di Roberto Marchesini
[riproduciamo un brano da Post-human. Verso nuove forme di esistenza, edito da Bollati Boringhieri, uno dei saggi più significativi del dibattito su tecnosfera e mutazione antropica]
È sempre più evidente che le rivoluzioni informatica e biotecnologica del XX secolo hanno introdotto elementi di riflessione che necessariamente dovranno essere affrontati all’interno di una rinnovata cornice filosofica – la si voglia chiamare neoumanistica o postumanistica, ovviamente a seconda del livello di eccentricità assegnato all’uomo – perché di fatto i principi basilari su cui si fondava la vecchia distinzione tra umano e non-umano sono decaduti. Ma questo non significa che sia sufficiente mescolare un’irrazionale fede nella tecnologia alle più viete proposizioni antropocentriche – proiettando nella tecnosfera l’ultima delle grandi utopie illuministiche – per entrare in una nuova stagione di pensiero. Di fatto le vecchie distinzioni umanistiche – per esempio la separazione humeana tra fatti e valori – se da una parte si dimostrano inefficaci nel dare risposta ai dilemmi aperti dalle biotecnoscienze, dall’altra non si può certo dire che siano state superate da una proposta coerente e solida da un punto di vista fondativo.
L’incapacità di fare i conti con l’umanesimo – cioè con: i) l’idea autarchica e separativa dell’ontologia umana, ii) la pretesa di un modello paradigmatico di ontologia umana, iii) la nozione pervasiva o proiettiva dell’ontologia umana – e con l’antropocentrismo – ovvero con: i) l’utilizzo dell’uomo come misura dell’universo, ii) la visione dell’uomo come fine dell’universo, iii) l’idea che proiettività ed espressività umane costituiscano degli universali – ha di fatto arrecato gravi danni allo sviluppo di un pensiero organico riferito all’alterità e al rapporto dell’uomo (anche in senso diacronico) con essa; di conseguenza, stenta a concretizzarsi una proposta che veramente possa a giusto titolo dichiararsi posteriore al paradigma autoreferenziale.In questa profonda spaccatura tra il desiderio di rimanere gli unici veri protagonisti nell’universo palcoscenico e il bisogno sempre più urgente di immergersi e lasciarsi perfondere dall’alterità tecnologica, ossia dal non-umano, si situa il grande dilemma della contemporaneità. L’accelerazione dello sviluppo tecnoscientifico incrementa in modo direttamente proporzionale i processi di esternalizzazione performativa, permettendo una paritetica internalizzazione di virtualità: l’uomo prova la disarmante esperienza di sentirsi al tempo stesso più potente, perché in grado di allargare il proprio dominio di operatività, e più debole, perché spaventosamente dipendente da partner esterni nell’espressione performativa. Ma, d’altro canto, proprio nel tentativo di riservare una zona integra, naufraga la pretesa umanistica di tracciare una profonda spaccatura tra discipline dell’uomo e discipline della realtà esterna. La postmodernità ha perduto l’unità di misura per il semplice fatto che l’uomo è divenuto contemporaneamente qualcosa in più e qualcosa in meno dell’icona di Leonardo. Questa erosione dei limiti separativi tra umano e non-umano è sicuramente la risposta più innovativa che la contemporaneità ha saputo proporre alla caduta dell’umanesimo, abbattendo quel muro di solitudine che l’antropocentrismo moderno aveva decretato, crocifiggendo l’uomo vitruviano ai quattro angoli dell’Universo.
Il punto focale del pensiero postumanistico poggia sulla capacità di riconoscere il significato coniugativo del fare tecnologico e l’importanza dell’alterità, ossia dell’etero-referenza, al fine di realizzare in concreto la declinazione dell’essere umano. Ma cos’è in concreto questa alterità che il fare tecnologico introietta nell’uomo? A mio avviso storicamente l’alterità per antonomasia è data dall’animale. Un pregiudizio anacronistico e infondato oppone ancora oggi cultura e natura, in una chiave interpretativa dell’ontologia umana fortemente connotata dall’essenzialismo e di conserva separativa rispetto all’universo vivente. Ampie sono state le conseguenze nella cultura occidentale di questa tendenza a costruire modelli dicotomici della realtà ove l’identità umana ha preteso di fondare il propro profilo sulla contrapposizione con un’alterità non-umana definita omogenea nella diversità e sostanzialmente estranea rispetto alla cosmopolis umana. L’esasperazione della differenza e della estraneità dell’animale rispetto all’umano nonché la tendenza ad appiattire la pluralità del non-umano in un’unica categoria forzosamente omogenea e coerente è nondimeno funzionale al processo di ontogenesi identitaria dell’uomo – l’essere umano come entità altra rispetto al consesso dei viventi – e alla giustificazione del dominio in nome della supremazia, ove l’essere umano acquisisce diritti in nome di specifiche qualità estranee al mondo animale. Ma questo aspetto presenta inevitabilmente altre conseguenze che spesso sfuggono ai commentatori e che tuttavia, a mio avviso, sono determinanti e che meritano d’essere introdotti come stimoli di riflessione e, semmai, come aggiuntive chiavi di interpretazione ai contributi dei diversi autori. Accanto alla semplificazione oppositiva, che trasforma l’animale in cifra e la sua complessità ontologica in icona, rinveniamo seppur in modo più velato la proposizione di una continuità che in qualche modo affratella l’universo dei viventi e soprattutto si esprime attraverso universali biosemiotici, per cui è possibile costruire una base comune di intendimenti e di interazione nonché, ovviamente, un sostrato di simpatia. La negazione di una specificità del non-umano e la pretesa di costruire una macrocategoria del non-umano coerente ed esaustiva crea il paradosso dell’analogia tra il processo di distanziamento e quello della continuità sotto il segno della proiezione antropomorfa. Ma vi è un aspetto, a mio giudizio ancora più pericoloso nella misconoscenza dell’alterità non-umana, vale a dire la tendenza a non riconoscere il debito della referenza animale nel processo di sviluppo della cultura stessa. Se infatti l’animale è un “quasi uomo” o un estraneo – dirette conseguenze della proiezione per analogia il primo e della proiezione per distanziamento il secondo – è evidente che non possono essere rinvenute contaminazioni non-umane nell’antroposfera culturale, che di fatto si presenterebbe autosufficiente e impermeabile alla realtà esterna, ovvero in grado di utilizzare la realtà esterna solo strumentalmente e non attraverso partnership. Purtroppo dobbiamo constatare che tale visione informa ancora oggi il nostro modo di considerare l’alterità animale e la referenza animale nella cultura umana. Questa tradizione ha in effetti una pluralità di espressione e inevitabilmente reca in sé delle contraddizioni, laddove molto spesso persino il distanziamento ha offerto il destro per una mitizzazione dell’alterità non-umana e per una sua denotazione stereotipica. Se è evidente la molteplicità di matrice che in modo differente ha tratteggiato l’identità umana staccandola dal fondale animale, non si può dimenticare che l’antropocentrismo epistemologico – ben prima di quello etico – ha dei comuni denominatori che meritano di essere approfonditi se non si vuole rischiare di mettere in atto operazioni solo apparentemente volte a riconoscere il significato della referenza animale. Sia l’antropormismo che la proiezione per distanziamento – anche nel caso di una visione angelicata dell’alterità animale da opporre alla crudeltà umana – sono di fatto negazioni della referenzialità animale e asserzioni di piena autarchia ontologica dell’essere umano. L’idea di una essenza prestabilita, e in un certo senso omologata dell’essere umano, da una parte nega il processo antropo-poietico di ibridazione con l’alterità non-umana, dall’altra apre la strada all’antropocentrismo proiettivo ovvero all’assolutizzazione del modello umano. Uno dei più importanti fondamenti dello sciovinismo antropocentrico è sicuramente la teoria dell’incompletezza, che dai miti prometeici al pensiero platonico fino alla concezione herderiana e di Arnold Gehlen ha dato vita a una polarità tra cultura e natura che si comporta in modo archetipico e prerequisitivo rispetto ad ogni forma di separazione dell’umano dal non-umano. L’idea stratigrafica o, al limite, dimensionale della cultura definisce i contorni dell’isola uomo, fonda la pretesa autosufficienza della cosmopolis nella sua realizzazione dove la cultura, vuoi come emanazione dell’essere umano vuoi come contingenza diacronica, diviene una questione interna alla specie Homo sapiens. Una domanda che pongo spesso durante i miei seminari è la seguente: secondo la vostra opinione, recuperare la referenza animale significa andare verso l’innato o verso l’acquisito? Puntualmente mi viene risposto che l’animale è più vicino all’innato – è cioè la voce del nonno babbuino, ossia dell’istinto, della bestialità, degli appetiti irrefrenabili, degli imperativi fisiologici – e riposa sui fondali filogenetici pronto a risvegliarsi al primo obnubilamento della ragione. La referenza animale è avvertita come carattere ancestrale, retaggio del processo evolutivo, ovvero come il sostrato su cui interviene il bisturi culturale per correggere, indirizzare, annullare o enfatizzare una particolare disposizione della natura. Questa chiave di lettura, diretta conseguenza del paradigma dell’incompletezza, è la madre di ogni processo di separazione uomo-animale, perché di fatto: i) interpreta l’atto culturale come un allontanarsi dall’animale o addirittura epurare l’animale, ii) afferma l’assoluta autosufficienza dell’uomo e l’autarchia del processo culturale, iii) separa l’umano dal non-umano proprio nel processo ontogenetico. Ma questa visione è completamente errata e per una molteplicità di ragioni. Di fatto noi ci avviciniamo all’alterità animale proprio attraverso il processo culturale, non opponendoci a esso attraverso l’istinto, che equivale a dire che l’atto culturale – e non ha alcuna importanza la tradizione di riferimento – ci rende più “animali” ossia incrementa le referenze non-umane nella cosmopolis invece di diminuirle. Ovviamente non è possibile analizzare ciascuna delle ragioni che rendono plausibile l’assunto zooantropologico, ossia l’idea che non si realizza umanità senza un processo di ibridazione referenziale con l’alterità non-umana, ma alcuni aspetti meritano d’essere ricordati. La separazione cultura vs natura di fatto è un’operazione arbitraria condotta a posteriori; in realtà la virtualità biologica istruita dal genoma si attualizza attraverso un preciso dialogo con l’ambiente condotto su livelli gerarchici differenti a partire dal concepimento e condotto lungo tutto il processo embriogenetico: non esiste perciò alcuna possibilità di separare innato e acquisito. Vale a dire che la vecchia opposizione gene/ambiente è solo il frutto di una prospettiva essenzialista: di fatto è proprio il virtuosismo genetico – la sua ridondanza, non la sua povertà – a dare all’ambiente la possibilità di cesellare con maggiore libertà gli esiti del fenotipo. L’idea che solo un uomo imperfetto biologicamente può avvalersi dello scultore “ambiente”, così come ci viene proposto dalla tradizione platonica, è del tutto errata. Come è errato cercare nell’uomo la purezza primigenia. È invece evidente che l’apporto culturale dialoga con i pattern comportamentali accreditati dal processo evolutivo per la nostra specie, quindi è un’attribuzione di significato e di operatività che si avvale di contributi referenziali non-umani. Di fatto la teriosfera – ossia l’insieme delle referenze animali – attualizza il virtuale filogenetico attraverso prestiti, situazioni di scacco, prestazioni ibride, modelli, partnership; in altre parole la referenza animale ha una funzione magistrale per l’uomo. Ma quello che è interessante capire è il fatto che l’animale partecipa all’evento di genesi culturale proprio attraverso la sua diversità, indirizzando il processo di attualizzazione ontogenetica verso una particolare declinazione. Gli animali sono perciò presenti nella nostra cultura in modo ben più rilevante rispetto al sostrato di condivisione filogenetica; il retaggio innato è infatti specifico e incentrato sulla storia dell’animale Homo sapiens e solo in parte condiviso con altre specie, e soprattutto in misura variabile a seconda dell’animale di riferimento – maggiore rispetto ai primati antropomorfi (scimpanzé, gorilla, etc) e via via sempre in misura inferiore rispetto agli altri animali. L’animale è perciò presente e vivo nella nostra cultura, ma non sotto forma di oggetto quanto piuttosto di partner capace di traghettare l’uomo al di fuori del destino genetico verso quell’immenso repertorio di possibilità antropo-poietiche che chiamiamo cultura. Lo sviluppo tecnologico è pertanto legato a doppio filo alla salvaguardia del bacino del non-umano, perché di fatto è lì che è situato l’altro polo che consente lo scoccare della scintilla culturale.