La spazzatura della spazzatura della storia: questa è il giudizio unanime che si dovrebbe dare dei lavori deliranti di quella combriccola americana che eietta à go go cazzate paranoidi note come “teoria delle cospirazioni”, e avente come leader David Icke, recentemente sbarcato anche in Italia. Mentre il complotto è una forma letteraria affabulante e uno straordinario grimaldello per occuparsi della storia civila accaduta o che sta accadendo, quando l’adesione psichica comporta una totale credulità rispetto ad alieni, lucertoloni apocalittici, massoni e banchieri satanisti, bisogna tagliare corto e screditare simili bazzeccole che, oltretutto, sono congeniali a un’opera di irrisione che ogni Sistema attua nei confronti dell’assalto controinformativo. Una delle ossessioni più tipiche di quest’ambientino trash è l’inutilissimo mistero che è celato dalle autorità Usa nell’Area 51 dove, a seconda dei deliri, si nascondono dischi volanti, armi segrete, men in black et similia. Un’ossessione che va affrontata solo in una prospettiva: quella della cultura popolare. Il che ha fatto Phil Patton, col suo Dreamland , uscito tempo fa perFanucci: ne pubblichiamo l’incipit.
da DREAMLAND
di Phil Patton
“Quello non l’ha visto” ha detto l’ufficiale.
Stavamo camminando nel deserto dell’Arizona in mezzo agli aerei. Era un cimitero, come quello della famosa scena del film I migliori anni della nostra vita, in cui gli aerei attendono il giorno in cui riprenderanno a volare, magari impegnati in qualche ricognizione aerea sul Terzo Mondo, o verranno distrutti all’interno di enormi macchinari e fusi in alluminio puro. Centinaia di chilometri di velivoli luccicavano argentei nel sole del deserto che si stendeva a sud di Tucson, un cimitero degli elefanti per aereoplani. La polizia militare, con i berretti blu e gli scintillanti stivali scuri, pattugliava il perimetro con i suoi pickup blu, preceduta dai pastori tedeschi.
Il comandante della struttura parlava troppo. Quel comando non era certo un trampolino di lancio per la carriera, e lui ripeteva continuamente quanto fosse importante il lavoro che svolgevano in quel posto, che rappresentava una sorta di banca del sangue per i vari ricambi dei velivoli, e non un cimitero. Detestava la parola cimitero. Sospettavo che gli avessero conferito quell’incarico perché parlava troppo.
Abbiamo percorso le lunghe navate di F-105 dell’epoca del Vietnam, con i loro tettucci fasciati di bianco che li facevano sembrare pazienti reduci da un intervento di chirurgia oculistica, i denti di tigre dipinti sui musi smussati, le stelle rosse scheggiate e mezze staccate a commemorare i MiG abbattuti. In tutti i punti visibili, il plexiglas dei finestrini e dei tettucci era graffiato, smussato, opacizzato. Il sole aveva gonfiato e sfaldato i coloriti simboli delle unità, aveva stinto le chiazze verde-marrone delle mimetizzazioni, e macchiato solite le stampinature militari, NON ENTRARE e SOCCORSO.
Abbiamo superato verdi serbatoi per l’ossigeno accatastati in piramidi, come palle di cannone, seggiolini eiettabili allineati come in un teatro fantasma, radome bianchi appilati come uova di dinosauro, i cubi neri dei vecchi altimetri.
C’erano aerei che riconoscevo solo per avere montato assieme pezzi dei loro modellini durante la mia adolescenza. Hellcat, Avenger, Hustler, Starfighter, Voodoo, Thunderchief. Nomi aggressivi, che piacciono a un bambino.
In un’area definita ‘Anni Quaranta’ si trovavano chilometri e chilometri quadrati di B-52, con il lato posteriore aperto, a rivelare viscere immani. Un coro burlone di elicotteri dal muso allungato ha ghignato verso di noi, mentre procedevamo. Tra i copertoni sgonfi erano cresciute erba e piante di artemisia alte fino al ginocchio. Gli uccellini facevano il nido tra alettoni e flap, i conigli selvatici vivevano nelle prese d’aria dei jet. Persino alla luce del giorno, ‘Anni Quaranta’ è un luogo infestato dagli spiriti. È per il rumore: sono gli scricchiolii dell’alluminio, il fruscio e il dimenarsi al vento del metallo che penzola e di grovigli di fili che sembrano spaghetti, il fischio sordo di un’insolita brezza.
Ho incontrato un uomo che lavorava nel cimitero da trent’anni. Veniva da Waco, in Texas, e la sua pelle aveva preso una tinta color cuoio a causa del grasso, della polvere e del sole. Ha interrotto il suo lavoro e mi ha detto: “Bado sempre a dare un colpo a una fiancata d’aereo, con una chiave inglese o qualcos’altro, per mettere in fuga i serpenti a sonagli, le bisce e i gila, prima di arrivarci troppo vicino.” Stava smontando un motore. “Certi giorni” ha detto “fa cosí caldo che dobbiamo tenere i nostri utensili dentro secchi di acqua fredda, per poterli poi prendere in mano.”
“Tempo fa tutto questo campo era coperto di ‘trentasei'” ha aggiunto. I B-36 erano i grossi bombardieri che volavano sopra la casa nella quale sono cresciuto durante la Guerra Fredda, sotto l’egida del SAC, lo Strategic Air Command, e seguiti dall’occhio d’aquila di Curtis E. LeMay. “I forni per fondere le saldature si dovevano portare qua fuori, sul campo. Erano aerei troppo grossi per poterli spostare. Si alzavano colonne di fumo nero per giorni.”
Ci sono altri velivoli che vengono trascinati sul bordo del campo e fatti a pezzi con una troncatrice che li riduce in parti abbastanza piccole da entrare in un enorme forno di fusione. Dalla base del forno fuoriesce un liquido limpido come mercurio, fluido come acqua, che scorre piú facilmente di quanto ci si potrebbe aspettare dal metallo. Fuso è una parola troppo densa e imprecisa per questo metallo, che raffredda rapidamente in lingotti e in questo modo viene trasportato via, per essere trasformato in parti d’automobile, pignatte e tegami, sedie pieghevoli per il giardino.
Ho trascorso una giornata intera al cimitero. Verso sera, ho intravisto qualcosa con la coda dell’occhio, una forma scura, una specie di grosso motore con delle ali bizzarre, senza finestrini né tettuccio… senza volto… senza ruote… sembrava una struttura biologica, forse di origine acquatica. Pareva ingorda e insensata come una creatura che viva nel fondo degli abissi, con la bocca famelica del frontale di un autoreattore, sinistra e misteriosa come se provenisse da un altro mondo.
“Quello non l’ha visto” ha ribadito pacatamente il comandante della base, nonché guida del tour. Ci siamo fermati a guardare per un po’, quindi siamo ripartiti.
Non lo sapevo ancora, ma avevo trovato il mio primo frammento di Dreamland.