di Marco D’Eramo
da il manifesto, 6 giugno 2000

boltanskicover.jpgcapitalismo.jpgOrmai persino la parola capitalismo è quasi in disuso. Al suo posto è adoperato il termine “i mercati” al plurale, neanche più al singolare: “la tal misura è stata bene accolta dai mercati”. Non parliamo poi della critica al capitalismo. E’ quindi già di per sé un’anomalia il libro di Luc Boltanski ed E’ve Chiapello, un testo di sociologia di 700 pagine che s’intitola Le nouvel exprit du capitalisme (Gallimard). Tanto più poi, se l’argomento dichiarato del libro “sono i cambiamenti ideologici che hanno accompagnato le trasformazioni recenti del capitalismo” (ideologia è un altro termine screditato). Politicamente, è il saggio di cui in Francia si è parlato di più quest’anno. Ecco perché vado alla Maison des Sciences de l’Homme, boulevard Raspail, a intervistare Luc Boltanski. E anche per rivedere, dopo 23 anni, la persona che era mio assistente nel corso di dottorato di Bourdieu. Rispetto a Bourdieu, il suo itinerario si è separato. Ma ritrovo gli stessi baffetti, solo più grigi, stessi occhiali, stessa gentilezza, stesso tic nell’intercalare continuo “se vuoi…”.


deramo.jpgTu e Chiapello scrivete che, nel libro, il vostro “intento non è stato puramente sociologico, rivolto alla conoscenza, ma era orientato anche verso un rilancio dell’azione politica”. Cosa intendete?

Il rilancio di un insieme di forme di critica accompagnate da una riflessione sul modo in cui vogliamo vivere. Se vuoi, per noi la politica è decidere in comune quel che si vuole e quel non si vuole. Altrimenti non ci saremmo sorbiti 200 libri di management. Il libro nasce dal disagio di un capitalismo in piena espansione e profondamente ristrutturato che coesiste con un crescente degrado sociale ed economico nella vita di un numero sempre maggiore di persone. Da molti punti di vista, oggi viviamo in una situazione inversa rispetto a quella degli anni ’70. A quell’epoca il capitalismo subiva un calo della crescita e del tasso di profitto, mentre i salari crescevano. Invece la critica del capitalismo era al suo apice (pensa al ’68) e metteva insieme una critica sociale di stampo marxista assai classico e rivendicazioni molto diverse, attinenti alla creatività, al piacere, al potere dell’immaginazione, alla liberazione che toccava tutte le dimensioni dell’esistenza. Oggi invece i profitti sono alle stelle, la critica al minimo storico. Lo smarrimento ideologico è uno dei tratti che segnano di più gli ultimi decenni, ed è dovuto al fatto che le sole armi critiche disponibili erano state elaborate per denunciare il genere di società che ha raggiunto il suo apogeo negli anni ’60 e ’70, cioè proprio prima che si delineasse la grande trasformazione.
Queste armi sono oggi inutilizzabili. Così le istanze politiche, in mancanza di una nuova analisi critica, non hanno avuto altra alternativa che scegliere tra due posizioni altrettanto insoddisfacenti: da un lato l’utopia di un ritorno a un passato idealizzato (con le sue nazionalizzazioni, la sua economia poco internazionalizzata, il suo progetto di solidarietà sociale, la sua pianificazione di stato, i suoi sindacati influenti), e dall’altro, il collateralismo entusiasta delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali (che aprono il paese al mondo, realizzano una società più liberale e tollerante, moltiplicano le possibilità di autorealizzazione…). Nessuna di queste due posizioni permette di resistere davvero ai danni provocati dalle nuove forme delle attività economiche, la prima perché è cieca a quel che rende il neocapitalismo seducente per un gran numero di persone e perché sottovaluta la rottura operata, la seconda perché minimizza gli effetti distruttori. Il nostro obiettivo sarebbe quello di rispondere a una domanda crescente di pensiero critico suscettibile di dare forma all’inquietudine sociale diffusa e di fornire, al minimo, degli strumenti di intelligibilità, e al meglio, un’orientazione verso l’azione, cioè, in questo caso, una speranza.

Come definiresti questa trasformazione nello spirito del capitalismo?

C’è sempre stata una relazione dialettica tra il capitalismo e le critiche al capitalismo (l’anticapitalismo è vecchio quanto il capitalismo). Il punto decisivo è ciò che causa indignazione. Ora, i motivi d’indignazione sono di due tipi, non sempre conciliabili tra di loro. Da un lato il capitalismo come fonte di miseria, sfruttamento, fonte di opportunismo, egoismo. La critica che nasce da queste indignazioni è di tipo sociale.
Dall’altro lato, il capitalismo come fonte di oppressione opposto alla libertà e creatività degli esseri umani, come fonte di disincanto e inautenticità. Questa critica trova le sue radici nell’invenzione ottocentesca della vita bohémienne. Per questo la chiamo critica artista. In alcune fasi storiche le differenti tradizioni critiche possono allearsi: gli intellettuali dei Temps modernes volevano conciliare l’operaismo e il moralismo del Pcf con il libertinaggio aristocratico dell’avanguardia artistica; anche nel ’68 sono confluite. Al contrario, in altri casi, possono divergere, entrare in tensione, opporsi violentemente. Ognuna delle due critiche possiede un versante modernista e uno antimodernista. Mentre la critica dell’individualismo capitalista può degenerare verso derive fasciste (come in molti intellettuali degli anni ’30), la critica dell’oppressione può comportare l’accettazione supina del liberalismo, come è avvenuto negli anni ’80 quando molti intellettuali venuti dall’ultrasinistra, per aver fatto del totalitarismo il loro unico nemico, non hanno saputo o voluto riconoscere la riconquista capitalista del mondo. Ora, nel dopoguerra il capitalismo aveva risposto alla prima critica, alla critica sociale, con il compromesso e con il welfare: era il secondo spirito del capitalismo. Ma così si era esposto alla seconda critica, della spersonalizzazione, dell’autoritarismo, tanto che negli anni ’60 uno dei bersagli sarà il “capitalismo monopolista di stato”. Negli ultimi trent’anni invece il capitalismo ha digerito e metabolizzato la seconda critica, la critica libertaria e antiautoritaria, antistatalista. Di fronte a questa nuova versione – il terzo spirito del capitalismo -, la vecchia critica è disarmata.

Non è un po’ hegeliano tutto ciò, come se il capitalismo fosse lo spirito del mondo, con la critica al capitalismo che funziona da antitesi, con la nuova sintesi e con la dialettica che si ripropone a un livello superiore?

Solo che non è finalizzato. E’ vero che il capitalismo Chiappello e io lo sostanzializziamo un po’. Gli diamo una capacità di resistere, di imparare, di metabolizzare. Ma abbiamo fatto così per partito preso politico. Alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 con il disgregarsi del blocco sovietico e anche con quel che succedeva in Iran, è stata abbandonata la possibilità delle grandi narrazioni. La sociologia degli anni ’80 e ’90 non ha più teoria del cambiamento, non ha più “grandi racconti” e si concentra sulle “pragmatiche di situazione”. Il vuoto lasciato negli anni ’80 dal marxismo e dalla sociologia classica è stato riempito con la filosofia analitica anglosassone. Ma ci si è accorti subito che era un esercizio per vecchie signore e vecchi signori in un collegio inglese. E ci si annoia subito. C’è un ritorno alla filosofia della storia non fosse altro che per sfuggire alla noia. Così la nostra preoccupazione è stata di reintrodurre un modello di cambiamento in sociologia. Forse avremmo potuto ottenerlo senza fare del capitalismo un soggetto hegeliano. Ma noi non vediamo una spirale di progresso come fa Hegel, vediamo uno spostamento continuo del terreno del conflitto: sono in disaccordo con Toni Negri quando in Empire dice che in fondo bisogna accettare quanto avviene nel nuovo stadio del capitalismo in quanto ulteriore passo in avanti nel cammino della liberazione.

Tu dici che a lungo termine al capitalismo manca una legittimità morale. Capisco quando dici che ci vogliono delle ragioni perché ci si impegni nel capitalismo, per giocare il suo gioco, ma queste ragioni non sono necessariamente morali.

No, quello che dico è che le persone non possono essere tenute al lavoro con la sola forza, o con la sola fame. C’è comunque un nodo, un rapporto, per quanto ambiguo, tra libertà e capitalismo. Non ci può essere capitalismo senza un’ideologia che giustifichi “l’arruolarsi” delle persone nel capitalismo, cioè quello che noi chiamiamo uno spirito del capitalismo. Il punto è che, per sua natura, il capitalismo è un processo insaziabile che deve motivare persone che però sono saziabili e quindi devono trarre giustificazioni per partecipare in un processo insaziabile. Ma queste giustificazioni non sono necessariamente morali. Quello che scriviamo sull’eccitazione non riguarda la morale: è vivere il proprio tempo, è liberazione. Poi ci sono ragioni di sicurezza. E’ anche un problema di età. A 20 anni, per impegnarsi nel capitalismo l’eccitazione conta più della sicurezza. Ma il capitalismo deve dare qualcosa in termini di sicurezza. E poi, la natura della risposta in termini di giustizia dipende in gran parte dalla critica. Se gli sfruttati, gli infelici, coloro che non riescono restano silenziosi ed esclusi, allora non c’è necessità per il capitalismo di rispondere in termini di giustizia. Ma l’ipotesi che noi facciamo è che quando si supera un certo livello di sfruttamento, allora c’è un ritorno della critica. E a quel punto, salvo a regnare con la sola forza, allora bisogna reintrodurre giustificazioni, e non solo verbali.

Barthes diceva che il mito consiste nel trasformare in naturale ciò che invece è prodotto dalla storia: a un momento dato i bianchi dominano i neri e allora il mito diventa che i bianchi sono superiori ai neri “per natura”. Mai come oggi la legge del mercato, la legge della domanda e dell’offerta, è stata considerata una legge di natura, mai come oggi vige il mito del capitalismo.
Il libro è scritto contro questo mito. D’altro canto, sono contrario a ridurre il capitalismo al solo mercato, perché secondo me l’organizzazione dell’impresa ha un’autonomia rispetto al mercato. Quello che fanno Williamson e la maggior parte dei grandi economisti è ricondurre l’organizzazione dentro il mercato, mentre secondo me c’è un’autonomia.

A distinguere tra capitalismo e mercato, c’è chi si schiera contro il mercato per non essere contro il capitalismo, e chi si schiera contro il capitalismo per non essere contro il mercato. Per esempio Polany non attacca mai il capitalismo, si scaglia sempre contro il “mercato autoregolato”. Braudel invece pensa che il mercato sia il migliore dei mondi possibili, mentre è critico col capitalismo. Tu da che parte ti schieri?

Se ci fosse un dialogo tra loro, Braudel rimprovererebbe a Polany di aver creduto che il capitalismo è per il mercato, mentre lui ha mostrato che non è così. Per parte mia, mi situo tra i due; io sono molto polanysta, credo che un mercato fuori controllo è terribilmente distruttore, ma credo che un capitalismo senza neanche le forme del mercato da rispettare è il peggio del peggio. Non sono per un’assenza completa del mercato, non so cosa voglia dire. Un capitalismo che prèdica il mercato e però agisce con tutti i mezzi della forza, è quanto di peggio ci sia. Rosanvallon diceva che il solo campo in cui il capitalismo ha davvero rispettato il mercato è il mercato del lavoro. In fondo, io sono più contro il capitalismo che contro il mercato, se questa distinzione ha un senso.

Dedichi molto spazio al connessionismo. I positivisti hanno sempre paragonato la società alla macchina più avanzata dell’epoca. Nel ‘600 la società era un orologio; nell’800 un treno e c’era la locomotiva del progresso. Negli anni ’80 la società era complessa, cioè paragonata a un computer. Ora, con il connessionismo, la società è una rete perché paragonata a Internet? Non c’è sotto una metafora positivista?

No, sarebbe positivista dire che il mondo è diventato davvero una rete. Noi non ci pronunciamo su questo punto e nemmeno se il mondo è più rete oggi di quanto fosse ieri. Per noi quel che è pertinente è che il modello della rete è divenuto normativo. E, diventando normativo, esercita effetti sul mondo legittimando i processi di deistituzionalizzazione. Il nostro oggetto è il modo in cui la rete è stata usata per descrivere in modo normativo un nuovo stato del capitalismo.

Alla fine del libro voi scrivete che “la critica, per essere credibile, deve implicare un sacrificio. E’ poco credibile e soggetta a denuncia una critica che non costa nulla, o che apporta profitti (non solo monetari, ma anche di notorietà mediatica, di premi, scientifici, di posizioni istituzionali)”. A te cosa è costata la tua critica del capitalismo?

Il problema è proprio che non c’è stato costo. Mi aspettavo forti critiche dall’ultrasinistra, “un libraccio riformista, eccetera”. Invece la mia inquietudine è proprio che il libro ha ricevuto una buona accoglienza dall’estrema sinistra, dai trozkisti, dal Pcf, passando per La croix, i socialisti, fino ai limiti del centrodestra: è molto inquietante. Credo che oggi però il vero dibattito furibondo, capace di scatenare passioni, si è spostato dal terreno economico-sociale alle questioni biopolitiche e genetiche. Una mia collega è entrata nel dibattito sulle convivenze omosessuali. Si è fatta insultare a male parole. A livello economico sociale, puoi avere discussioni, pro o contro, ma non hai passioni. Non ho sentito nessuno dire che Seattle è una porcata. Somiglia all’Inghilterra vittoriana, a Dickens: oggi riaffiorano molte critiche al capitalismo e alle sue diseguaglianze, ma queste critiche non impediscono in nulla il suo sviluppo, sono recepite ma rimangono senza effetto. Nulla. Invece, la minima cosa che dici nel campo biopolitico ti attira guai.