di Ulrich Beck
L’11 settembre ha cambiato il mondo? In certo modo, sì. Chi prima dell’11 settembre si recava in volo da New York a Washington si metteva di fronte a un apparecchio automatico di rilascio dei biglietti aerei che – con una voce elettronica – chiedeva al viaggiatore: “Porta con sé soltanto effetti personali, oppure qualche estraneo le ha affidato qualcosa?”, e la risposta che dava il via libera poteva essere ottenuta toccando con le dita un certo punto dello schermo! Dopo l’11 settembre 2001 questo “apparecchio di sicurezza” ha perduto la sua innocenza, e i suoi gestori ci appaiono a posteriori pericolosamente ingenui.
E questo ci porta al punto: la filosofia della sicurezza valida fino ad allora si basava sulla fiducia; ed è precisamente questa fiducia esistenziale e tradotta in istituzioni (l’apparecchio di sicurezza) ad essere dissolta e sostituita dalla sfiducia esistenziale che poco a poco viene trasfusa in corrispondenti forme istituzionali. Il cittadino riconoscente e diffidente non potrà che essere grato di essere passato ai raggi, scrutato, perquisito e interrogato.
In questo modo, tramite le minacce provenienti dalle reti terroristiche transnazionali mentre prima provenivano da Chernobyl, dalle catastrofi ecologiche, dalla crisi di “mucca pazza”, dalle polemiche attorno alla genetica umana e dalla crisi finanziaria in Asia viene inaugurato un nuovo capitolo della società mondiale del rischio. Niente è più utile di un esempio per chiarire cosa intendo per “società mondiale del rischio”.
Qualche anno fa il Congresso statunitense conferì a una commissione scientifica l’incarico di elaborare un linguaggio o un simbolismo che illustrasse il pericolo dei depositi di scorte radioattive. Il problema stava in questi termini: come devono essere questi i simboli ed i concetti adatti a trasmettere per diecimila anni alle generazioni future un messaggio sempre uguale? La commissione era composta di fisici, antropologi, linguisti, neurologi, psicologi, biologi molecolari, studiosi di storia antica, artisti, ecc. Anzitutto essa dovette chiarire una questione irrilevante: fra diecimila anni ci saranno ancora gli Stati Uniti? La risposta riuscì ovviamente facile: Usa forever. invece il problema di fondo, vale a dire come sia oggi possibile stabilire una comunicazione con il futuro da qui a diecimila anni, si dimostrò solo a poco a poco insolubile. Si cercarono modelli nei simboli più antichi dell’umanità, vennero studiate la costruzione di Stonehenge (1500 a.c.) e le piramidi, si approfondì la storia della ricezione di Omero e della Bibbia, ci si informò sul ciclo vitale dei documenti. Ma questi risalivano tuttalpiù a qualche millennio addietro, mai a diecimila anni. Gli antropologi suggerirono il simbolo dei teschi, ma uno storico ricordò che per gli alchimisti il teschio significavano la risurrezione, e uno psicologo compì degli esperimenti con bambini di tre anni: se il teschio veniva incollato a una bottiglia gridavano spaventati “veleno”, se però lo si attaccava a una parete esclamavano entusiasti “pirati”!
Proprio l’acribia scientifica con la quale procedette la commissione rese chiaro e comprensibile il significato del concetto di società mondiale del rischio: la nostra lingua non è in grado di informare le generazioni future sui pericoli ai quali abbiamo dato luogo considerando solamente i benefici di determinate tecnologie. Il mondo moderno, con il ritmo delle sue modernizzazioni, approfondisce la differenza sostanziale tra il linguaggio dei rischi controllabili, nei quali pensiamo e agiamo, e il mondo dell’insicurezza non controllabile, anch’esso creato da noi. Con le passate decisioni sull’energia atomica e con le decisioni attuali sull’utilizzo della tecnologia genetica umana, delle nanotecnologie, delle scienze informatiche, ecc. determiniamo conseguenze imprevedibili, anzi addirittura incomunicabili, che trasformano e minacciano la vita sulla terra.
Ma allora cosa c’è di nuovo nella società del rischio? Tutte le società, tutti gli esseri umani, tutte le epoche non sono forse state insidiate da pericoli, per difendersi dai quali queste società si sono appunto costituite? Il concetto di rischio è un concetto moderno. Esso presuppone delle scelte e cerca di rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in nome dei progresso. L’elemento nuovo della società mondiale del rischio sta nel fatto che con le nostre scelte nel nome del progresso diamo luogo a problemi e pericoli globali che contraddicono radicalmente il linguaggio istituzionalizzato del controllo e le promesse di controllo (irresponsabilità organizzata). E’ quanto avviene in occasione delle catastrofi portate all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale – come Chernobyl o gli attacchi terroristici di New York o, ultimamente, il disastro ecologico causato dalla fuoriuscita di petrolio dopo l’affondamento della Prestige. Proprio in questo risiede l’esplosività politica della società mondiale del rischio. Questa ha il suo centro nella sfera pubblica mass-mediatica, nella politica, nella burocrazia, nell’economia, anche se non necessariamente sul luogo dell’avvenimento. L’esplosività politica non può essere descritta nel linguaggio del rischio, nelle cifre delle vittime morte o ferite, né in formule scientifiche. In esse “esplodono” – se ci si consente questa metafora – le responsabilità, le pretese di razionalità, le legittimazioni in forza dell’aderenza alla realtà; infatti, l’altra faccia del confessato presente di pericolo è il fallimento delle istituzioni che traggono la propria ragion d’essere dall’asserita padronanza del pericolo. Nell’esperienza dello shock amplificata dai mass-media diventa chiaro per un istante che – per riprendere il titolo di un’incisione di Goya – “il sonno della ragione genera mostri”.
Dopo l’11 settembre 2001 la Nato ha deliberato la mobilitazione dell’alleanza, ma non si è trattato né di un attacco dall’esterno, né di un attacco di uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. L’attacco terroristico non è stato una seconda Pearl Harbor. Inoltre, esso non ha colpito l’apparato militare statunitense, ma civili innocenti. Quel fatto parla la lingua dell’odio genocida, che non conosce nessuna ” trattativa”, nessun “compromesso” e, in fondo, nessuna “pace”. Di conseguenza, il concetto di “difesa civile dalle catastrofi” perde il suo significato, ecc. ecc. Il contesto linguistico e istituzionale della sicurezza, nel quale pensiamo, un contesto che abbiamo costruito e nel quale ci siamo costruiti, perde il suo significato. Se però i politici e i militari legati al vecchio universo concettuale, rispondono con i mezzi della guerra, c’è da temere che questo sia controproducente: viene alimentato l’odio sul quale crescono tanti Bin Laden.
Questo paesaggio globale dell’insicurezza ci costringe a ripensare la nostra posizione rispetto al rischio e al futuro che oggi prepariamo. Non c’è un “rischio zero”. Ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura dell’insicurezza, che rompa con i tabù della cultura del rischio residuale, da un lato, e con quello della cultura della sicurezza, dall’altro. La chiave della cultura dell’insicurezza sta nel comprendere l’insicurezza come elemento della nostra libertà. Questo presuppone la disponibilità a discutere e a riformare apertamente pubblicamente i fondamenti del nostro approccio al rischio. Per quanto riguarda anzitutto i rischi ecologici, tecnologici, alimentari ecc., dobbiamo riflettere sul modo in cui la fiducia tra le aziende e i consumatori, i profani e gli esperti, la scienza e l’opinione pubblica critica può essere ritrovata ad esempio mediante una “chimica trasparente”, che metta tutte le sue carte sul tavolo dell’opinione pubblica. Sarà essenziale riconoscere la differenza, politicamente così importante tra rischi calcolabili e insicurezza; non calcolabile. In questo modo si pone la domanda: chi decide, e con quale legittimazione, se nessuno conosce le conseguenze di una decisione, ma si intuisce che i fondamenti della vita e della convivenza ne verranno toccati? Sarà necessario riflettere su nuove linee di confine – ad esempio nella medicina della riproduzione e nella genetica umana -, ciò che comporta una “modernizzazione del tabù”.
Ma la cultura dell’insicurezza spezza anche il dibattito basato sulla falsa alternativa tra sicurezza e rischio. La scelta è tra diverse situazioni di rischio; spesso anche della scelta tra alternative i cui rischi investono dimensioni e valori diversi, difficilmente paragonabili. Perciò, la cultura dell’insicurezza è consapevole che il permanere della sicurezza è altamente rischioso, poiché minaccia la libertà e la capacità di riforma e di innovazione. Ci sono buoni motivi per dubitare che d mondo sia divenuto più sicuro con la guerra contro il terrorismo. E “guerra” è un eufemismo, poiché nella guerra i terroristi dovrebbero essere trattati come prigionieri di guerra e non come banditi. Non da ultimo gli attacchi terroristici dell’11 settembre insegnano che il potere non si è mai tradotto in sicurezza. Nella società mondiale del rischio, così radicalmente disuguale, ci sarà tuttavia un’insicurezza tollerabile, anche quando nasceranno e si affermeranno la disponibilità e la capacità di vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi degli altri, dell’alterità. Nemmeno lo stato sorvegliante di orwelliana memoria potrebbe ristabilire le vecchie sicurezze. Una politica che pretende di controllare tutto porta dritto all’inferno. Chi ci difenderà dal paradosso del fondamentalismo della sicurezza, che procede all’abbattimento dei valori e dei diritti fondamentali della modernità in difesa dei medesimi?
1986 – Risikogesellschaft: Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. (La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000);
1994 – Reflexive Modernization, Politics, Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order, Stanford University Press, Stanford, Cal., con Anthony Giddens e Scott Lash;
1999 – Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma;
1999 – Die Zukunft von Arbeit und Demokratie, Suhrkamp, Frankfurt am Main (Europa Felix. Il vecchio continente e il nuovo mercato del lavoro, Carocci, 2000);
1999 – Schöne neue Arbeitswelt. Vision: Weltbürgergesellschaft, Campus, Frankfurt am Main (Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, 2000);
2001 – La società globale del rischio, Asterios, Trieste;
2003 – Un mondo a rischio, Einaudi, Torino.