E’ uscito in Francia il primo testo critico di spessore su Michel Houellebecq: lo ha scritto il corrosivo e intelligentissimo saggista e romanziere Dominique Noguez, si intitola Houellebecq en fait e si tratta di un libro che nessun critico italiano avrebbe il coraggio di dedicare a un contemporaneo. Prima di compiere un’incursione tra le pagine di questo diorama che fa impazzire le tessere del mosaico-Houellebecq, qualche parola su Noguez è utile per comprendere come sia possibile che in Francia venga dato alle stampe un testo simile. Dominique Noguez è un semileggendario intellettuale che fa da eminenza grigia a parecchie realtà editoriali parigine, di prestigio e non. Ha pubblicato una serie di interventi sui contemporanei, soprattutto sulla Duras, che sarebbero inconcepibili qui da noi. E’ autore del sublime Amour noir, un resumé dell’ironia infernale che non domina il nostro tempo. Su Houellebecq, Noguez ha tutto il diritto di scrivere: è tra coloro che hanno scoperto e lanciato l’autore delle Particelle elementari.
E’ pazzesca l’autocertificazione di generosità intellettuale che Noguez mette in prefazione a questo suo libro (una prefazione straordinaria, una ricchezza di sguardi e prospettive che si mangia letteralmente l’aridità della critica sterile all’italiana): egli dichiara che, se c’è un mandato letterario che sente con urgenza, è quello di entrare nel corpo dell’opera vivente dei viventi e, quindi, l’imperativo categorico più immediato è quello di occuparsi di coloro che sono a lui prossimi, con l’intento esplicito di iniziare, da subito, nel presente, un’opera di storicizzazione dell’esistente. Un’esercizio che più critici nostrani definiscono impossibile, scabroso e – non si sa perché – addirittura ontologicamente scorretto. Per questo fa impressione osservare con quale rigore congiunto a entusiasmo una cultura in piena fossilizzazione – com’è in realtà quella francese – ci dia lezioni di vitalità e stile: stile dello sguardo e del pensiero.
Che cos’è, nei fatti, Houellebecq? Dice Noguez: “E’ il Baudeleire dei supermercati”, è “il Buster Keaton dell’informatica”, è “l’inventore, a partire dallo humor nero, per mezzo di una scrittura bianca, dello humor grigio”. Cioè: “Michel Houellebecq è il primo scrittore autentico del tempo storico della brutta globalizzazione che stiamo vivendo”. L’anatomopatologia di Houellebecq non è una mitopoiesi: è l’analisi di una piattezza metallica, che culmina – per ora – con Lanzarote, l’antiUtopia, l’isola globale in cui, tra raeliani e scientologisti e turismo di massa e sesso anosmico, si respira l’aria rarefatta del grande sogno tecnocratico – il grande sogno che è il nostro incubo, quella diabolica libido che tenta di farsi storia dividendo l’uomo dall’uomo.
Noguez accompagna le sue esplorazioni critiche del cosmo houellebecqiano con pagine di diario, tutte dedicate alla frequentazione – acida e sonnolenta e ciclotimica – della frequentazione di questo poeta narratore performer, a volte depresso e sonnambolico, altre volte maniacalmente lucido, spesso impegnato in un corpo a corpo vigoroso ed estenuante con l’esistente: un esistente che, quasi sempre, prende le forme del leviatano di una pubblica opinione mediatica e puritana. Per questo la forma diario diventa uno strumento di deflagrante esposizione di verità non nascoste: poiché Houellebecq passa prima come fascista, poi viene incluso nel branco dei cosiddetti “scrittori neoreazionari” (in cui è incluso, almeno per me incomprensibilmente, anche Maurice Dantec), infine gli viene intentato un autentico processo. Seguire le giornate, le ferocissime battute gnomiche di Houellebecq, i travagli degli appelli di intellettuali e operatori della cultura, le mossettine dei giornalisti – insomma seguire tutta questa antinatura, secondaria e stupidissima, con cui lo scrittore deve fare i conti, significa addentrarsi in un labirinto critico potentissimo, secondo il paradosso tutto contemporaneo per cui la cronaca diventa critica (qui in Italia esiste un unico esempio, non a caso avversatissimo dalla stolidità accademica, di critica attualistica e politica del genere: è Il tradimento dei critici di Carla Benedetti).
Però la sconcertante ricchezza di analisi che Noguez dispensa in Houellebecq en fait è tale da fare mangiare la polvere a qualunque critico contemporaneista. Non c’è soltanto la forma diaristica, che già di per sé avrebbe strutturato un libro eccezionale. A metà testo, Noguez interviene sul piano meno indagato dell’opera dell’autore di Piattaforma: lo stile. Lo stile, soprattutto per Hoellebec, è il perno della piattaforma. Non si dà una capacità di resa simile della piattezza (che è l’autentico cinismo di Hoellebecq) a partire da una tanto impressionante “assenza di stile” senza calcolo o, direi, senza orecchio: la memoria ritmica di Hoellebecq è evidente, le sue intermittenze presuppongono una capacità di ascolto dei silenzi tra apici e pieni. Per questo Noguez fonda una sorta di antistilistica, rovesciando i paradigmi consolidati e mettendo in evidenza – ma è un esempio tra molti – la centralità sintattica del punto e virgola in Houellebecq. O questa cosa la si capisce, o si continuerà a perpetuare il truismo inverificato di uno scrittore ideologico o, il che è lo stesso, postideologico, postetico e postmoderno: il che è il contrario della realtà.
E qui si giunge al centro del maelstrom Houellebecq: il punto vuoto da cui origina il ciclone di ciò che si dice di lui e dei suoi libri. Appare, nella vulgata delle scemenze, la figura paradandistica o controdandistica di un depresso cronico che, siccome percepisce il mondo come sfiga, dice che il mondo è sfigato, brutto, maleodorante: una specie di negativo di Wilde o di Baudelaire ad usum profani, con tutto il corollario di scontri processuali e di costume con la società a lui contemporanea che anche per Wilde e Baudelaire era stato messo in risalto. Queste sono emerite stronzate, che si fondano sulla cecità di una società che non riesce più a vedere i propri grandi scrittori, mentre i grandi scrittori riescono a vedere benissimo la propria società. La cecità sociale, nella sua informe e gorgogliante idiozia, pensa che Houellebecq sia i suoi personaggi e che la finta cronaca che racconta sia la cronaca. La cecità sociale, dunque, arriva a stupirsi di tutto: che dopo Piattaforma davvero esploda un ordigno terrorista a Bali o che dopo Lanzarote divenga realtà la fiction raeliana della clonazione – il tutto dopo avere pensato che questa stessa fiction fosse una cattiva intenzione da parte dello scrittore, un ammorbamento del cuore sentimentale e tutto emotivo di cui uno scrittore, per fetida ideologia del presente, dovrebbe essere dotato. Ovviamente, le cose non stanno così. Houellebecq non è, egli stesso, un reazionario e non si sa bene che cos’è. Il suo successo, come capita per ogni successo, è l’esplosione di un fraintendimento. Il pericolo è nello sguardo di chi legge e non – almeno in questo momento – nella penna di chi scrive. L’idea che la nostra sia una storia finzionale – il che è uno degli esiti poetici più immediati dell’opera di Hoellebecq – non è declinabile secondo rozzezza: la storia esiste eccome e l’uomo la inventa e la agisce secondo dinamiche del caos e dell’ordine. Figuriamoci se uno che non crede a Dio finisce per non credere all’uomo! Houellebecq è un umanista e il negativo che evoca viene sempre costantemente sciolto nello humor grigio di cui Noguez anticipa caratteristiche stilistiche e filosofiche. Leggete i libri di Houellebecq come opere zen (Opera bianca, del resto, è uno dei pezzi di maggior bravura del suo ancora intradotto Intérventions): l’individuo che si scontra con la storia, la interiorizza e la scioglie, approdando a un limbo fatto di silenzio, un’esperienza singolare, personale, di incapacità a enunciare verbo, che non ha nulla a che vedere con la condotta pubblica e l’intenzione di agire politicamente nel mondo. Se non così, se si vuole restare a una lettura sociale dei libri di Houellebecq, bisogna comprendere che ciò che egli racconta è una denuncia: il contrario dell’assenso al nichilismo di cui lo si accusa.
Se c’è un benvenuto che Houellebecq non dà è quello che introduce al deserto del reale: egli dà il benvenuto al deserto di sé, in un senso polarmente opposto a quello del facile nichilismo a cui i francesi ci avevano abituato e a cui, a quanto pare, gli italiani si sono abituati benissimo.
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