Bisognerà fare un monumento a Giulietto Chiesa. La fenomenologia del potere tecnocratico, wasp e di griffe neoconservatrice che, insieme a Marcello Villari, ha delineato con Superclan (Feltrinelli, 9 euro) definisce una nuova fase vitale di ciò che abbiamo equivocamente chiamato controcultura o cultura antagonista. Poiché basta andare a leggersi l’incipit, strisciare tra le parole di dolore che Chiesa&Villari dedicano al nostro pianeta morente, avventurarsi nelle descizioni analitiche della stolidità politica dei Potenti per rendersi conto che qui non siamo di fronte a un semplice assalto al Gotha: qui siamo di fronte a un’urgenza che parte da uno sfondo di empatia – il legame che unisce la nostra specie al mondo. Chiesa non fa controcultura: Chiesa fa cultura, l’unica indispensabile cultura del nostro presente e del nostro futuro. Coartato da Giuliano Ferrara nel ruolo grottesco di “apparatchick coi baffi” (parla un apparatchick con la barba le cui carni sfamerebbero per anni il continente africano…), Giulietto Chiesa non è ideologico se non nel senso più puro: è un idealista pratico, un uomo informato e che continua a informarsi e che non smette un attimo di metterci a parte delle sue informazioni. Superclan non è un affare di teoria delle cospirazioni: è la purissima verità sul funzionamento della macchina antiumana che ha portato al collasso il pianeta e imposto una cattiva globalizzazione.
C’è in Superclan una tesi che, sotto le ceneri, arde – arde tutto il nostro presente e mette a ferro e fuoco le ormai estenuate sicurezze piccoloborghesi dei metropoliti della politica occidentale (intendo quelli che non dispongono di passaporto americano): la lotta di classe ha subìto negli ultimi anni una mutazione genetica. Non si tratta più di lotta di classe: si tratta di una lotta contro la Superclasse. Poiché è di questa élite, più o meno coordinata, ma spesso solidale in termini di antinatura del tutto spontanea, che Giulietto Chiesa e Marcello Villari identificano quale agente causale della svolta planetaria: una svolta formidabile, un’accelerazione della Terra quale biglia fatta schizzare dalla “mano invisibile” del Mercato, l’antica illusione con cui Adam Smith ha formato catene umane di stronzi, mettendole in grado di nuocere all’ecosistema, al genere umano, al pensiero e alla coscienza. Questa Superclasse viene additata con un’acribia che soltanto un grande giornalista, qual è Chiesa, può permettersi di esercitare in un àmbito tanto oscuro e confuso come quello affrontato in Superclan. La Superclasse pendola irregolarmente: da una parte, tra segreti diffusi, cerniere e tutele, onomanzie noiosamente clandestine o – nel migliore dei casi – proditoriamente anonime; e dall’altra parte, tra lucori e splendori di una miseria antropologica da fine impero, una specie di decadenza fintamente aurea (la questione dell'”oro finto” è centrale nel libro) da regime bizantino ormai totalmente distaccato dalla vita del pianeta.
I colpevoli non sono Bush e i neoconservatives: o meglio, non sono gli unici colpevoli, essendone piuttosto il volto riconoscibile, esposto ai riflettori di una platea mondiale totalmente immaginaria e astratta, visto che il mondo in gran parte non ha i soldi per pagare il biglietto di un simile catastrofico spettacolo. I colpevoli non sono nemmeno Wall Street e il battaglione mediatico americano, il cui sordido intreccio è piuttosto lo strumento di una simile gang. E neanche la perversione politico-economica è il colpevole: trattasi infatti dell’ideologia che sostanzia la colpa. Chi sono dunque i colpevoli? Sono nomi esotici, conosciuto o meno, gente senza scrupoli che, se avessero ragione gli induisti, pagheranno carissimo quanto hanno fatto e stanno facendo: il prezzo del debito karmico che hanno contratto è tra i più alti della storia umana.
Avanguardia mortifera che già da sé, del tutto spontaneamente, fa la lotta di classe (cancellando sul fronte interno, negli Usa, la classe media), il Superclan non pensa più il mondo: è agito dal meccanismo storico che ha messo in moto. Privo ormai di progettualità e votato a una dissennata sopravvivenza, tutta a carico del sangue e dei sogni dei cittadini del mondo, il Superclan viene emblematizzato da Chiesa&Villari in apici clamorosi: dalla “parabola” Enron (mutuo il titolo da un eccezionale saggio apparso nella stessa collana feltrinelliana, a cura del giornalista del Sole24ore Nicola Borzi) all’evenienza dell’11 aprile, dalla cieca e scellerata lotta per aprire il vasto conflitto intorno alle risorse idriche fino alla progettazione di una guerra pressoché infinita (ultimo criminale strumento di controllo con cui il Superclan pensa di fare sbocciare rose da giardino all’inglese in pieno deserto) – ecco i termini apicali di una strategia elitaria, malthusiana, perversamente darwinista, imbellamente sanguinaria che definisce i lineamenti di un gruppuscolo di disumani pronti a tutto, pur di succhiare il plasma al pianeta fino a deprivarlo di vita.
Vorrei riprendere l’incipit di Superclan per fare comprendere come Chiesa e il suo collega si pongano al di fuori del pernicioso atteggiamento apocalittico e affrontino in termini profondamente umani il disastro a cui alacremente ha lavorato – e tuttora lavora – la Superclasse che ha in George Walker Bush la sua più prestigiosa e idiota marionetta:
“Abbiamo cominciato a scrivere questo libro nei giorni di vigilia del Secondo summit sulla Terra, dieci anni dopo il primo, quello che nel 1992 si tenne a Rio de Janeiro. Dieci anni, quelli seguiti a Rio, vissuti dal nostro mondo “civilizzato” in preda a un’euforia insensata che non corrispondeva affatto alla grave situazione già allora evidente nel più importante consesso di scienziati, politici e lobby delle grandi corporation mai realizzato nella storia dell’Uomo.
Euforia per una crescita ormai “illimitata”, di tassi sempre meno lineari e sempre più esponenziali, di uno sviluppo diventato “senza contraddizioni”, della distruzione shumpeteriana vista solo in senso “creativo”, della ricchezza “per tutti” (anche se, “inevitabilmente”, qualcuno si appropria di fette troppo grandi). E si riaffermava il luogo comune – continuamente ripetuto in ogni occasione – che l’egoismo dell’uomo è una forza motrice e non va frenato: l’epoca della Tina, cioè del There Is No Alternative.
Allora, a Rio de Janeiro, erano stati assunti impegni solenni per tentare di rimettere in sesto i conti dello squilibrio decisamente grave, tremendamente preoccupante, tra l’Uomo e la Natura, evidenziato con abbondanza dai dati a corredo. Erano le uniche nubi in un panorama altrimenti entusiasmante.
Alla vigilia del Vertice di Johannesburg si è giunti in un contesto che non è più sufficiente definire preoccupante. Il coro concorde delle voci responsabili parla di “pericolo incombente”, della necessità di porre mano a un “nuovo tipo di sviluppo umano”, diverso da quello che ci ha trasmesso questo decennio di euforia.
Da Rio de Janeiro il Prodotto interno lordo (Pil) dei paesi ricchi è cresciuto di circa 10.000 miliardi di dollari anche se, dei circa sei miliardi di individui che popolano la Terra, 1,2 miliardi di persone vivono ancora con meno di un dollaro al giorno. Il loro numero, in valore assoluto, non è affatto diminuito. Ci era stato detto che la ricchezza, anche smodata, dei pochi avrebbe comunque provocato un fallout di benessere sui miliardi di poveri. Chi lo ha detto mentiva, o non sapeva ciò che diceva. Oggi ci sono almeno ottanta paesi che dispongono di un reddito pro-capite inferiore a quello di cui disponevano nel 1992.
I ricchi, arricchendosi, non sono diventati più generosi e nemmeno più saggi. L’aiuto dei paesi ricchi ai paesi poveri è diminuito, non è aumentato. È passato dallo 0,35% del loro Pil (all’inizio degli anni novanta) allo 0,22% dell’anno 2000. Il Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, alla vigilia di Johannesburg, denunciava due drammatici punti irrisolti: l’assenza di una strategia politica internazionale per affrontare, tutti insieme, la sfida della povertà sul pianeta; e l’evidenza delle minacce derivanti simultaneamente dai ritmi di produzione e di consumo, insostenibili dall’ambiente naturale.
La situazione odierna è peggiore rispetto a quella prevista a Rio de Janeiro: i trend negativi che erano stati individuati sono oggi in gran parte più gravi e nessuna delle tendenze attuali induce a una qualche forma di ottimismo. Ad aggravare il quadro non è soltanto il tempo perduto. Il fatto saliente è che la crisi economica ormai investe, una dopo l’altra, tutte le economie ricche, cioè l’economia mondiale nel suo complesso. L’ottimismo è finito. La ripresa è immersa nelle nebbie di un futuro incerto e nessuno sa dire nemmeno se sia ancora prevedibile. Il grande esercito degli esegeti del capitalismo senza regole e freni, naturalmente, continua a preconizzare il ritorno della mano invisibile del mercato, ma l’unica freccia nelle loro capaci faretre è il poverissimo argomento che non c’è nient’altro, nessuna ipotesi, nessuna teoria, nessun sistema alternativo: non c’è che da sperare nella Provvidenza. Evidentemente, anche la mano invisibile di Adam Smith è stata impedita dalla mancanza di regole e di freni.
Questo dovrebbe essere il tempo del risveglio. Ma è come se l’umanità ricca, inclusa quella che non è precisamente ricca ma si trova a vivere nelle società ricche (cioè quasi tutti quelli che stanno leggendo queste righe), faccia una gran fatica a risvegliarsi da un bel sogno. Questa è una delle illusioni che impedisce a molti di trarre le necessarie conclusioni. Molti altri (l’immensa maggioranza della gente di tutti i paesi) non possono neppure porsi il problema perché, privati delle necessarie fonti d’informazione, non sono consapevoli che è il mondo intero ad andare in rovina, che è il nostro futuro comune a essere minacciato”.
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