di Daniela Bandini
La Foresta dei Mitago, di Robert Holdstock (Oscar Mondadori, ultima edizione aprile 2003, pp. 311, € 7,80) appartiene al genere classico della letteratura fantasy britannica, e la decisione di inserire questo romanzo negli Oscar Mondatori è certo un segnale di “altra” qualità rispetto alla produzione media. Vincitore del World Fantasy Award, questo romanzo è una saga sulla mitologia, sugli archetipi culturali e razziali dei popoli. Si incontrano personaggi del neolitico, figure pre-celtiche, ma anche leggendarie rappresentazioni di Robin Hood. Quello che sembra individuare l’autore è la capacità dell’uomo di dare corpo alla propria mitologia e di vivere la propria leggenda.
I Mitago sarebbero precisamente le proiezioni inconsce del nostro sviluppo cognitivo. Affrontare la propria leggenda e l’eterna lotta tra il bene e il male, quando si incarna nel conflitto altrettanto mitologico tra fratelli come Caino e Abele, è il destino del protagonista del romanzo. Questo, culturalmente approfondito, non si sofferma eccessivamente nelle descrizioni di rune e battaglie tribali, ma avvince nella sua trama quasi “leggera” . In ogni luogo, in ogni dove, in ogni cosa nasce il processo di identificazione, da non confondere con l’abitudine alle cose: “… Quell’odore e quell’ambiente sbiadito erano il mio mondo. A due ore dal mio arrivo capivo, capii che dovevo rimanere. Era quello il mio posto… era mio non in senso materiale, di proprietà, bensì nel senso che la casa e la terra circostante e io avevamo la stessa vita in comune, facevamo parte della stessa evoluzione”
I Mitago prendono vita e forza con l’evocazione, per poi sfuggire e agire in prima persona, ma su una traccia già definita. Sembra sia impossibile trascendere dal proprio destino, semplicemente perché la storia è già stata raccontata, almeno fino al momento in cui la si trasforma, vivendola.. Il bosco e la foresta, impenetrabili, circondano la casa. La foresta vive una propria identità, proteggendosi. Sugli appunti dell’anziano padre, che il protagonista ha visto all’inizio come estraniarsi dalla vita familiare per poi cadere in un delirio solipsistico, cerca quelle risposte che solo l’intuizione gli fanno trapelare. “Chiamo quei periodi particolari interfacce culturali; formano quelle zone, limitate nello spazio dai confini del paese naturalmente, ma limitate anche nel tempo; periodi di alcuni anni, di circa un decennio, in cui le due culture (quella dell’invaso e quelle dell’invasore) si trovano in una fase estremamente angosciosa. I mitago nascono dalla forza dell’odio, della paura… Immagino che siano i sentimenti combinati delle due razze a evocare il mitago, ma chiaramente il mitago si schiera con la cultura che da più tempo ha le proprie radici in quella che in effetti potrebbe essere una specie di matrice ley: così Artù prende forma e aiuta i Bretoni contro i sassoni, ma in seguito Hood viene creato per aiutare i sassoni contro l’invasore normanno.”
Il Mitago ricorda per certi versi il Golem dei ghetti ebraici, l’espressione fantasmagorica di un popolo oppresso, un superuomo dotato di poteri straordinari capace di riscattare la dignità di un popolo. E’ limmagine-mito femminile di Guiwenneth che porterà a compimento il progetto della storia. La madre, figlia di un capo, nata lo stesso giorno di sua sorella ma non gemella, entrambe di bellezza incomparabile, si innamora e si sposa con un comandante romano. L’altra invece ama il figlio di un feroce guerriero ucciso in battaglia dai romani. Punto fondamentale, l’una fertile l’altra sterile. Ciò, come nella migliore tradizione, coincide con il carattere dolce, appassionato e comprensivo dell’una e con l’invidia, l’odio cieco dell’altra. Nascerà una bambina che verrà cresciuta dai cacciatori dei boschi, alla quale verrà affidata la trascendenza mitologica della vicenda.
Sembrano storie già sentite, ed è così che dev’essere. E’ la rievocazione, quella sensazione che a volte ci prende di déjà vu, la strada misteriosa che sembra portarci a un destino conosciuto, l’architettura sbalordita di alcuni popoli che, pur divisi da oceani e secoli di storia, rappresentano le stesse cose. Il bisogno del totem di ergersi in alto, la religiosità rappresentata nell’eden, la diaspora così come la terra promessa, fanno parte di un incantesimo che si evolve nel tempo con le stesse metodiche.
Provateci anche voi. Personalmente il Mitago della mia identità è la persona di mio padre, all’epoca dell’ultima guerra. Un uomo giovane, forse anche bello, un partigiano in lotta contro i nazifascisti. Nella mia rappresentazione lo vedo eternamente giovane ed eternamente legato ai luoghi della montagna, armato, in eterno movimento sugli stessi sentieri, lo vedo come un Mitago che vigila sulla coscienza della storia nella sua eterna marcia sull’appennino tosco-emiliano.
Ho solo giocato… Però il bisogno di mitizzare le proprie origine è davvero fortissimo, e la percezione dell’intimo legame tra cultura e territorio lo è altrettanto.