Ha ragione Valerio Evangelisti: insistiamo, insistiamo a tessere le lodi di questo scrittore che coniuga realtà, finzione nera, intervento politico, stile inteso come lavoro sul ritmo e sulla struttura. Questo scrittore ha un nome rétro e impegnativo: si chiama Cesare Battisti. Lavoriamo in positivo, compiamo un lavoro impositivo: imponiamo Cesare Battisti alla stolida attenzione italiana. La quale non è che non si sia accorta che i romanzi di Cesare Battisti esistono e fanno male. Ma è bene ribadire una verità banale, scontata, che soltanto gli asini dell’intimismo italiota non riescono a comprendere: Cesare Battisti è uno dei grandi scrittori di genere e non del nostro comparto nazionale: è uno dei grandi autori di genere a livello continentale. Leggo su Pulp l’ennesima lezione sull’editoria di Daniele Brolli: ci dice che Giancarlo De Cataldo ha voltato la pagina del nero italiano. Sono entusiasta di Romanzo criminale, ma bisogna fare giustizia: il nero italiano l’ha ribaltato Cesare Battisti.
Certo, la svolta civile di De Cataldo è fondamentale nella storia della crime fiction italiana: che, per l’appunto, esce dalla fiction e diviene a tutti gli effetti una crime story, anzi: una crime history. Ma quella svolta l’aveva compiuta proprio Cesare Battisti, cinque anni fa, con L’ultimo sparo, straordinario memoriale finzionale uscito per Derive/Approdi. Era un libro scabroso, mostruoso, tesissimo, che esprimeva un’elevata vocazione all’allargamento empatico, alla comunicazione – oltre che sinaptica – di tutto il comparto emotivo di cui è capace l’uomo. Già il sottotitolo, Un Delinquente comune nella guerriglia italiana, sembrava annunciare un canto dell’ambiguità e della contraddizione, una sorta di picarismo altamente drammatico in osmosi con un movimento collettivo inarrestabile. La vera verifica dei poteri si fa qui o non si fa: nell’intimo, nel seno di sé, proprio mentre ci si apre all’incontro col mondo, mettendo in cortocircuito le proprie contraddizioni con i salti logici e le pieghe laviche della storia. Altrimenti, si esce dalla letteratura: e si compie l’ascesi, oppure si fa opera politica e/o religiosa. L’affannata vicenda de L’ultimo sparo, con quel suo martellamento secco, a oltranza, reiteratamente brevilineo e paratattico, rendeva conto della Commedia umana nella sua totalità: individuale e collettiva. E apriva un ampio varco a quanto non era stata fino ad allora la letteratura di genere in Italia: la memoria vissuta come motore della fiction. Era, tra l’altro, il motivo per cui tutti si stupirono e si sdilinquirono di fronte a quel capolavoro che è I miei luoghi oscuri di James Ellroy: fa male leggere una fiction vera, mnestica, che ricapitola le autentiche ossessioni e gli sbagli esistenziali di uno che, prima che scrittore, è uomo vivo, con una sua storia. Tentazione ben diversa da quella autobiografica o autoagiografica che, siamo sicuri, spingerà chiunque a imitare l’altro grande emblema della crime history, Ed Bunker, che scrive soltanto in questo modo: vita diretta, stile strafottente, autenticità a mille.
A leggersi Le Cargo Sentimental – lo si può fare soltanto in francese, per il momento – si constata quale enorme lavoro, su di sé e sulla propria scrittura – Cesare Battisti abbia compiuto nel corso di questi anni. Se volete farvi un’idea della trama e dei temi, andate a leggervi cosa ne dicono i francesi che, davvero, sono andati matti per questo libro. Tanto per intenderci: l’ho comprato alla Fnac parigina di fianco alla Grande Arche, quando ho chiesto al commesso il libro mi ha domandato se, essendo io italiano, conoscevo di persona Battisti: voleva che mi complimentassi con lui, voleva stringergli la mano per interposta persona – ed eravamo nel cuore della zona più inumana di Parigi, nel centro commerciale più inumano che abbia mai visto, nel negozione più inumano che sia mai stato esportato su scala globale.
Cargo sentimentale è un libro straordinario, destinato a diventare uno dei tratti epici della nostra narrativa contemporanea. L’incredibile intreccio politico, storico, memoriale dipinge una vicenda collettiva – quella italiana – che trascina una guerra civile sopita da almeno cinquant’anni, disincarnandola rispetto alle località comuni in cui vanno a becchettare i romanzieri nostrani, per uscire da ogni intento divulgativo che non sia generalmente condivisibile: quello dell’attualità come risultante di un campo di forze storiche, sorta di attrattore strano in cui vanno a convergere soltanto coloro che sono dotati della memoria – non selettiva, bensì collettiva. La sovrapposizione della comunanza di piani e della differenza specifica che contraddistingue i tre momenti individuati da battisti – Resistenza, Piombo e Movimento dei movimenti – crea una sorta di annullamento delle idiozie ideologiche, per riuscire a penetrare la verità: esiste al mondo il male e chi lo combatte, a modo suo, con le sue pecche e i suoi errori. Nulla è emendato – Battisti non si emenda nulla, come dimostra la sua incredibile vicenda esistenziale.
Niente di puramente teorico letterario: non è questo il momento dell’astrazione. In questo momento ben altro è in gioco. Battisti entra in questo gioco durissimo ed esaltante, che ci ha permesso di comprendere che soltanto un idiota nippoamericano può avanzare l’ipotesi caricaturale che la storia è finita. Cesare Battisti canta proprio il movimento della storia e non risparmia nulla: la storia è sempre la solita storia: la storia non è mai la stessa eppure lo sembra.
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