vedere il cadavere persino del proprio genitore.
Sono contraddizioni che superano, come è chiaro, la portata ontologica di una stronzata immensa qual è Io uccido. Poiché però conosciamo da anni gli importi nefasti della banalità del male o degli utili idioti, bisognerà ribadire, anche fuori tempo massimo, che l’unica deriva umana, in letteratura, è l’approdo a un macrogenere, fantastico ed epico, che sussuma in sé le retoriche e gli stili della psiche umana nella sua interezza cognitiva ed emotiva. Soltanto così torneremo, davanti a un’intervista di Faletti, a fare ciò che è giusto fare e che sta nella vocazione del personaggio: ridere.
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