Richard Powers, l’autore dello splendido Galatea 2.2 uscito per Fanucci e da noi recensito con entusiasmo, ha rilasciato una lunga intervista ad Atlantic Unbound. Ne traduciamo una parte.
In Plowing in the dark, il primo romanzo che hai dedicato al mondo della programmazione, descrivi la tentazione che emana dalla Realtà Virtuale asserendo che si tratta del “luogo con cui il cervello ha interpretato fin dall’inizio, sbagliando, il mondo: l’avventura originaria, profonda, principiale”.
Il desiderio di vivere in un mondo immaginario viene sperimentato a partire dal sospetto che noi siamo sensibilità disincarnate precipitate in un carcere corporeo. Si tratta di un’idea che è penetrata in quasi tutto il nostro comparto ideale, sin dalle origini. Credo fermamente che la poesia abbia da sempre esplorato questo discrimine, avvertendo la necessità del corpo e tuttavia trovandosi sempre sul punto di scartarlo come irrilevante o debilitante. E’ su questo discrimine fondamentale che intendo posizionare la rivoluzione digitale e la realtà virtuale.
Una tentazione eterna, quella di abbandonare il modello degli atomi per quello dei bit…
Il che, va da sé, non possiamo fare. E alla fine, in entrambe le trame del romanzo, i protagonisti subiscono il ritorno concreto del mondo reale su di loro.
Alla fine è come se una Byzantium digitale si sia in qualche modo riversata nel mondo reale.
E’ la metafora che uso per parlare della lettura: è esattamente ciò che accade quando si legge. Alla fin fine, il libro diviene una sorta di apologia della virtualità della fiction – una fiction che non rimpiazza il mondo reale, ma che sia uno spazio ibrido in cui il mondo concreto sia sospeso e venga ricostruito in un modello più sopportabile e vivibile.
Sei tuttavia d’accordo rispetto all’osservazione che oggi non si tratta di uno Yeats solitario che prova a oltrepassare il corpo, bensì di un’intera massa sterminata di popolazione che usa i computer a tentare quest’esperienza?
Ritengo che il progetto essenziale della tecnologia sia da sempre guidato da questo sogno di spezzare i limiti dello spazio e del tempo, di rompere le costrizioni imposte dal corpo.
Le fedi religiose hanno sempre formulato il credo che l’anima o lo spirito esistessero indipendentemente dal corpo. E così pensi che religione e tecnologia siano così più prossimali di quanto finora ritenevamo?
Non penso che religione e tecnologia siano del tutto separate. E’ nella traduzione in realtà delle loro progettualità che si sono allontanate. Ma il fatto è che al momento stiamo assistendo all’irradiarsi di un potente influsso su persone che sperimentano l’urgenza di oltrepassare i propri limiti corporei, in qualche modo. Da un lato, Hollywood traduce le fantasie sulla Realtà Virtuale in film come Virtuosity o Matrix; d’altra parte, scienziati di riconosciuto prestigio come Hans Moravec pensano alla possibilità di trasportare direttamente e integralmente in supporti di silicio i contenuti e le strutture di un cervello umano. Nel mezzo di questi due estremi, un vasto numero di persone comuni utilizza già alter ego nelle chat di America on line. La tecnologia rende possibile disincarnarsi in modalità e registri molto vari, al tempo stesso solleticando il nostro desiderio di liberare le nostre anime dagli “animali morenti” a cui si trovano legate – cioè i corpi.
Chi è per te un geek o un esperto di computer science?
Per me si tratta del continuatore di una sorta di idealismo, nel senso classico, filosofico. Il geek è un platonico, uno che tenta sempre di reificare l’immaginario, uno che tenta di dare alla nostre visioni interiori un grado di realtà molto maggiore rispetto a quello che consente la materialità del mondo.
Se si affermasse che in Plowing in the Dark c’è un bel po’ di Don DeLillo, sarebbe corretto?
Mi è stato chiesto più volte se io sia stato influenzato da Mao II, in cui compare un ostaggio in Libano, esattamente come nel mio romanzo. Però devo confessare che Mao II è uno dei pochi libri di DeLillo che io non ho letto. DeLillo ha esercitato un’influenza enorme su di me, ma non precisamente nella direzione a cui si accenna accostando il mio libro a Mao II. Se dovessi riassumere in una frase che cosa ho preso da DeLillo, dovrei dire che si tratta della coscienza del rischio di morte della capacità che abbiamo di comprendere noi stessi, a fronte della potenza che emanano la politica e il mercato.