di Silvia Pareschi
La prima cosa che noto, appena uscita dall’aeroporto, sono le bandiere. Gli americani hanno sempre amato esibire i colori nazionali, ma adesso le stelle e le strisce sono davvero onnipresenti. Nemmeno la segnaletica è esente dal contagio. Il cartello che indica Manhattan mostra il disegno dello skyline: sopra il fantasma delle due torri è stata impressa una bandiera. Lungo il tragitto, enormi cartelloni pubblicitari bianchi, rossi e blu con la scritta SUPPORT OUR TROOPS. In città, bandiere di ogni dimensione: dai mini adesivi incollati ai parabrezza agli enormi lenzuoli che coprono intere facciate, per non parlare dei mazzi di vessilli che, insieme ai patriottici nastri gialli, sostituiscono i germogli sugli alberi ancora nudi di questa ostinata fine di inverno. Sono venuta a cercare i pacifisti, ma quello che mi accoglie è un paese caparbiamente ancorato al proprio nazionalismo.
Da Manhattan prendo il treno per raggiungere Ledig House, la colonia per artisti nella parte settentrionale dello stato di New York dove vivrò per un mese. La mia ricerca, quindi, avrà luogo in questo spicchio di America reale, lontano dalla metropoli che viene a buon diritto considerata un mondo a parte. La contea di Columbia, una bella regione verde e collinosa, è sempre stata una zona a maggioranza repubblicana, eppure non devo attendere molto prima di incontrare qualche pacifista. In effetti mi basta andare al pub di Chatham, il paese più vicino a Ledig House, per ritrovarmi, ancora prima di sedermi al tavolo, a parlare con due americani che condividono in pieno le mie opinioni. Max è un’attivista di ANSWER (Act Now to Stop War and Racism), un’organizzazione considerata piuttosto radicale (anche se il concetto di “radicalismo” che hanno gli americani è molto diverso, decisamente più moderato di quello europeo) che ha coniato la parola d’ordine “Occupation isn’t liberation” e si è posta come obiettivo l’immediato rientro dei soldati americani dall’Iraq. Gli chiedo informazioni su come raggiungere Washington per la manifestazione pacifista del 12 aprile, e a questo punto interviene Bob, che esprime un certo scetticismo. Ci sarà poca gente, dice, i pacifisti sono confusi, la guerra sta per finire, non si sa cosa succederà adesso e molta gente è ormai stanca di manifestare tutte le settimane, hanno lavoro, famiglia, e Washington è lontana. Max si infervora, discute, gli risponde che occorre portare l’azione anche nei centri piccoli, non bisogna smettere di alzare la voce davanti a chi tenta di soffocarla. Mi parlano del famoso striscione preparato da Max per la prima grande manifestazione di Washington, un pezzo di stoffa alto un metro e mezzo e lungo nove completamente ricoperto di firme contro la guerra che circondano l’immagine della statua della Libertà. “L’hanno fatto vedere anche al telegiornale,” spiegano orgogliosi, “prima hanno parlato dell’ONU, e subito dopo del nostro striscione”. Mi raccontano dell’uomo arrestato al centro commerciale di Albany, NY, perché indossava una maglietta con le scritte PEACE ON EARTH e GIVE PEACE A CHANCE (all’interno del centro commerciale è espressamente vietato ai clienti di indossare capi di abbigliamento “con slogan che potrebbero scatenare disordini”). Questo governo dice di voler portare la libertà agli oppressi, afferma Max, e intanto priva il suo stesso popolo delle libertà fondamentali di cui l’America è sempre stata orgogliosa.
Chiedo a Bob cosa ne pensa delle bandiere. Per un’europea come me, gli spiego, una simile esibizione di patriottismo è impensabile. In un altro momento risulterebbe ridicola, oggi fa un effetto inquietante. In America il potere politico e il potere militare sono strettamente interconnessi, sovrapposti, mi risponde. Oggi il presidente non è più il rappresentante del popolo, colui che deve compiere la volontà dei cittadini altrimenti non verrà rieletto (un’importante lezione di democrazia da parte di un paese che quella democrazia la sta perdendo. Eppure mi domando: siamo sicuri che la nostra democrazia abbia ben chiaro questo concetto?), ma è diventato una specie di capo militare, un generale a capo di una nazione-esercito che obbedisce senza fiatare. Viste in questa ottica, le bandiere assumono una connotazione militaresca, e non è un caso che siano aumentate in maniera esponenziale dopo l’undici settembre – o nine eleven, come lo chiamano qui. Le bandiere sono l’espressione di un sentimento di rivalsa, del raccogliersi delle truppe intorno al proprio condottiero che le porterà alla vittoria.
Eppure, mi dicono, l’opposizione a questa guerra è stata forte. Una buona percentuale di americani era contraria; poi c’era una fascia ristretta di convinti sostenitori di Bush, e una grossa porzione di indecisi e ignari. Sì, perché qui i media sono spaventosamente schierati da una parte sola, e non è per niente facile ottenere informazioni “alternative”, a meno che non si sappia perfettamente dove andarle a cercare. La mattina in cui il Manifesto metteva in prima pagina la notizia dei tre giornalisti uccisi a Baghdad, il New York Times ne parlava in un trafiletto nelle pagine centrali. Alla faccia del giornale “liberal”. Eppure queste persone sono ben informate (citano con particolare ammirazione il blocco dei treni italiano) e hanno le idee molto chiare su come stanno veramente le cose.
Partendo da un numero di telefono datomi da Max, inizio una lunga trafila di telefonate alla ricerca di un passaggio per Washington. Alla fine sono costretta a rinunciare: alcuni autobus sono stati annullati per mancanza di gente, altri sono già pieni, altri partono a orari impossibili tipo le quattro del mattino (non è la levataccia a scoraggiarmi, ma il fatto di dover dipendere da altri per raggiungere il punto di raccolta).
Decido quindi di seguire il consiglio di uno dei miei contatti telefonici, Don Lathrop, e di recarmi alla manifestazione che avrà luogo in un paese a una trentina di chilometri da qui, Pittsfield, Massachusetts. Il primo impatto è quantomeno deludente. Su un marciapiede davanti a un’aiuola spartitraffico ci sono una dozzina di persone con cartelli anti-guerra. Un uomo con un cappello da cowboy sventola mazzi di dollari in direzione delle auto di passaggio. Un altro con il cartello “Honk for peace” vaga un po’ discosto dagli altri. Io ho portato la bandiera arcobaleno, ma all’inizio sono troppo scoraggiata per tirarla fuori. Quando infine mi faccio forza ed espongo il mio simbolo di pace, un uomo mi si avvicina e si presenta: è Don Lathrop. La prima cosa che gli domando e “Come mai siamo così pochi?”, e lui mi guarda perplesso. “Siamo una ventina,” dice, “pensavo peggio.” La manifestazione dura un’ora, da mezzogiorno all’una, e nel frattempo comincio a conoscere qualcuno dei partecipanti, tutti incuriositi dalla presenza di due europee (con me c’è un’amica tedesca) alla loro piccola iniziativa. Intanto molte macchine rispondono all’appello “Honk for peace”: i conducenti suonano il clacson e mostrano le due dita alzate in segno di pace. “Fino alla settimana scorsa erano molti di più,” mi dice Don. “E comunque da quando è scoppiata la guerra molta gente si è tirata indietro.” Gli chiedo di spiegarmene il motivo: non è forse più patriottico chiedere di richiamare indietro i soldati, di risparmiare ai giovani lo strazio della guerra, piuttosto che mandarli a combattere e morire per una causa inesistente? “Questo è ciò che pensiamo noi,” mi risponde. “Ma il messaggio che comunicano i media è “I nostri ragazzi stanno combattendo per liberare un popolo dall’oppressione, dobbiamo fargli sentire che siamo tutti con loro.” Anna Quindlen riassume così, nell’articolo apparso su Newsweek da cui ho tratto il titolo di questo mio scritto, l’atteggiamento più diffuso nei confronti della guerra: “Se all’inizio avevi dei dubbi sull’uso della potenza americana in Iraq, dovevi sederti e tacere perché avresti potuto compromettere l’eventuale risultato. Se continuavi ad avere dei dubbi sulla nostra politica estera mentre la guerra era in corso, dovevi sederti e tacere perché stavi aiutando il nemico. E dammi retta, se adesso hai ancora dei dubbi sulla saggezza di un’azione unilaterale, devi sederti e tacere perché abbiamo vinto.”
Alla una in punto ci ritiriamo dal marciapiede e ci raccogliamo in cerchio attorno a un alberello. Un uomo con una lunga barba grigia e un paio di occhiali rotondi fa un passo avanti e chiede un momento di silenzio per i morti iracheni, per i morti americani, per chi lavora per la pace e per tutti quelli che non condividono le loro opinioni. Ci chiedono di presentarci e io spiego che vengo dall’Italia, il paese dove tre milioni di persone sono scese in piazza a manifestare contro la guerra. I loro occhi si illuminano e ci ringraziano di aver partecipato alla loro manifestazione. Nel frattempo l’uomo con il cartello “Honk for peace” è rimasto in disparte, sul marciapiede, a conversare con una ragazza che sventola la bandiera americana. Si tratta di una sostenitrice della guerra, mi spiegano, che non manca mai alle loro manifestazioni. E loro considerano molto importante discutere con chi la pensa diversamente. È un elemento costante del loro impegno per la pace: sulle mailing list dei gruppi pacifisti americani mi è capitato di leggere appelli per trovare volontari che rispondano alle lettere, spesso minacciose o insultanti, dei sostenitori della guerra. “È un lavoro duro e faticoso,” scrivono i moderatori delle liste, “ma necessario.” Ho l’impressione che, per quanto poco numerosi, questi attivisti abbiano molto da insegnare. Mi raccontano con grande rammarico degli scambi di insulti fra attivisti di fazioni opposte durante una recente manifestazione. Altri episodi, invece, sono motivo di orgoglio: molto spesso i “pro” e gli “anti” manifestano gli uni di fronte agli altri, ai due lati della strada (la proporzione è sempre di uno a dieci in favore dei pacifisti, sottolineano), ed è successo che i “pro” abbiano chiamato gli “anti” a riscaldarsi davanti alla loro stufetta, oppure che i due gruppi abbiano fatto la spola da un marciapiede all’altro per scambiarsi tazze di caffè caldo. Io non capisco fino in fondo, non so se trovarli irrimediabilmente ingenui oppure se considerarli anni luce più avanti di noi. Ma non è tutto rose e fiori, naturalmente. “Abbiamo invitato un gruppo di persone favorevoli alla guerra alle nostre riunioni,” mi dice Don con un po’ di tristezza, “ma non è venuto nessuno.” L’uomo con il cappello da cowboy mi regala un dollaro. Ma sulla banconota non c’è scritto “One dollar”, bensì “One deception”: è un falso perfetto, con al centro la faccia di George Bush e in alto la scritta “United States of Aggression”. Sul retro campeggiano le cifre 9-11 e il motto IN FRAUD WE TRUST.
Don Lathrop e sua moglie Marion sono due veterani della lotta per i diritti civili. Don insegna “Peace and World Order Studies” al community college della contea di Berkshire (quando potremo trovare un corso del genere nelle università italiane? In Svezia esiste già, per esempio). Il corso è articolato intorno a quattro argomenti principali: Sicurezza mondiale e sviluppo sostenibile, Alternative alla violenza; Letteratura di guerra e letteratura di pace; Pratiche di pace (in cui gli studenti possono scegliere fra diversi tirocini personalizzati, come ad esempio l’organizzazione di conferenze, l’insegnamento della risoluzione dei conflitti nelle scuole elementari; viaggi di studio a Cuba e Hiroshima, la produzione di video su attività di pace, lo studio di alternative pratiche per la conversione delle locali fabbriche di armamenti in fabbriche di prodotti “civili”). All’interno del corso è attiva la Never Again Campaign, un programma di volontariato per diffondere il messaggio dei sopravvissuti alle bombe di Hiroshima e Nagasaki e promuovere un interscambio fra la cultura americana e quella giapponese. Nell’ambito di questo programma, Don e Marion hanno più volte accompagnato gruppi di studenti in Giappone. La casa di Don e Marion è piena di materiale che testimonia il loro impegno civile: volantini, libri, migliaia di diapositive scattate dagli anni ’60 ai nostri giorni. Don scrive articoli per i giornali locali (“Amo il mio paese, temo il mio governo”, è il titolo di un suo articolo pubblicato sul Berkshire Eagle del 28 luglio 2002) ed è un instancabile promotore di campagne, come quella per il boicottaggio delle banche armate (è felice di sapere che una campagna analoga esiste anche in Italia), nella quale, secondo i suoi calcoli (ah, l’ottimismo americano!) potrebbero partecipare 17,5 milioni di persone (“partendo dal presupposto che il nostro paese ha più o meno 280 milioni di abitanti, possiamo immaginare che la metà sia troppo vecchia, troppo giovane o troppo di destra per appoggiare la nostra campagna; restano 140 milioni di persone: presumendo che la metà sia troppo apatica per farlo, ci restano 70 milioni di potenziali partecipanti; supponendo che la metà non abbia sufficienti risparmi depositati in banca, arriviamo a 35 milioni. Se la metà di questi 35 milioni si sentirà abbastanza motivata dal rifiuto della guerra, avremo comunque la bella cifra di 17,5 milioni di partecipanti”).
Don e Marion mi mostrano una serie di diapositive sul tema della lotta per i diritti civili. Le immagini scattate da loro, insieme a foto e ritagli di giornale dell’epoca, formano un vero e proprio film della durata di quaranta minuti, con tanto di colonna sonora e voce narrante dello stesso Don. Le prime diapositive documentano la grande manifestazione tenutasi a Washington nel 1963, con il famoso discorso di Martin Luther King. Davanti ai miei occhi scorrono le immagini della segregazione razziale e delle lotte dei neri d’America, alle quali i Lathrop hanno partecipato in prima persona. Il boicottaggio degli autobus, i pestaggi, il Ku Klux Klan, il viaggio di Don e Marion nel “profondo sud” dove la segregazione faceva parte della quotidianità, per lavorare a fianco di attivisti che rischiavano, e spesso perdevano, la vita (la foto di una palude nel Mississippi è stata scattata pochi mesi prima che vi venissero ritrovati i cadaveri dei tre ragazzi ricordati nel film “Mississippi burning”).
E poi ancora le diapositive delle recenti manifestazioni contro la guerra, alcune ad Albany, quattro a Washington, quella oceanica del 15 febbraio a New York. Le manifestazioni italiane, grazie alle bandiere arcobaleno, sono senz’altro più colorate, ma quelle americane vincono il premio per i cartelli e gli striscioni più fantasiosi.
Man mano che proseguo nella mia ricerca, mi rendo conto che i pacifisti americani sono molto, ma molto più numerosi di quanto pensassi. Sono venuta qui temendo di incontrare una sparuta minoranza di nostalgici hippy, e mi ritrovo a confrontarmi con persone preparate, organizzate, intelligenti. La disinformazione di cui soffre questo popolo è analoga a quella che subiamo anche noi, e che spesso ci porta a credere che la maggioranza degli americani siano a favore del governo di Bush. Non è affatto così. Sono molti anche i conservatori che disapprovano l’operato del presidente, e perfino tra le persone meno attive politicamente il malcontento è palpabile. È facile cadere nell’equazione pacifista = antiamericano. Ma si tratta di un equivoco che fa il gioco del potere, perché impedisce la collaborazione tra i pacifisti d’America e del resto del mondo. Questo popolo è vittima del suo stesso governo, esattamente come noi.
La mattina di Pasqua vado a un raduno di quaccheri. Le chiese americane formano una galassia enorme ed estremamente variegata, nella quale i quaccheri rappresentano una delle punte più avanzate dell’impegno pacifista. Quello a cui partecipo è un silent meeting, un’ora di silenzio in cui chi ha qualcosa da dire si alza e parla davanti a tutti. E quelle che ascolto sono bellissime parole di pace. Alla fine un gruppo di bambini irrompe nella stanza, e una donna pronuncia una preghiera per i bambini iracheni e per i loro genitori. Vengo accolta calorosamente, tutti fanno a gara per fornirmi informazioni, siti da consultare, e mi pregano di far sapere a più gente possibile che tanti americani desiderano soltanto la pace.
Infine una di loro racconta una storia. Suo suocero, dice, è molto sordo. Una sera tutta la famiglia si riunisce a cena. Lei chiacchiera, parla, discute con tutti. A un certo punto il suocero la guarda e le dice: “Questa è la prima cosa che ho sentito di tutto quello che hai detto stasera.” Ecco, conclude la donna, se continuiamo a parlare, prima o poi riusciremo a farci sentire, e forse un giorno chi ci governa dirà, “Ehi tu, laggiù, cos’hai detto? Mi è sembrato di sentire una parola. Come? Pace? Ah, sì, in effetti non ci avevo mai pensato…”
Columbia County, 21 aprile 2003