di Collettivo Progetto Memoria
Nel 1998 moriva Edelweis Cotti, un esponente italiano dell’antipsichiatria un po’ troppo dimenticato, sebbene le sue prime esperienze nel campo fossero addirittura anteriori a quelle di Franco Basaglia. Il fatto è che Cotti, totalmente impegnato nell’attività terapeutica, ha lasciato poco di scritto. A questa lacuna ha parzialmente rimediato il volume AA.VV., Specialista in relazioni umane. L’esperienza professionale di Edelweis Cotti, a cura di Libero Besteghi, ed. Pendragon, Bologna, 2001.
Dal canto nostro vogliamo rendere omaggio a un uomo nobile e coraggioso riproponendo una lunga intervista che Cotti rilasciò quattro anni prima della morte. Divenuta molto attuale nel momento in cui il governo italiano (ormai prossimo al neofascismo esplicito) si propone una riforma della Legge Basaglia che fa temere il peggio.
Quale è stato il primo ospedale psichiatrico in cui ha
lavorato?
L’ospedale Roncati di Bologna, subito dopo la laurea. Nello
stesso tempo frequentavo l’Istituto di fisiologia. Poi mi sono
specializzato, ma per sette anni non ho saputo trovare un modo per
aiutare i pazienti del Roncati. Ero indeciso se rimanere lì oppure
fare il fisiologo. Intanto presi la docenza, ma avrei preferito
l’attività clinica, se vi avessi visto qualcosa di utile. Erano le
premesse a essere sbagliate. Per la psichiatria classica le
malattie mentali sono di origine organica. Questa era la tesi
sostenuta dai manuali in circolazione.
Quali manuali?
Kretchmer e altri autori che si studiavano da decenni. Presi
la specialità in clinica delle malattie nervose e mentali con il
prof. Gozzano. Né lui né altri docenti, peraltro affermati,
seppero indicarmi il modo per venire incontro ai pazienti. Ero
particolarmente scontento, quando incontrai due terapeuti
francesi. Fin dal primo stage che feci con loro riuscii a capire
che si poteva comunicare con il paziente in un modo tutto diverso
da quello tradizionale, senza il camice, senza le chiavi, cercando
un rapporto colloquiale. Da quel momento cambiai completamente
sistema. Al Roncati riuscii a costituire un nucleo di infermieri,
che avevano partecipato anch’essi agli stages, d’accordo con me e
che come me erano addetti al reparto denominato “Ritardati mentali
cronici e malpropri”, nome che è tutto un programma. I pazienti di
quel reparto, il reparto IX, erano considerati i più agitati e
pericolosi. Ce n’erano due soli, legati al letto in due stanze che
immettevano l’una nell’altra. Riuscii a fare togliere i legacci e
aprire loro le porte per un mese, senza che succedesse alcun
incidente. L’esperimento durò un mese solo, perché poi il
direttore ordinò che le porte fossero richiuse, temendo per
l’incolumità dei parenti nelle ore di visita. Per me fu una grossa
sconfitta, però fu una sconfitta produttiva. Un assessore
provinciale mi sostenne e riuscì a comperare Villa Olimpia, dove
fu possibile aprire un reparto che avrebbe dovuto essere simile a
quello neurologico del Roncati.
Fu in realtà una battaglia durissima, che combattei col
sostegno del mio gruppo di infermieri.
Il reparto prese vita, ma il responsabile del settore
femminile, il dottor Mengoli, aveva idee completamente diverse
dalle mie. Non voleva saperne di tenere le porte aperte, tanto che
finì col diventare un mio acerrimo avversario (era facile
diventare avversari del dottor Cotti). Riuscii a spuntarla, e per
quattro anni operai in quella clinica dove i pazienti non erano
più dei reclusi. Poi arrivò un nuovo direttore, un ex partigiano
dalle idee però molto conservatrici, timoroso della concorrenza.
Riuscì a farmi rimuovere col pretesto che ero più adatto
all’attività ambulatoriale. Non accettai quel che mi proponeva e
chiesi un anno di aspettativa.
Basaglia mi aiutò a trovare un reparto a Cividale del Friuli,
dove andammo io, il dottor Antonucci e il dottor Tesi, proveniente
dall’ospedale di Gorizia. Antonucci, oggi molto noto, lo conoscevo
perché mi aveva portato un paziente americano, in cura da Roberto
Assagioli, il fondatore della psicosintesi terapeutica.
Noi tre rimanemmo a Cividale per otto mesi. Avevamo pochissimo
personale (tra cui l’infermiera che poi è divenuta mia moglie),
tuttavia riuscimmo a portare avanti il nostro lavoro, secondo le
linee già sperimentate. Solo che l’amministrazione, tipica del
Friuli bianco di quegli anni, mi propose di fare due sezioni, una
per i paganti e l’altra no. Io non accettai, e da lì iniziò uno
scontro molto acuto, che portò in breve al mio allontanamento
forzato. La popolazione però era con me, perché fin dall’inizio
avevo cominciato a tenere delle riunioni aperte al pubblico, che
partecipava numeroso. La gente era anzi entusiasta di questo nuovo
modo di fare psichiatria, ma l’amministrazione non ne voleva
sapere.
Ci mandò una colonna di automezzi militari, carabinieri e
polizia, tanto che sembrava che fosse scoppiata la guerra con la
Jugoslavia. Fummo costretti a sgomberare. Era la fine dell’estate
del 1967.
Come mai a Cividale entrò in azione anche l’esercito?
Oh, c’era tutta una storia dietro. Il sottosegretario alla
difesa, amico del sindaco del paese, intendeva far ricoverare la
moglie. Fu allora che il sindaco mi chiese di suddividere i
degenti in due classi, prima e seconda, in modo che questa signora
avesse una situazione confortevole e adeguata al suo rango.
Naturalmente rifiutai di fare distinzioni tra i ricoverati. Il
sindaco se la legò al dito. Così riuscì a far venire addirittura
una colonna motorizzata per interrompere il nostro esperimento.
Quali erano i suoi rapporti con Basaglia?
Non sono mai stati del tutto cordiali. Certo, mi aiutò ad
andare a Cividale, e in seguito continuò a darmi una mano. Però,
quando si accorse che l’esperimento era un successo, cominciò a
mandarmi i suoi pazienti più difficili. Facevamo le stesse cose,
eravamo in buoni rapporti, ma tra noi esisteva una certa
freddezza.
Cosa fece dopo Cividale?
Tornai a Bologna. L’amministrazione mi offrì il posto di
direttore di Villa dei Fiori, a Imola. Ci fu però una sollevazione
dei medici, che avevano sentito parlare di me come di un
“rivoluzionario” e non mi volevano assolutamente. Allora fui
destinato agli ambulatori periferici, Bazzano, Porretta, Loiano,
ecc. Ogni mattina partivo in macchina e attraversavo tre o quattro
vallate, per raggiungere i miei ambulatori. Infine riuscii a
tornare a Bologna e a fermarmi all’ambulatorio Marco Polo, fuori
Porta Lame. Ci rimasi un paio d’anni, finché l’amministrazione
imolese, retta da un’Opera pia, mi chiamò e mi chiese se volevo
andare a fare il direttore. “Sì” risposi “ma conoscete le mie
idee. Io vengo per dimettere i pazienti e per chiudere
l’ospedale.” “Le applichi pure” mi risposero.
A Imola trovai 1500 ricoverati. Bene, prima della
promulgazione della legge 180 (la “legge Basaglia”) riuscii a
dimetterne più di 700, tra il 1973 e il 1978, contro il parere dei
medici, che non ne volevano sapere. Potei approfittare del fatto
che il direttore, a quei tempi, era un signore assoluto, che
poteva esercitare i suoi poteri nel bene o nel male (e molti lo
esercitavano nel male, per paura di grane e complicazioni). Quando
me ne andai definitivamente, nel 1986, rimanevano circa 500
pazienti.
Gli amministratori, naturalmente, cambiavano ogni quattro
anni. L’apertura iniziale alle mie idee cominciò ad attenuarsi
gradualmente. Mi cominciarono a mettere tanti bastoni tra le ruote
che decisi di andarmene qualche anno prima di avere raggiunto il
massimo di anzianità. Da quel momento mi dedicai all’attività
psicoterapeutica privata.
La dimissione dei pazienti ha mai causato problemi?
Problemi sì, ma mai problemi enormi. Il problema più frequente
era la resistenza dei parenti. “Ma dove lo mettiamo, cosa ne
facciamo?”. Ricordo il caso di un paziente che doveva essere
dimesso, e la sorella non ne voleva sapere. Sapete perché? Perché
aveva fatto credere ai vicini che fosse morto.
Io avevo organizzato un sistema di assistenza territoriale con
gli infermieri che mi erano più vicini. Del resto, i problemi di
cui parlo si potevano benissimo risolvere col dialogo. I problemi
veri li avevo all’interno dell’ospedale, con medici che non ne
volevano sapere di abbattere muri, togliere le recinzioni, aprire
le porte. Lo stesso dicasi per la maggioranza degli infermieri.
La condizione sociale influisce nel sorgere dei disturbi
mentali?
La povertà influisce senz’altro, ma quando è accompagnata dal
disamore, dall’emarginazione. Mi viene in mente una paziente che
andai a visitare mentre raccoglieva le mele. Il padre, perché
raccogliesse le mele, le aveva messo accanto un giovanotto, e
aveva raccomandato alla figlia di avere rapporti sessuali con lui.
Lei, che non ne voleva sapere, rifiutò, scappò di casa, e
manifestò le turbe che è facile immaginare. Quando nella povertà
c’è anche la mancanza d’affetto, può succedere che la situazione
conduca al disturbo mentale.
In un dibattito a cui partecipò l’anno scorso (1993), lei negò l’utilità dei medicinali in psichiatria,tanto che vi fu chi l’accusò di non sottoporre
i pazienti ad alcuntipo di terapia. Vuole spiegare come stanno le cose?
Quando non ci troviamo in presenza di una malattia fisica del
cervello, i medicinali usati in psichiatria sono solo dei
sedativi, a parte gli antidepressivi, che possono essere o
sedativi o eccitanti Dopo quattro o cinque applicazioni, l’effetto
di questi prodotti inizia ad attenuarsi. Cosa fanno allora gli
psichiatri? Aumentano le dosi, col risultato di far inebetire le
persone, di farle sbavare, di farle dormire tutto il giorno. Dopo
di che vengono definite “guarite”. In realtà, sono state solo
provvisoriamente calmate. Una volta ricacciate nella vita, le loro
condizioni non hanno fatto un solo passo avanti, anzi, sono
regredite, col risultato di farle ricadere nella situazione
precedente.
Non è vero che io non facessi alcun tipo di terapia. Applicavo
terapie di convinzione, ma terapie, specialmente di gruppo. Sono i
sedativi a non avere significato terapeutico.
Quale bilancio trae dall’applicazione della legge Basaglia?
La legge Basaglia, almeno a Bologna, è riuscita a far chiudere
i manicomi, anche se esiste ancora un centinaio di ricoverati. Ha
istituito il TSO per le persone bisognose di un ricovero
psichiatrico. Solo da un paio d’anni, però, sono nati alcuni
centri di ricovero giornaliero, che hanno un’effettiva utilità.
Però gli psichiatri continuano imperterriti a prescrivere terapie
chimiche. Il problema vero è la loro resistenza a svolgere un
lavoro diverso da quello che hanno sempre fatto. Oggi il manicomio
non esiste più, però c’è ancora la diagnosi di malattia mentale,
che è più o meno la stessa cosa.
La visita che dura cinque minuti a cosa può mai servire, in
presenza di un paziente che ha bisogno di parlare, di capire cos’è
stata la sua storia? Dandogli un sedativo non si fa altro che
spegnere la sua capacità di parlare. Gli si dà un ansiolitico e si
dice “ora non ha più l’ansia”. Non è vero, l’ansia continua a
vivere sotto la superficie.
Cancrini, l’anno scorso, ha scritto sull’ Unità che finalmente
è uscito negli Stati Uniti uno studio comparativo sulle persone
trattate farmacologicamente e psicoterapeuticamente. Hanno
paragonato i due gruppi e constatato che i risultati sono
identici. Certo, occorreranno altre verifiche; ma il dato dimostra
che l’approccio biologico alla psichiatria è campato in aria. Se
si ottengono le stesse modifiche con la psicoterapia, perché si
privilegia la chimica? Naturalmente, ci può essere qualche caso in
cui il paziente ha bisogno di un farmaco, ad esempio se non riesce
a dormire. Però l’applicazione deve essere limitata a un giorno o
due, non di più.
Se da un lato c’è la visita troppo breve a cui lei allude,
d’altro lato ci sono però le terapie psicoanalitiche che durano
anni e anni.
E’ vero. Sono dell’opinione che col trattamento psicoanalitico
si rischi addirittura di peggiorare. Certo, migliora la capacità
del paziente di stare nel mondo, ma, a quel che ho potuto notare,
si sviluppa in lui un certo egoismo. Viene messo in grado di
affrontare gli altri, però viene anche ridotta la sua socialità.
Per quanto riguarda la durata, personalmente riesco a portare a
termine una terapia in 10-20 sedute, vale a dire in tre o quattro
mesi. Credo che una psicoterapia breve sia sufficiente a portare
aiuto a una persona. Certo, dipende anche da chi è il terapeuta.
Vi è oggi chi reclama la riapertura dei manicomi.
Sì, è certa stampa, premuta dalle associazioni dei familiari
dei pazienti, molto potenti. Ma non è più come nei primi tempi
dell’applicazione della legge 180, quando singoli casi eccezionali
venivano amplificati per ottenere la revoca della riforma.
Statisticamente, si è poi constatato che i delitti commessi dai
malati di mente sono percentualmente molto inferiori a quelli
commessi da individui ritenuti sani.
Nel dibattito del 1993 che abbiamo richiamato prima, una
esponente di un’associazione di familiari disse che schizofrenico
equivale ad assassino. Lei che ne pensa?
Le persone che hanno quel tipo di problemi sono creature
introverse, di una timidezza spaventosa. E’ proprio su questo che
occorre lavorare. Certo, se qualcuno pesta loro i piedi, li lega o
li prende a sputi possono diventare furenti. A Cividale c’era una
ragazza in uno stato delirante. Me la portarono. Io l’abbracciai,
la tenni stretta a lungo e guarì completamente. Certo, non sempre
abbracciando e tenendo stretta una persona la si guarisce; ma in
quel caso guarì.
Ma la schizofrenia esiste?
La parola “schizofrenia” è nata all’interno degli ospedali
psichiatrici, e vuol dire tutto e il contrario di tutto. Se un
ricoverato delirava era schizofrenia, se non delirava era un
“momento silente” della schizofrenia. Qualunque cosa uno facesse,
quando era targato “schizofrenico” doveva rimanerlo. La cosiddetta
scissione schizofrenica va prevenuta in età infantile. La
prevenzione è l’unico modo valido per affrontare il problema
psichiatrico, al di là di etichette che significano poco. Se si
alleva un bambino in un’atmosfera di affetto, di sicuro non
diverrà mai “schizofrenico” o quant’altro. Se invece cresce nella
paura, non potrà affrontare i problemi della vita. Cercai anche di
dar vita, col prof. Canevaro, a un progetto volto alla
prevenzione, ma mi furono negati i finanziamenti. Per questo
lasciai la professione prima del tempo.
Lei ha anche detto che il delirio è un linguaggio
interpretabile.
Il delirio è provocato dalla paura. E’ difficile controllare
la paura, quando è molto forte. I capelli possono imbiancare in
una notte, per la paura. L’unico modo per avvicinare il paziente,
per comunicare con lui è rassicurarlo. Ma come? Con l’empatia,
cercando di essergli vicini, mettendosi alla sua altezza. Quando
abbracciai quella ragazza di Cividale, rischiavo di essere male
interpretato; ma era ciò di cui lei aveva bisogno in quel momento.
Empatia, comprensione. Non vorrei esagerare, ma non ricordo un
solo caso in cui questo metodo abbia fallito. Se si è il più
vicini possibile a una persona, è ben difficile che questa persona
creda che gli si stia facendo del male. In questo modo, la
cosiddetta schizofrenia viene minata alla base.
Lei è mai stato aggredito da un paziente?
Mai. Nemmeno quando lavoravo con gli “agitati, cronici e
malpropri”. Mi viene in mente un ragazzino, che voleva a tutti i
costi essere giudicato malato di mente. Io tutti i giorni gli
chiedevo: “Ma perché insisti? Non lo sei”. Un giorno, per
dimostrarmi che era malato, iniziò ad azzuffarsi per futili motivi
con un altro paziente. Voleva farmi dire che era matto, ma non ci
riuscì. Qualche tempo dopo mi confessò il suo tentativo. “Sono
diventato cretino per convincerla che sono matto, ma non ce l’ho
fatta, per fortuna”. Siamo poi diventati amici. Ecco, questo è
l’unico caso di aggressione che ricordo, se vogliamo chiamarla
così. Tutto sta a vivere a livello del paziente, a capirlo.
Lei segue una qualche scuola psicoterapeutica?
No. Potrei dirmi rogeriano, perché applico alcuni dei sistemi
teorizzati da Carl Rogers. Ma non parlerei di “scuola”. Per caso
mi è capitato di leggere Rogers, e ho visto che andava bene, nel
senso che si adattava a ciò che già facevo e al modo in cui la
pensavo. Questo è tutto.
Che cosa pensa dei centri di accoglienza per
tossicodipendenti?
All’origine della tossicodipendenza c’è ancora una volta la
paura, la mancanza di fiducia in se stessi. Quando i centri di
accoglienza sono organizzati in maniera autoritaria e usano
sistemi coercitivi, come quello di Muccioli, la logica è simile a
quella dei vecchi manicomi nei confronti della malattia mentale.
Solo amore, affetto, partecipazione umana possono alleviare le
sofferenze di una persona. Tutto il resto serve solo a togliere
dalla circolazione soggetti che danno fastidio, lasciandoli
prigionieri della paura. Loro e nostra.
Tratto da Progetto Memoria n. 15, 1994.