di Mario Porro
Lo scienziato, ha osservato il premio Nobel Peter Medawar, è colui che si è “liberato dal peso dell’esempio singolo, dalla tirannia del particolare”; la scoperta di leggi universali consente di ridurre all’uno fenomeni in apparenza diversi, come la caduta dei gravi e i moti planetari, di ritrovare unità e identità dietro la molteplicità variegata degli eventi del mondo. Grazie al potere della ragione di formare concetti universali, in cui si esprime la proprietà comune ad una serie di oggetti, di formulare la legge quantitativa che regola l’andamento degli eventi, diventa possibile sfuggire alla varietas a cui ancora era obbligato il pensiero rinascimentale: si pensi alle lunghe liste di Leonardo alle prese con il volo degli uccelli o con i moti delle acque. Ma in questo “mostro scienza” in cui si incarna la razionalità dell’Occidente si nasconde un pericolo totalitario: l’universale ha annullato ciò che è specifico e irregolare, “la scienza occidentale ha infettato il mondo intero come una malattia contagiosa”, ha scritto Paul Feyerabend (nella foto sopra).
Proprio sul rischio di distruzione dell’abbondanza ad opera dell’astrazione, sul progressivo (anche nel senso di frutto del progresso) saccheggio che rende il mondo fisico e mentale una uniforme Terra Desolata, il filosofo viennese stava lavorando nei suoi ultimi mesi di vita. Quel lavoro, composto da un manoscritto in due versioni, ricostruito da Bert Terpstra per volontà della moglie italiana Grazia Borrini, viene ora pubblicato con il titolo Conquista dell’abbondanza presso la casa editrice Cortina (trad. di Pietro Adamo, pp. 350, euro 27,50), nella collana “Scienza e idee”, diretta da Giulio Giorello, in cui già era apparso il carteggio con Imre Lakatos, Sull’orlo della scienza. L’aggiunta di alcuni saggi risalenti ai primi anni Novanta (pochi dei quali già noti al lettore italiano) chiarisce come l’obiettivo polemico privilegiato dell’anarchismo di Feyerabend fosse l’ideale parmenideo e platonico di ragione, quello che si affida il compito di ricercare principi universali, idee eterne e immutabili, la realtà ultima nascosta sotto il velo dell’apparenza e delle illusioni, celata ai comuni mortali. Nel manoscritto l’impostazione di Feyerabend diventa genealogica, torna sui luoghi d’origine della svolta epocale che dal sapere omerico ha condotto alla filosofia, rivisitando ciò che abitualmente indichiamo come passaggio dal mito al logos: gli Ionici inseguono il principio originario, Senofane caccia le divinità olimpiche per sostituirle con il suo Dio unico e lungo questo cammino eleatico si costituirà la scienza moderna. Anch’essa gioca sullo scarto fra Realtà e Apparenza: il suo mondo reale è privo di suoni, di odori e colori, l’unico cambiamento è il moto reversibile delle particelle in un universo stabile governato da strutture e leggi quantitative. Sarà questo ancora il mondo di Einstein per il quale lo scorrere irreversibile del tempo è solo “un’illusione, per quanto tenace”. Ma il gesto da cui ha origine la Ragione dell’Occidente, l’invenzione di un altro mondo, del “mondo vero”, come dirà Nietzsche, contrapposto a quello di cui facciamo esperienza nel nostro vivere, è lo stesso che avevano compiuto le religioni, dall’orfismo allo gnosticismo. Da quel gesto non si è sprigionato l’inevitabile trionfo della Ragione; si è innescato invece un processo storico singolare, è comparsa una nuova “forma di vita”, termine non casuale per chi avrebbe desiderato studiare con Wittgenstein a Cambridge, nel 1952, ma per la morte del filosofo del Tractatus dovette accontentarsi di un altro supervisor, e fu Popper. In tale forma di vita domina l’universale come equivalente generale, il denaro sostituisce gli oggetti da barattare, la virtù, definita da un concetto che coglie la proprietà comune, come vuole Socrate, cancella le liste di esempi dell’antica saggezza, la verità, raggiunta per via logico-argomentativa, ha il sopravvento sui saperi incerti delle tecniche artigianali. Il “cuore di tenebra” della missione civilizzatrice dell’Occidente sta nell’annullamento di concezioni del mondo traboccanti di interpretazioni possibili dell’essere, in cui ancora era presente quel rapporto corposo con il mondo che l’esperienza e il senso comune intrattengono con la realtà molteplice e variegata. Ad esse si va sostituendo, nel processo che diciamo di globalizzazione, una concezione monolitica, governata dalle astrazioni fisico-matematiche ed economiche; e un mondo uniforme si va “riempiendo di conoscenza, puzza, armi e monotonia”.
Ma, rileva Feyerabend, non esiste un solo modo di conoscere, ce ne sono (ce n’erano) molti altri, validi anch’essi, “nel senso che mantenevano la gente viva e rendevano la loro esistenza comprensibile”. L’autorità della scienza, la pretesa dei suoi adepti ed esperti di porsi come esclusivi conquistatori della verità oggettiva, come portavoce indiscussi della Realtà, non è che l’espressione tirannica di una tradizione locale che vuole farsi globale (si veda L’etica come misura della verità scientifica, già apparso sulla rivista “Iride” nel `91). Crediamo che la modernità coincida con il razionalismo critico delle scienze (la stessa democrazia non è forse la miglior forma di governo, suggeriva Popper, perché condivide con le scienze la capacità di autocorreggersi?), che le leggi universali scoperte in natura facciano il paio con l’universalità dei diritti umani, quando invece proprio l’esclusivo privilegio assegnato alla concezione scientifica del mondo nasconde rischi totalitari.
Lo spirito dadaista di Feyerabend ci invita alla difesa della diversità, della varietà e dell’abbondanza, dell’abito di Arlecchino del mondo, contro l’ideologia della Razionalità scientifica. Non esiste in effetti una concezione scientifica: la scienza si dice sempre al plurale, essa ammette al proprio interno procedure e stili di pensiero molto diversi che ne fanno un collage più che un sistema unitario. L’oggettività di cui la scienza fa la sua proprietà esclusiva convive al contrario con tradizioni e credenze, con opinioni e miti da cui è influenzata: la metafisica rimane densa nella scienza, e forse l’ultimo mito, come affermano anche Serres e Latour, è credere nella purezza della scienza. La realtà non è solo quella che, dietro le apparenze, si svela alle tecniche raffinate con cui le scienze interferiscono con la natura: l’Essere è più flessibile di quanto il realismo ingenuo e quello scientifico vogliano farci credere. Ci sono molte mappe della realtà e non sono solo quelle scientifiche ad essere coerenti e ad avere successo. Il che non significa che teorie diverse costruiscano mondi diversi, con i rischi di relativismo impliciti nella tesi di incommensurabilità di Kuhn: Feyerabend insiste sul fatto che “ogni cultura è in potenza tutte le culture”, la possibilità di comprensione interculturale e di scambio rimane sempre possibile e doverosa diventa la tolleranza nei confronti di pratiche, tradizioni e culture “non scientifiche” (e nel dir questo ritrova il vecchio maestro ripudiato, Popper, per il quale la comunicazione è sempre possibile, al di là del “mito della cornice”). Le differenze culturali “diventano manifestazioni particolari e mutevoli di una natura umana comune”; l’importante è che le culture si mantengano aperte, conservino margini di ambiguità nei propri pensieri, in modo da accogliere il cambiamento. Quando una cultura si fossilizza, assume le stesse caratteristiche dei cadaveri, la chiarezza e, potremmo aggiungere, il rigore e la rigidità.
Con sagacia ed humour, Feyerabend ha scalfito la fede nella scienza come incarnazione della verità, la pretesa che il suo privilegio conoscitivo si fondi sul possesso di un metodo rigoroso. Se la scienza ha potuto svilupparsi è proprio perché talvolta si è rinunciato alla ragione e alle norme del metodo: lo attesta l’esempio ormai classico di Galileo, nelle pagine famose di Contro il metodo (Feltrinelli). Da martire della Ragione contro l’oscurantismo clericale e degli aristotelici, lo scienziato pisano viene relegato tra i retori e i sofisti; in mancanza di conferme empiriche, deve ricorrere a tecniche di propaganda nella sua difesa della teoria copernicana, costruire artefatti e spacciarli per realtà, accusando le credenze avverse di essere illusioni. Ma la realtà non è data, è costruita, fabbricata grazie ad una messa in scena, con i suoi dispositivi ed i suoi apparati di proiezione; non c’è differenza in tal senso fra arte e scienza, entrambe costruiscono artefatti, come argomenta nel manoscritto il capitolo dedicato a Brunelleschi e l’invenzione della prospettiva (una prima versione era già apparsa in Scienza come arte, Laterza). La prospettiva pittorica non consente di imitare meglio una realtà immutabile preesistente: fabbrica una rappresentazione, grazie a un allestimento teatrale, a un’azione scenica; col tempo l’artefatto diventa stereotipo e ingenera l’impressione di immediatezza. Anche Galileo costruì una scena, quella dell’esperimento, e si servì di meccanismi di proiezione presentati, in modo ingannevole, come rispondenti alla realtà. L’analogia fra arte e scienza non si ferma qui: ciò che diciamo progresso nella scienza non è che un cambiamento di stile. I fattori culturali o l’abilità di “gruppi di potere” impongono programmi di ricerca, spacciandoli per realtà; non sono l’adeguatezza empirica, la presunta corrispondenza con la realtà, o la logica argomentativa, a determinare la sopravvivenza di una teoria rispetto all’avversaria. Un gruppo di pressione, sorretto da un brain trust e ben rifornito di risorse economiche, potrebbe ristabilire l’autorità del pensiero aristotelico.
Sarebbe facile replicare che è grazie all’astrazione dei concetti e al possesso di leggi universali che la tecnoscienza ha prodotto un’abbondanza di oggetti, di artefatti, e ampliato lo spettro delle possibili scelte di vita; l’astrazione guadagna con le sue reti una concretezza più fine del mondo. Ma il merito dell’impostazione di Feyerabend sta nell’averci costretti a guardare quanto appariva un’evidenza, e l’evidenza è ciò che non si pensa più: “Non esiste nessuna ragione `oggettiva’ per preferire la scienza ed il razionalismo occidentale ad altre tradizioni”. In tal senso è anche grazie a Feyerabend che si è resa possibile la transizione dall’epistemologia (The End of Epistemology era proprio il titolo di un suo saggio) alle Politiche della ragione, come dice il titolo di un libro di Isabelle Stengers, (Laterza). Lo stesso Feyrabend ha spesso citato le indagini di Pickering o di Latour, gli studi recenti che hanno rinnovato la sociologia della scienza, mettendo l’accento sulla pratica, sulla scienza in azione, gettando su di essa lo stesso sguardo con cui gli antropologi indagano civiltà altre. Se un risultato scientifico non è molto diverso dall’esito di una complicata contrattazione politica, al centro dell’indagine si porrà l’analogia fra gli scienziati come portavoce della natura e i politici come rappresentanti del popolo. Come Latour, anche Feyerabend, ha messo in discussione la Grande Partizione fra Noi e gli Altri: Noi, custodi della verità oggettiva, del reale semplice e astratto nascosto sotto le apparenze complesse e molteplici, saremmo in possesso dei saperi efficaci della Tecno-Scienza; gli Altri sarebbero ancora immersi nelle illusioni, nelle apparenze (ricche e concrete, ma fuorvianti), incapaci di distinguere la realtà dalle proiezioni soggettive e dunque di intervenire sul mondo.