Tutto il ferro della Torre Eiffel di Michele Mari è un romanzo straordinario. Se ve lo siete perduto, recuperate un’esperienza di altissima letteratura visionaria e classica in un tempo che sembra avere perpetrato l’omicidio del classico. Non è un libro classicista, etichetta un po’ imprecisa che posso appiccicare ai precedenti romanzi di Michele Mari, generosi di una magistralità linguistica di cui l’autore di Tu, sanguinosa infanzia è riconosciuto tutelare. Qui, invece, seguendo le tracce e le aure di Bloch e Benjamin, ci si addentra in un complotto immaginifico, una specie di allegoria allargata, una favola che è un’antiangelologia. L’Angelo Gobbo è l’emblema dell’idea dell’illusione totale che la forma non concede, se non attraverso simulazioni che risucchiano il patrimonio energetico, conoscitivo ed emotivo dell’umanità. Un romanzo fantastico sui vampiri, siano essi artisti o politici o filosofi – una fiaba nera complessissima, labirintica e straordinariamente eccessiva. Riprendiamo un’intervista rilasciata tempo fa da Michele Mari ad Aida Zoppetti.
La prima domanda è la tua. Quale formuleresti e quale risposta daresti se ti chiedessi di dare consigli a chi si avvicina alla scrittura?
Se ho ben capito devo immaginarmi anche la domanda, la quale non potrebbe che essere questa: Hai davvero voglia di scrivere? Senti che è un modo per non impazzire? Se la risposta fosse affermativa, potrei solo consigliare di leggere, leggere moltissimo, leggere di tutto con il massimo abbandono (cosa però che si può fare facilmente da molto giovani, quando nulla è ancora un “còmpito”). Altro non saprei dire, perchè ognuno diventa scrittore secondo vie che sono solo sue e dunque impartecipabili, non insegnabili, non comunicabili.
La scrittura è dunque un’esigenza fisiologica, una sorta di fame nervosa?
Posso rispondere soltanto per me: sì, è innanzitutto un’esigenza fisiologica (ho la netta percezione di aver incominciato a scrivere da ragazzino proprio per risarcirmi energeticamente di una vita troppo compressa e repressa, troppo solitaria e reclusa); in secondo luogo è un principio di organizzazione formale o in altre parole il tentativo di illuminare il caos tenebroso dell’esistenza.
Come e dove trovare oggetti possibili d’indagine per iniziare un racconto?
Questo è impossibile a dirsi: ogni scrittore ha le sue “occasioni” e le sue fonti di ispirazione, i suoi temi fecondi e i suoi filoni d’affezione. In ogni caso non ci si dovrebbe porre il problema: se sono urgenti e necessari, saranno gli “oggetti” a visitarti e ad importisi.
Una volta percepita l’esigenza cos’è necessario per scrivere? Basta una grande determinazione, un continuo esercizio o una sensibilità particolare? Insomma, la solita questione, Michele: scrittori si nasce o si diventa?
Io penso che “scrittori” si nasca nel senso di una vocazione innata ad affabulare e trasfigurare; dopodiché scrittori veri e propri lo si diventa assecondando ed educando quella vocazione (in primis leggendo moltissimo). Ma senza vocazione, cioè senza necessità non c’è esercizio o scuola di scrittura che possa creare uno scrittore.
Fai leggere brani del tuo romanzo ad altri prima che sia terminato? C’è un fortunato anticipatore del correttore di bozze?
No: non faccio leggere niente a nessuno prima della pubblicazione, anzi nemmeno ne parlo. Ho con la scrittura un rapporto molto individualistico e solipsistico, un po’ com’è stata la mia formazione di scrittore.
Quando scrivi vorresti ti leggesse più gente possibile o la gente migliore possibile? Conta di più il successo di critica o quello di pubblico?
Direi la gente migliore. Il successo di pubblico conta quando può cambiarti la vita, cioè quando è enorme. Altrimenti meglio non preoccuparsene e scrivere per sé, o per un pubblico di lettori ideali e congeniali.
C’è un romanzo che secondo te rappresenta il paradigma del romanzo, l’esempio perfetto di questa forma letteraria?
Senz’altro no, essendo il romanzo per definizione un genero impuro e proteiforme. Posso limitarmi ad indicare alcuni “paradigmi” di romanzo a me particolarmente cari: Don Chisciotte, I fratelli Karamazov, Zanna bianca, Moby Dick, Morte a credito, Grande Sertao, La cognizione del dolore.
In Rondini sul filo l’effetto drogante della punteggiatura lascia piacevolmente senza fiato. Che peso dai alla forma della scrittura? Prevale sulla storia, ne è subordinata oppure è essa stessa la storia?
Penso che con “forma della scrittura” tu intenda lo stile, il quale dovrebbe sempre essere una “funzione” della storia, cioè il modo di onorarla e servirla al meglio, di prospettarla secondo l’angolazione più produttiva, significativa, suggestiva. Per quel che mi riguarda, la storia e il modo di raccontarla nascono nella mia mente con assoluta simultaneità. Quanto alla punteggiatura, quello che dici di Rondini sul filo mi consola, essendo nei miei voti la punteggiatura uno degli ambiti preposti a cullare il lettore irretendolo in una nenia leggermente ipnotica.
Regalami, per favore, un’aforisma sulla scrittura, quello che più ti assomiglia.
Un’aforisma? La scrittura è un modo per maneggiare il magma incandescente della vita senza ustionarsi.