di Daniela Bandini
E’ altamente sconsigliato aggirarsi con questo libro nelle vicinanze di banche e uffici postali, magari assumendo atteggiamenti ambigui… La Rapina in banca — Storia. Teoria. Pratica a cura di Klaus Schoenberger (ed. Derive/Approdi, pp.220, euro 14,50) è un’approfondita antologia di vari autori che analizzano nel corso dei secoli l’evoluzione e la sociologia del fenomeno rapina. Si comincia con il primo assalto a una carrozza postale nel 1787 in Germania per passare alle rapine del Far West; da Jesse James a Henry Starr, da Adam Worth al leggendario John H. Dillinger. Si prosegue con Bonnie e Clyde, con le rapine degli inizi anni ’60 di Ronnie Biggs il trasformista, dalle rapine a sfondo politico degli anni ’70, alle rapinatrici tra cui Arizon Donnie Clark, Gisela, al “women power” della RAF e al Movimento 2 Giugno. Autori diversi, molti gli italiani, tra i quali Franco Berardi (Bifo) che racconta la vita e le imprese di Horst Fantazzini, un mito bolognese, il cosiddetto “rapinatore gentile”, Gianantonio Zanetti (Tata), Corrado Alunni, Emilio Quadrelli, Vincenzo Ruggiero.
Sull’origine della rapina in banca Marcel Bolfort scrive:”Gran parte dei crimini dell’epoca pre-industriale muoveva dalla percezione di un’ingiustizia riconducibile all’ordine costituito, da qui l’immagine del bandito come ribelle sociale, le cui gesta incontrano l’approvazione popolare…” Così ci racconta Rudi Maier dell’uccisione e del funerale di Dillinger , “il 22 luglio 1934, tre settimane dopo la sua ultima rapina, avvenuta a South Bend , Dillinger fu raggiunto alla schiena dalle pallottole di due poliziotti che lo aspettavano all’uscita del cinema… Sembra che centinaia di persone, uscendo dal cinema, intinsero i propri fazzoletti nel lago di sangue in cui giaceva il bandito, per portarsi a casa un ricordo di lui. Furono 15.000 le persone che parteciparono al suo funerale e pare che, segretamente, fosse stata preparata per Dillinger una maschera mortuaria. Il bandito aveva conquistato i cuori della gente, e ancora oggi ci si chiede se fosse davvero Dillinger la persona uccisa quella sera…” Ma come li aveva conquistati? Semplicemente, durante le sue rapine faceva sparire qualche cambiale.
Su Ronnie Biggs, “il più grande rapinatore delle poste di questo secolo“, anni ’60-’70, emerge un altro mito, altrettanto tenace: quello del “gangster spavaldo che si gode la vita e si prende gioco di Scotland Yard , sempre con donne bellissime al fianco e un bicchiere di whisky in mano”. E’ l’interessante descrizione di Dirk Schindelbeck nel capitolo dedicato a Biggs.
Stessi anni, e all’improvviso si afferma un genere di rapina che non si rivedeva da tempo: quella a sfondo politico. E’ “la memorabile rapina di Monaco del 1971”, descritta da Markus Mohr: ”Monaco, 4 agosto 1971, ore 15:55, cinque minuti alla chiusura degli sportelli. Questa data segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della rapina in banca…. Hans Georg Rammelmayr e Dimidi Todorov entrarono nella filiale della Deutsche Bank, estrassero una pistola automatica di fabbricazione tedesca e uno di loro disse, senza accento riconoscibile, ‘Non fate cazzate’. Nelle otto ore che seguirono la banca venne circondata da 800 poliziotti e ciò che accadde, sia dentro che fuori l’edificio, non aveva precedenti in Germania”.
E’ la reazione sociale che ci fa vedere questi eventi ancora più lontani dal nostro presente: “La gente scese in strada a dimostrare solidarietà con i rapinatori, si piazzò davanti alla banca con la musica a tutto volume insultando i poliziotti. Nella cronaca di questa rapina si registrano anche liquori, buon cibo e un accenno di flirt tra un bandito e uno degli ostaggi”. Per la cronaca, il procuratore diede ordine di sparare e il risultato fu una carneficina, ma i soldi vennero recuperati.
Nello stesso filone c’è la storia di Corrado Alunni: “All’inizio degli anni Settanta nessuno di noi, intendo dire nessun militante delle organizzazioni armate, aveva alcuna esperienza da rapinatore. Abbiamo cominciato a fare rapine perché non intendevamo farci finanziare da alcuna realtà esterna”. Molto chiaro, mi sembra.
Altre rapine, altri modelli. C’è quello dei Tupamaros, movimento che si sviluppò in Uruguay negli anni’60-’70. “Soltanto tra il 1968 e il 1971 la polizia attribuì ai rivoluzionari 74 rapine. Nel 1970 accadde un fatto senza precedenti al mondo: le banche di Montevideo furono chiuse per evitare che venissero rapinate. Gli espropri erano concepiti come azioni rivoluzionarie, come ‘parte della lotta di classe’. Per far conoscere questo aspetto alla gente i Tupamaros facevano seguire azioni politiche alle rapine: rendevano pubblici i documenti compromettenti delle società derubate, svelavano i traffici illeciti dei politici ecc.. facevano inoltre uso di uno stile sempre riconoscibile”. Continuando nella lettura arriviamo ai giorni nostri, ai furti collegati alla tecnologia, a Internet. C’è il capitolo che riguarda i travestimenti, dalle famose calze di naylon alle maschere allegoriche indossate dai rapinatori raffiguranti i personaggi della Banda Bassotti, ci sono delle interessanti tabelle finali con il numero esatto e le caratteristiche delle banche rapinate in Europa.
Finirei con questo pensiero di Marcel Bolfort: “… Il danno arrecato dalla rapina all’istituto di credito è spesso irrilevante, le assicurazioni coprono infatti la quasi totalità dei danni, senza contare che spesso le somme rubate non corrispondono a quanto i rapinatori si aspettavano. Per queste ragioni la rapina in banca non può considerarsi un fenomeno dannoso per l’economia… I soldi sottratti a una banca attraverso una rapina rientrano nel circuito monetario, dunque l’economia non subisce perdite. In questo senso egli non arreca alcun danno economico alla comunità ma, paradossalmente, il suo effetto risulterà vantaggioso”.