di Silvia Pareschi

Silviapareschi.jpg

Quando scoppiò la guerra contro l’Iraq mancavano pochi giorni alla mia partenza per gli Usa, e il mondo era in preda all’angoscia. Ricordo soprattutto un viaggio in treno sommersa da giornali e riviste, in cui ogni foto, ogni articolo grondavano sangue, rabbia, disperazione e paura. D’improvviso mi sentii come il proverbiale cammello carico di pesi, a cui un solo ago in più finisce per spezzare la schiena. Il mio ago fu la notizia dell’arresto, durante una manifestazione per la pace a Washington, di Mairead Corrigan Maguire e Jody Williams, premi Nobel per la pace rispettivamente nel 1976 e nel 1997. Due premi Nobel per la pace erano state arrestate perché manifestavano in favore della pace.

Mi sentii soffocare, e una volta scesa dal treno entrai d’istinto in una libreria in cerca di qualcosa che mi ridesse un po’ di speranza. Trovai un libro di Howard Zinn, che mi attirò soprattutto per il titolo: Non in nostro nome. Not in our name, not in our name, divenne la frase che continuai a ripetermi e la speranza a cui mi aggrappai nei giorni che precedettero la mia partenza.
Mi sono innamorata dell’America, come tanti altri, quando ero ragazzina. Amo la sua lingua, la sua letteratura, la sua musica, amo l’ottimismo e la cordialità della sua gente. Ma altrettante sono le cose che detesto dell’America, e il governo di Bush le incarna quasi tutte. Ebbene, negli ultimi tempi l’America stava mostrando al mondo solo i suoi lati più detestabili. L’umanità, o almeno quella parte di umanità a cui sento di appartenere, si era schierata contro gli Usa, e io non potevo fare a meno di essere d’accordo. Eppure mi addolorava veder crescere quell’odio indiscriminato contro l’America che considero a sua volta pericoloso per il futuro del mondo. Una delle accuse che vengono mosse più spesso a questa nazione dalla storia giovane è quella di essere manichea, di dividere il mondo in buoni e cattivi. Eppure, non è forse questo lo stesso errore che commettono oggi molti europei, che dall’alto della loro lunga storia e della loro presunta saggezza acquisita a prezzo di innumerevoli atrocità, si permettono di giudicare un popolo intero? E non è anche lo stesso errore di coloro che si definiscono amici degli Usa perché scelgono deliberatamente di non vedere tutto il male che gli Usa hanno commesso e che oggi continuano a commettere, di coloro che inneggiano alla democrazia americana proprio nel momento in cui questo paese non è mai stato così lontano dalla democrazia?
Da queste riflessioni nacque l’idea di trasformare il mio viaggio nella ricerca di una speranza di pace all’interno di un paese in guerra. Perché pace non significa soltanto non-guerra, ma significa anche tutto quello che occorre costruire oggi per impedire che domani scoppi un’altra guerra. E perché, come scriveva Calvino nell’ultimo paragrafo delle Città invisibili:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

La Donna che Cammina Lontano.

La mia amica Marion viene a prendermi in una ventosa giornata di sole, in cui sembra che finalmente le verdi colline della contea di Columbia si siano lasciate alle spalle il lungo inverno. Dopo circa un’ora raggiungiamo la nostra meta: la Pagoda della Pace di Grafton, NY, dove incontreremo Jun-san, chiamata dai Nativi Americani La Donna che Cammina Lontano.
Pagoda.jpg
L’edificio, un candido stupa buddista di forma semisferica sovrastato da una struttura piramidale, spunta in mezzo agli alberi e mi colpisce subito per le sue dimensioni, molto maggiori di quanto mi aspettassi. La Pagoda sorge in una radura in mezzo ai boschi, accanto a un tempio e a una stele di granito con un’iscrizione in giapponese. Jun-san non si vede da nessuna parte. La cerchiamo nel tempio e nelle due stanze adiacenti, estremamente semplici ma per nulla disadorne, anzi, piene di tracce di un’instancabile e serena attività. Sono io la prima ad avvistare Jun-san: guardando dalla finestra vedo arrivare una donnina minuscola, con un asciugamano giallo annodato sopra la testa rasata, una giacca a vento gialla, un paio di calzoni da lavoro e stivali di gomma infangati. Il nostro incontro ha inizio con una breve cerimonia di benvenuto nel tempio, durante la quale Jun Yasuda — è questo il nome completo di Jun-san — si inginocchia come se le sue gambe fossero fatte solo di ossa e recita per tre volte, con voce profonda e con l’accompagnamento di un piccolo tamburo, le prime parole del Sutra del Loto: Na Mu Myo Ho Ren Ge Kyo. Poi ci invita nella sua stanza, dove ci offre un tè e l’uva portata da Marion (Jun-san si nutre esclusivamente di offerte) e ci regala una preziosa ora del suo tempo, durante la quale ho modo di ammirare l’energia e la serenità di questa donna straordinaria.
Nel 1978 i Nativi Americani organizzarono la “Lunga Marcia”, i cui partecipanti camminarono dall’isola di Alcatraz (San Francisco), fino al Bureau of Indian Affairs di Washington, segnando una tappa fondamentale del movimento per i diritti degli Indiani d’America. Il fondatore dell’ordine buddista Nipponzan Myohoji – soprannominato Guruji da Gandhi — era profondamente consapevole dell’importanza dell’insegnamento di pace dei Nativi Americani, che considerava per molti aspetti prossimo al buddismo. Guruji chiese ai suoi seguaci di partecipare a quella marcia, non per fare proseliti ma, come ricorda Jun-san nel suo inglese basilare ma efficace, “per sostenere i Nativi Americani perché hanno una storia di lotta, di rispetto per la terra, di vita in armonia… Se un giorno il mondo ritroverà la strada della pace, gli Indiani saranno importanti maestri.” I monaci furono incoraggiati ad apportare coraggio e forza “suonando il tamburo e camminando dietro i Nativi.” Durante quella marcia Jun-san, da poco ordinata monaca, diventa amica di Dennis Banks, il cofondatore dell’American Indian Movementche descrisse così i membri dell’ordine Nipponzan Myohoji, forse più noto fra gli attivisti per la pace che fra gli stessi buddisti: “La loro unica missione è camminare e pregare per la pace. Forse quando l’ultima bomba nucleare verrà smantellata e l’ultimo trattato sarà stato firmato, forse allora potranno riposare e meditare in silenzio.”
Pagoda2.jpg
Ed è proprio questo che Ju-san ha sempre fatto da quel giorno in poi: digiunare e camminare, percorrendo distanze inimmaginabili al suono del tamburo e del mantra Na Mu Myo Ho Ren Ge Kyo, del quale, dice Jun-san, “non occorre conoscere l’esatto significato. Quando preghi dal profondo del cuore, molte emozioni vengono a galla. Ognuno di noi lo sentirà in modo diverso, ma per tutti è una preghiera di pace. Se vuoi sapere cosa significa, prego prova a recitarlo.”
Quando finì nei guai con la legge per il suo attivismo degli anni ’70, Dennis Banks dovette lasciare la California e nascondersi nella Riserva di Onandaga, nello stato di New York. Jun-san lo accompagnò, e per aiutarlo cominciò a tenere digiuni e veglie di preghiera di fronte al palazzo del Governatore. Fu lì che Hank Hazelton, un sostenitore dei diritti dei Nativi Americani, le offrì un pezzo di terra a Grafton per costruirvi un “Monumento di Pace.” I lavori cominciarono nel 1985, e per otto anni, fino alla cerimonia di consacrazione avvenuta nel 1993, Jun-san visse nel granaio di Hank. “Un giorno andai a trovarla al ritorno dal Canada,” mi racconta Marion. “Era pieno inverno, e in Canada non faceva tanto freddo quanto in quel granaio.” Dato che ai monaci dell’ordine Nipponzan non è permesso richiedere offerte in denaro, la Pagoda fu costruita interamente grazie al lavoro e al materiale donato da centinaia di volontari.
Jun-san è una donna infaticabile. Nei brevi periodi che trascorre a Grafton passa le giornate a lavorare nel terreno circostante, e la notte a preparare il percorso della sua prossima marcia e a scrivere lettere ai suoi innumerevoli contatti in tutto il mondo. Le sue marce di pace, seguite da moltissime persone che si uniscono a lei per tratti più o meno lunghi, necessitano di un’accurata preparazione per trovare case ospitali dove fermarsi a mangiare e dormire lungo il cammino. Dopo la “Lunga Marcia” del 1978, Jun-san ha attraversato gli Stati uniti altre quattro volte, e i suoi piedi instancabili hanno percorso tutto il mondo: una delle sue marce più famose è quella che ha portato lei e i suoi compagni da Hiroshima ad Auschwitz. Jun-san è sempre presente laddove c’è bisogno di pace: Bosnia, Zambia, Nepal, Sri Lanka, Nicaragua sono solo alcuni esempi, e ci sono foto che mostrano i monaci dell’ordine Nipponzan Myohoji durante le turbolente elezioni post-apartheid del Sud Africa e davanti alla chiesa assediata di Betlemme. I loro tamburi risuonarono per le strade di Manhattan durante la Grande Marcia della Pace del 1982, che radunò più di un milione di persone contrarie alle armi nucleari. E Ju-san è stata anche in Italia, a Comiso, dove nel 1998 ha partecipato alla cerimonia di consacrazione di una Pagoda della Pace quasi identica a quella di Grafton.
Pagoda3.jpg
“Quando attraverso il paese,” dice Jun-san, “sto con gente di religioni diverse, cattolici, musulmani, ebrei, non importa. E quando camminiamo sono molto ospitali e ci portano cibo e acqua e condividono qualcosa con noi. Questo succede sempre, dovunque mi trovi. Anche in Bosnia, ho dormito a casa di musulmani, cattolici, ortodossi, è così dappertutto.” Come ogni attivista, Jun-san sa che il personale è anche politico. “Noi non pensiamo separato… La politica è dovunque nella testa della gente. Così io non penso separato. Durante la guerra del Golfo, ero seduta davanti alla Casa Bianca per un mese, e ho digiunato per un mese. Mi hanno detto, è un luogo politico, ma per me anche la gente della Casa Bianca ha bisogno di pace, anche loro hanno bisogno di sentimenti di pace e preghiere di pace. E dappertutto la gente ha bisogno di questi sentimenti. Così quando cammino fino a una base militare, io non grido né altro, solo suono il tamburo e mi inchino alle persone.”
Durante queste marce, mi racconta Marion, si verificano continuamente “piccoli miracoli”, e le “storie di Jun-san” sono tante piccole storie zen che dimostrano l’esistenza di una forza invisibile pronta a sostenere chi ha dedicato la propria vita al bene del mondo. Una notte, a Mostar, dopo una giornata di marcia estenuante nella Bosnia lacerata dalla guerra, uno dei cinquanta pellegrini che avevano camminato con Jun-san si svegliò e vide una piccola luce nell’angolo della stanza dove tutti dormivano sdraiati sul pavimento. Era Jun-san, intenta a rammendare i vestiti di un altro pellegrino. Quella stessa sera Jun-san aveva cucinato una favolosa cena per tutti, con il solo ausilio di un fornello da campo e di una piccola provvista di acqua in una città quasi priva di cibo. Altre storie riguardano l’intuito di Jun-san, la sincronicità che circonda la sua esistenza e la sua capacità di “connettersi” con le persone e metterle in contatto le une con le altre. Una volta chiese a un vecchio amico di ritorno a Boston di compiere una lunga deviazione per passare a trovare una coppia appena arrivata dalla Birmania. “Anche se non so perché me lo chiede,” raccontò più tardi l’amico, “faccio sempre quello che mi dice.” La coppia, costretta a partire da un giorno all’altro, aveva dovuto lasciare i figli in Birmania. Guarda caso, l’amico di Jun-san era in contatto con un’agenzia internazionale che in poco tempo riuscì a riunire la famiglia.
Al momento di congedarci, Jun-san mi fornisce i nomi di alcune persone da contattare a New York e mi offre il suo dono di pace, un filo a cui sono appese quattro gru di carta fatte con la tecnica dell’origami e un foglietto con la scritta Na Mu Myo Ho Ren Ge Kyo in caratteri giapponesi. Le lascio il mio indirizzo, e Marion mi dice, “Aspettati di vederla bussare alla tua porta, un giorno o l’altro.” Spero tanto che succeda: non riesco a immaginare un’ospite più gradita di lei.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare i siti:
www.geocities.com/dharmadoors/grafton_peace_pagoda.html
www.dharmawalk.org