Non è certo una passione brianteo-leghista che sta spingendo gli scrittori italiani a rilocalizzare le loro storie, a tentare un’intercettazione del genius loci -commistione di storia e psichismo, geografia e memoria personale – in libri folgoranti e fenomenologie bellissime del radicamento di un’anima. Come nel caso di Milano, la città di nessuno di Alessandro Zaccuri, con quel girovagare da nomade spirituale che lo spettro di Luciano Bianciardi compie tra vie e luoghi emblematici della capitale immorale d’Italia. O come nel caso di I confini di Torino, superpasseggiata letteraria, struggente, ironica, memoriale e impazzita che Dario Voltolini compie non soltanto nella città di Torino ma, quel che più conta, nel vasto cerchio emotivo e percettivo di una sensibilità che colpisce, per capacità di provare a ogni svolta empatia, di leggere contesti e cause in profondità, di fare apparire con discrezione la scaturigine di questi sguardi lanciati nell’abisso del mondo: è un autoritratto in forma di excursus geografico, questo, e Voltolini emerge come una delle personalità più sensibili e stratificate del nostro comparto letterario nazionale.
Questo è il miracolo della flanerie: un sentimento del mondo viene sintetizzato in un sentimento del luogo, impedendo però che venga emendato, dalla purezza di uno sguardo che sulla pagina appare assoluto, il soggetto carnale che quello sguardo ha lanciato e da quel sentimento è stato attraversato. Questa forma elettrica, in forma di scossa ondulatoria, di vibrazione psichica non disgiunta dal corpo, viene esplicitamente allegorizzata da Dario Voltolini, in un passo che crea l’atmosfera, che continua a irradiarmi nella memoria, poiché è l’epidermide di una metropoli che si esaurisce che qui viene sfiorata e mappata, il senso più nascosto del setting cittadino di molti noir urbani: “Nelle figure degli snellissimi tralicci di metallo già da lontano si indovinano alcune spettrali risorse del luogo, forme di energia invisibile che trapassa i corpi, senza che la si possa sentire, magneticamente, elettromagneticamente, polarizzante, minacciosa e nobile. La strada sale contorcendosi e alla fine, raggiunta una certa linearità e un certo piano di scorrimento, lascia intravedere fra le aperture della vegetazione la piana del Po tempestata di lucine di segnalazione, di abitazioni. Quella è la parte di pianura che la collina divide da Torino. Ondeggia nell’aria tremolando vaporosa, impenetrabile, tutta lì adagiata ventre all’aria: non esiste la chiave per aprire la piana del Po”.
Voltolini scrive benissimo. La sua metrica è una tiptologia che, come nei casi alti di utilizzo della ritmica segreta, serve allo scrittore per difendersi psichicamente da un’impossibilità, che tra l’altro è enunciata chiaramente nel passo qui sopra riprodotto: l’impossibilità dello stupro. Spermatozoo perduto al principio del piacere, portatore di una missione meccanica e biologica priva di strategia, piccolissimo nel corpo acido di un bacino immenso, lo scrittore flaneur coglie lo spirito del luogo poiché gli risulta impenetrabile il possesso di ogni recesso e ogni penetrale della città. Il senso del tutto, la verità definitiva di un luogo così magnetico e vasto sfugge allo scrittore borghese (nel senso letterale del termine, che rimanda al “borgo”). La città, immenso colosso piranesiano, labirinto artesiano e multidimensionale che nulla ha a che vedere con l’ideologia del labirinto astratto e razionalista, diviene emblema totale: della femminilità, della cosmogenesi già avvenuta, del delitto già perpetrato, della letteratura tutta. Qui, poi, ne I confini di Torino, l’operazione di accostarsi emblematicamente alla città diviene ancora più precisa, poiché non è al centro che mira la mappatura antropica di Voltolini, bensì al confine, alla linea che imprecisamente dovrebbe separare l’umano dalla natura extraumana, e invece mette in osmosi due regni complementari: “Anche le sterpaglie dei confini comunali sul cavalcavia hanno un guizzo: al di qua del guardrail, sul bordo della carreggiata ma già sull’asfalto, smilzi alberelli si innalzano orgogliosi, abbandonata la natura di cespuglio. Nel buio, sulla tangenziale i fanali rossi e quelli bianchi o gialli lasciano rapide strisce orizzontali. Qualche segnale di sorpasso appare lì, poi là, poi laggiù. Sulla sinistra la mole scura del mattatoio riempie di spavento sovietico lo spazio nero”.
Quest’uomo che si chiama Dario Voltolini non smette un attimo di sporgersi al di là del limbo naturale e artificiale e antropologico che ha deciso di percorrere, come un cieco dotato di una visione interiore tasta i muri della stanza in cui è stato rinchiuso – e scopre che non ci sono muri. Questo libretto, che potrebbe apparire secondario nella produzione narrativa dell’autore torinese (ma anche qui c’è da intendersi: Voltolini è un autore che scrive da un limbo in cui romanzo e poesia cortocircuitano), è in realtà un piccolo poema che mantiene una promessa ambiziosa, la medesima che corre lungo ogni libro di Voltolini, in particolare attraversando le vertebre del progetto narrativo inaugurato con Primaverile: riscrivere le Metamorfosi in forma contemporanea e futuribile.
Dario Voltolini – I confini di Torino – Quiritta – 11.50 euro