di Luigi Bernardi
Sbuco dal portellone dell’aereo, un’onda fredda mi rade la faccia. Ero abituato al clima dell’altra città, gentile di carezze. Nella mia tira un’aria diversa, cattiva. La sento ogni volta che ritorno. Sono scomodi da scendere i gradini della scaletta, si fa meglio a salirli, pure se così ripidi e stretti che viene da aggrapparsi al corrimano. Piove anche. Mi bagno i capelli, e sono pochi i metri per arrivare alla navetta.
Non mi piacciono le navette, sono belli quegli aeroporti in cui se ne può fare a meno. Tanto piccoli che si raggiunge a piedi l’uscita, tanto grandi che ci si infila nelle passerelle mobili. Hanno la forma del tubo, o anche del verme, persino dell’utero, danno l’idea di un passaggio morbido, senza traumi. È un’illusione, quelli arriveranno dopo, ma è sempre bello poterli differire.
Aspettare i bagagli è il peggio dei viaggi in aereo. Si è arrivati e non si può andarsene. Si deve comunque recuperare la valigia. Se oltre la porta c’è qualcuno ad aspettare, diventa uno strazio. Oggi a me non aspetta nessuno. Posso guardarmi intorno, senza urgenze. Hanno tutti il telefonino incollato alle orecchie, comunicano di essere arrivati. Vogliono dire che sono vivi, con i viaggi in aereo c’è poco da scherzare, amici e parenti stanno sempre in ansia.
C’è un tipo che parla dentro l’apparecchietto, fa dei gesti larghi. Dice che è finalmente arrivato in Italia, che pure non era stato all’estero. Si compiace della battuta. È un bastardo con i pantaloni senza una piega e un cardigan finto Missoni, un coglione cui sembra spiritoso dire che la Sicilia non è Italia. Pensavo non ne fosse rimasto nessuno. A volte mi stupisco di come so essere ingenuo. Lo stronzo si bea delle sue parole, studia delle smorfie soddisfatte, è di quelli abituati a farsi vedere, che pensano che qualcuno li stia sempre a guardare, anche quando parlano con lui al telefono, distanti.
Lo guardo io, invece. Immagino come gli starebbe bene un coltellaccio da cucina piantato in pancia, giù fino al manico. Il sangue fresco darebbe vivacità ai colori sbiaditi del cardigan. Dopo avergli attraversato la carne, mi piacerebbe guidare la punta della lama a incidere la membrana sottile che ricopre le vertebre, sentire l’inferno che fanno le ossa a grattarci contro. Le smorfie della faccia specchierebbero allora il dramma vero, non quelli che si sta inventando.
Il tipo non si accorge neppure che lo fisso stranito. Sarebbe difficile spiegargli che gli sto dipingendo addosso un’opera d’arte, la più giusta che riesco a concepire per lui. La vita è spesso un quadro incompiuto. Anche il mio lo rimane. Un po’ mi dispiace. La valigia è fra le prime sul nastro. Adesso sì che sono proprio arrivato.
Da Zero in condotta