di Walter Catalano
Dopo l’intervento su Julio Cortàzar, Walter Catalano, autore di Applausi per mano sola, ci ha inviato uno splendido ritratto del genio surrealista Alejandro Jodorowsky, regista scrittore e sciamano. Lo pubblichiamo entusiasti… [gg]
Le notizie biografiche sull’uomo Jodorowsky sono scarse.
Nasce in Cile, in un villaggio ai confini con la Bolivia, da genitori ebrei-russi, nel 1929. Passa la gioventù a Santiago ed in seguito si trasferisce in Messico dove fa il clown nei circhi, organizza un teatro di marionette, diventa campione di karate e dirige un gruppo di musica pop. Poi l’attività teatrale come attore, regista e scenografo: pare abbia messo in scena, ma la notizia non è confermata, 347 opere teatrali più 27 effimeri panici (sorta di happening-celebrazioni).
Alla fine di un lungo peregrinare dal Messico, agli Stati Uniti, all’Europa, Jodorowsky approda a Parigi dove, mentre frequenta i corsi di mimo tenuti da Marcel Marceau, incontra nel 1960 due spiriti anarchici e geniali affini al suo: lo spagnolo Fernando Arrabal e il franco-polacco Roland Topor. Si riuniscono regolarmente al Cafè de la Paix, in piazza dell’Opera, lo stesso in cui Gurdjieff scriveva i suoi libri, dove, per loro ammissione, discutevano «di tutto e di niente e anche di arte, di filosofia, delle nuove tendenze». Un anno più tardi adottano fra loro il nome di burlesque, in omaggio a Gongora ed ai locali di strip-tease americani. Da questo iniziale sodalizio sorge nel 1962 il movimento di ispirazione post-surrealista che chiameranno Movimento Panico.
«La nostra generazione attuale – scrive Jodorowsky nel suo “manifesto” del 1965, Verso l’effimero panico o trarre il teatro fuori dal teatro – è un circo in cui i personaggi si dividono in ‘augusti’, clown e pubblico.
L’uomo panico è il clown; il cittadino che afferma una sola idea alla volta, cerca una sola soluzione per ogni problema e crede di ‘essere’, è l’augusto; l’immensa massa di sfaccendati inerti è il pubblico. Tuttavia ogni pubblico è un ‘augusto’ in potenza e ogni ‘augusto’ può evolversi in clown perché il mondo è panico.»
«La distinzione fondamentale che il panico stabilisce nell’uomo è la dualità tra persona e personaggio – prosegue in Panico e pollo arrosto del 1964 -. […] L’augusto è un uomo vestito come tutti, fa da spalla al clown, non è certo buffo, rappresenta l’uomo medio “non stravagante”, non vive nel presente ma nel passato e tuttavia soffre perché, nonostante non viva nell’oggi, si preoccupa del domani. […] I clown, proprio come le logiche non-aristoteliche, come i quadrati di carta, hanno la possibilità di mutare, sono capaci di deformarsi, di far da struttura, di avere un pensiero multiplo. […] Gran parte del terrore moderno nei quadri e nei film dell’orrore è rappresentato con immagini di cose informali. Il magma, la putredine, il misterioso non hanno forma. E per gli augusti il non aver forma è simbolo dell’orrido, della perdita di se stessi. Viceversa l’uomo panico […] tenta di liberarsi da tale educazione condizionata e cerca l’euforia come un mezzo per uscire dalla prigione dove lo hanno chiuso i suoi genitori […].»
Nello stesso 1962, André Breton, il Papa del surrealismo, pubblica sulla sua rivista La Brèche, le Cinq récit paniques di Arrabal. Da quel momento in poi seguono una serie di opere prevalentemente letterarie e teatrali che fanno conoscere il movimento Panico in Europa e nel mondo: l’Opéra de l’ordre di Jodorowsky che gli frutta nel 1963 la temporanea espulsione dal Messico per aver «attaccato le istituzioni nazionali»; La Pierre de la folie di Arrabal; Les Nouvelles paniques ancora di Jodorowsky; Le locataire chimerique di Topor, romanzo inquietante del 1964, da cui Roman Polansky trarrà diversi anni dopo il film L’inquilino del terzo piano; il Teatro Panico di Jodorowsky; i film di Arrabal Viva la muerte, J’irai comme un cheval fou, L’arbre de Guernica, tutti ormai degli anni Settanta; le innumerevoli mostre di disegni ed illustrazioni di Topor.
Il National Theatre di Londra, diretto da Lawrence Olivier, mette in scena nel 1965 L’Architetto e L’Imperatore d’Assiria di Arrabal e personaggi pubblici come il regista spagnolo Luis Buñuel o lo scrittore francese André Pieyre de Mandiargues simpatizzano ormai apertamente con il Panico.
È a questo punto che Jodorowsky, rientrato in Messico, fonda la società di produzione cinematografica Producciones Panicas grazie alla quale realizza nel 1968 il suo primo film: Fando y Lis (noto in Italia come Il paese incantato), tratto dall’omonimo dramma teatrale di Arrabal. È la storia del viaggio e degli incontri che Fando e la sua ragazza Lis compiono per raggiungere Tar, il paese della felicità e dell’amore, il paese incantato. Il tema è l’impossibilità dell’amore e della felicità, insidiati e distrutti dal «male che è nel mondo e nel cuore di ogni uomo».
Il Festival di Cannes del 1971 si conclude con la proiezione del secondo film di Jodorowsky: El Topo, grande successo negli Stati Uniti, ma distribuito in Italia in versione mutila, ridotta a due ore. Si tratta di una sorta di western mistico e surreale, in cui lo stesso Jodorowsky incarna il protagonista, cavaliere errante in cerca del Graal, che deve liberare un villaggio da quattro pistoleros. Mescolando in modo singolare atmosfere alla Buñuel ed altre alla Leone, la pellicola si snoda fra allucinazioni, esaltazioni orgiastiche, impennate violente, in una serie interminabile di episodi dove si avvicenda una fauna umana cenciosa e ripugnante da corte dei miracoli. Una didascalia spiega che “topo” in spagnolo significa talpa, un animale che scava le sue gallerie nel buio e quando arriva alla luce diventa cieco.
Il capolavoro, la summa della ideologia e della concezione figurativa del cinema di Jodorowsky giunge però nel 1973 con Subida al Monte Carmelo, nella versione spagnola, The Holy Mountain in quella americana, La Montagna Sacra in quella italiana. Un’allegoria, talvolta ispirata, più spesso iconoclasta del cammino verso la Montagna Sacra, la Grande Opera, la realizzazione ermetica, l’immortalità. Traendo ispirazione, più nello spirito che nella lettera, dai due romanzi (La gran bevuta e Il Monte Analogo) di un altro grande eretico del surrealismo, René Daumal -seguace di Gurdjieff e fondatore, negli anni ’30, del Grand Jeu, gruppo per certi versi affine al Panico -, Jodorowsky riesce a coniugare un notevole rigore formale ed “ideologico” con l’uso dissacrante e spesso sconvolgente (almeno per quegli anni) del nudo e del sesso, che gli frutta il sequestro e vari processi per oscenità e vilipendio alla religione.
Il film resta comunque notevole ed ancora oggi niente affatto datato, molte scene sono geniali: la pantomima della Conquista del Messico inscenata da rospi (i Conquistadores) ed iguana (gli Aztechi); l’accampamento dei falsi guru in un cimitero alle pendici della Montagna Sacra, con il profeta delle droghe (allusione esplicita all’allora famoso Timothy Leary) convinto che il segreto sia tutto lì, o il ‘maestro’ capace di percorrere la Montagna, ma “solo in senso orizzontale”; il finale estraniante e brechtiano in cui i nove immortali in cima alla Montagna vengono smascherati rivelando solo dei fantocci, l’Alchimista (impersonato da Jodorowsky stesso), guida della spedizione, si fa beffe dei suoi discepoli:
«Siamo tutti ancora più mortali che mai e questo è solo un film. Macchina indietro!».
Dopo lo scandalo ed il grande successo de La Montagna Sacra Jodorowsky viene coinvolto, nel 1975, in un progetto milionario: deve portare sullo schermo il romanzo di fantascienza di Frank Herbert Dune.
Il film, girato in 70 mm., dovrebbe durare tre ore: tra gli attori protagonisti, addirittura Salvador Dalì (pagato 100.000 dollari l’ora!); tra gli scenografi e costumisti, Moebius, il più grande disegnatore di fumetti fantascientifici di Francia e H. R. Giger, l’artista svizzero, visionario e “demoniaco”, più tardi inventore del mostro del film di Ridley Scott Alien.
A Giger si dovrebbe affidare la creazione del mondo degli “Harkonnen”, un pianeta dominato dal male, dove si pratica la magia nera ed ogni perversione e violenza è incoraggiata.
«Dai miei disegni sarebbero stati realizzati dei modelli tridimensionali – ricorda Giger – […] avrei avuto anche la possibilità di ideare costumi, maschere e così via. […] Solo il sesso non poteva essere mostrato, dovevo progettare il film come se fosse ideato per bambini. Jodorowsky era stufo di vedere i suoi film censurati. […] Discutendo il mio onorario mi disse: “Puoi anche essere un genio, ma non possiamo pagarti come un genio.” […] 4.000 franchi al mese. In verità un misero onorario per gli ideatori di un progetto da 20 milioni. Mi spiegò per ore che buona pubblicità avrebbe rappresentato per me, ecc.»
Nonostante i risparmi sul cachet del povero Giger, il progetto oltrepassa ogni ragionevole limite di costo ed il produttore si ritira. Solo molti anni più tardi il film sarà realizzato da David Lynch in versione relativamente più “economica”.
Reduce da quell’insuccesso e marchiato dall’ignominia di essere un dilapidatore di budget, un sardanapalo della celluloide (non a caso si era proposto all’inizio della sua carriera come “il Cecil B. De Mille dell’underground”), Jodorowsky viene messo in quarantena: nessuno lo farà più lavorare nel cinema per anni. Per vivere si arrangia come può: inventa “film” a fumetti. Il primo è la saga de L’Incal.
«Moebius ed io – scrive – abbiamo lavorato otto ore al giorno, per un anno, all’adattamento di Dune per il cinema. Il progetto è fallito e il fallimento ci ha lasciato frustrati. Tutto quello che avevo inventato per lo script di Dune, l’ho recuperato per l’Incal. Quello che è importante è che Moebius ed io siamo arrivati a vibrare all’unisono. […] Quel che ho cercato di fare con l’Incal, è di costruire una storia di fantascienza a partire da un atto apparentemente insignificante che prenderà in seguito proporzioni enormi […], un intrigo poliziesco dallo scioglimento cosmico (e comico), alla Philip K. Dick, spinto alle sue ultime conseguenze: la scomparsa e la completa metamorfosi dell’universo […].»
La collaborazione fra Jodorowsky e Moebius continua fino a tutta la prima metà degli anni ’80 e produce alcuni fra i più bei fumetti del periodo, pubblicati prevalentemente sulla rivista francese Metal Hurlant. Nel 1979 intanto, il regista rompe temporaneamente l’isolamento cinematografico e gira Tusk (Zanna), tratto dal romanzo dello spagnolo Abellio. Il film recupera memorie circensi dello stesso Jodorowsky, raccontando la storia di un elefante: il risultato è discutibile e sa di déja vu; il successo è minimo.
Jodorowsky ripiomba nel silenzio per altri dieci anni. Solo nel 1989 finalmente, il produttore italiano Claudio Argento, fratello di Dario, gli finanzia il film Santa Sangre. Per quanto sempre interessante, quest’ultima fatica reca a tratti certe goffaggini da film di genere: l’invenzione visionaria resta valida e multiforme, ma l’autentica ispirazione non sempre trionfa; si ripetono con qualche stanchezza le ossessioni abituali dell’autore: il circo; gli handicappati e i freaks; le metafore cristiche più o meno blasfeme; le sette e le congreghe religiose o esoteriche. Ma dove un tempo vi era genuina provocazione visiva ed intellettuale, ora sembra prevalere un onesto artigianato da manierista del kitsch, da scrupoloso confezionatore di horror con relativa, abbondante, esposizione di sanguinacci e macellerie varie.
Questa volta il nuovo tentativo di Jodorowsky, con tutti i limiti e le più o meno astute concessioni alla cassetta, si rivela fortunato. Negli anni successivi gira ancora The Rainbow Thief (Il ladro dell’arcobaleno), sorta di fiaba ambientata fra i clochard parigini, con un cast d’eccezione: Peter O’Toole, Omar Sharif, Christopher Lee. Mentre è annunciato come imminente The Sons of El Topo (I figli di El Topo), seguito del suo western del 1971.
Nel frattempo continua con successo l’attività di autore di fumetti e di romanziere: nel 1996 è stato tradotto in italiano, per Feltrinelli, Quando Teresa si arrabbiò con Dio, sorta di biografia/epopea mitica che segue la famiglia Jodorowsky dalle steppe del Dnepr alle pampas sudamericane, fra stregoni, incantatori di serpenti ed attentatori anarchici, cappelle incantate e bordelli, scioperi di minatori e cariche della polizia. Da poche settimane poi Mondadori ha finalmente tradotto addirittura una sua esposizione e reinterpretazione mitica dei Vangeli.
Se l’artista è poliedrico e affascinante però, non è da meno lo Jodorowsky uomo. Figura straordinaria che emerge prepotentemente dall’interessante volume Psicomagia: una terapia panica, edito sempre da Feltrinelli nel 1997: una lunga conversazione con l’amico Gilles Farcet. Capitolo dopo capitolo vengono passate in rassegna le molteplici esperienze dell’autore – la poesia, il teatro, il sogno, la magia ed infine la psicomagia -, viste come un percorso personale unitario volto ad un fine: l’elaborazione di questo nuovo metodo – un po’ magia laica, un po’ psicoterapia aperta al sovrannaturale – capace per mezzo di un atto paradossale, catartico e simbolico, di liberare il “paziente” da problemi psichici o fisici anche gravi. La terapia, che sembra molto efficace, metterà in crisi sia gli psicanalisti che i fattucchieri, essendo completamente disinteressata e gratuita; Jodorowsky puntualizza di guadagnare già abbastanza con il suo lavoro e di non aver bisogno di denaro anche dai suoi pazienti: l’unica retribuzione richiesta è una lettera in cui questi riassumono precedenti e risultati del loro caso,
«nell’essere costretta a scrivermi un resoconto dettagliato, la persona paga un prezzo e io lo ricevo».
Il metodo rielabora vari esperimenti condotti da Jodorowsky durante le sessioni del Cabaret Mystique, sorta di conferenza-happening, tuttora animata da lui (e ultimamente più spesso dai suoi figli) a Parigi tutti i mercoledì. L’ingresso è gratuito e vi assistono cinquecento spettatori ogni settimana. Al termine dei volontari tra il pubblico fanno una colletta per pagare l’affitto della sala. Poco prima della sessione, e sempre gratis, Jodorowsky legge i tarocchi (il suo criterio è esclusivamente psicologico e non divinatorio – precisa) ad una trentina di persone: queste, come pagamento, dovranno, al termine della lettura, tracciare con l’indice la parola ‘grazie’ sul palmo della sua mano.
Come si può intuire anche solo da questi brevi accenni, il personaggio e la “filosofia” che emergono da questo libro, sono assolutamente irresistibili ed eccentrici rispetto a tutte le etichette note, siano le più astruse terapie psicologiche ed analitiche, l’occultismo o il supermarket new age. Non c’è spazio per soffermarci sulle molte pagine che restano indelebili nella memoria: le notevoli esperienze di “sogno lucido” e di controllo del sogno; l’incontro fantomatico con Carlos Castaneda; il lungo apprendistato come assistente della bruja messicana Pachita, così simile ad un personaggio dei suoi film; gli incredibili ‘atti psicomagici’ che risolvono (o talvolta non risolvono) numerosi casi “clinici”. Una lettura, crediamo, assai utile, in cui si può trovare molta saggezza e molta follia, in cui – come dice l’autore parlando di Castaneda – “se c’è imbroglio, è imbroglio sacro…”.
E proprio questo “clown mistico”, “ciarlatano trascendentale”, “professore di immaginazione”, “imbroglione sacro”, pensa bene di ricordarci con sano realismo, alla fine del libro, che
«Qualsiasi terapia è solo parziale […] esiste solo una cura globale: incontrare Dio».