Il barone Valastro Guarnera di Burgio stava spingendo a tutta forza il suo purosangue lungo la strada sterrata che da Pizzo d’Elsa portava sino a Santo Stefano, quando il povero cavallo – estenuato e schiumante – mise una zampa in fallo e rovesciò il cavaliere nel bel mezzo di una macchia di rovi.
Il barone percorse una parabola di geometrica bellezza prima d’immergersi tra i rami spinosi del cespuglio, ma rovinò l’effetto estetico del volo urlando un bestemmione apocalittico nel momento in cui alcune spine ingrate gli si conficcarono nelle carni. Poi il barone reiterò urla e bestemmie mentre cercava di districarsi dal cespuglio. Questo, nonostante i modi poco urbani dell’uomo, pareva non volersene separare e l’avviluppava e lo legava a sé sempre più, mentre quello – sempre insultando santi e madonne – con una mano si proteggeva gli occhi e con l’altra allontanava rami e spine. Insomma, fortuna volle che il barone portasse robusti guanti da cavallerizzo; chissà, altrimenti, in quali condizioni gli si sarebbero ridotte le mani.
Nello stesso momento in cui il barone forzava l’andatura del cavallo, in un campo poco distante Tano Gullì conduceva placidamente un grande trattore rosso attraverso un maggese fresco fresco, con le zolle ancora odorose di letame. Giunto nei pressi della sterrata, decise di concedersi l’ultima Nazionale senza filtro strizzata nel pacchetto che teneva nel taschino del suo camicione di flanella. Arrestò il trattore ed estrasse sigaretta e cerini, ma l’occhio gli cadde sul fiasco malizioso che occhieggiava da sotto la giacca di fustagno che lui stesso ci aveva gettato sopra per proteggerlo dai raggi del sole.
“Eh, sì” pensò Tano, “è proprio il momento di tastare questo vino”. Si accertò che il freno a mano fosse ben tirato e ripose con cura il pacchetto stropicciato e la scatolina dei cerini dentro la tasca della camicia. Quindi si chinò sotto lo sterzo e agguantò il collo del fiasco.
– Vediamo se sei buono come penso – sussurrò, e con le mani callose e nocchiute inizio a sfilare il tappo di sughero, che venne fuori con uno schiocco netto e sonoro. Tano sorrise: il suono era indice della liquorosa bontà del contenuto. Quindi sollevò il fiasco e lo incollò alle labbra, intenzionato a ingoiare una sorsata generosa. Fu proprio mentre prendeva il primo sorso che vide il barone sopraggiungere cavalcando a gran velocità e finire sbalzato di sella.
Fu tale la sorpresa che gli andò il vino di traverso, e un violento colpo di tosse glielo fece sputare tutto sul volante e sul rudimentale cruscotto del trattore. Dopo aver poggiato con cautela il fiasco sul sedile di guida ed essere smontato con un balzo dal mezzo, Tano corse verso il luogo dell’incidente, sicuro di trovare il barone riverso tra i rovi con l’osso del collo spezzato.
Invece, quando lo raggiunse, questi si trovava vivo e vegeto con le mani guantate a respingere i rami spinosi. Lo aiutò a divincolarsi dal cespuglio.
– E finalmente che è arrivato qualcheduno… chi sei? Gullì?… E che ci voleva la sirena per farti venire ad aiutarmi? – disse il barone, cui non parve vero di potersi sfogare con un essere umano anziché con un imperturbabile vegetale.
– Signor barone, venni appena vidi il succeduto – rispose Tano facendo l’espressione più preoccupata di cui fu capace, – ma come vi sentite?… che vi siete strazzato i vestiti lo vedo… non è che vi rompeste pure qualcos’altro?
– Non ci sperare. Piuttosto, va’ a riprendermi il cavallo, va’…
Tano partì alla ricerca del purosangue nero del barone. Il cavallo, per fortuna, s’era fermato poco distante e si stava dissetando a un abbeveratoio all’ombra d’una macchia di lecci. Avvicinatosi all’animale, ne afferrò la cavezza e se lo tirò dietro dolcemente, riconducendolo verso la sterrata.
Il barone Valastro non era più vicino ai rovi, ma se ne stava appoggiato a una delle grandi ruote posteriori del trattore, sorseggiando tranquillamente il vino del fiasco di Tano. Questi, avvicinandosi, si avvide che glielo aveva ridotto di un buon quarto.
– Gullì, questo vino è troppo buono… Ma non è cosa delle vigne che curi tu. Dove l’hai preso? – chiese il barone mentre Tano legava il cavallo al trattore.
– Vossia, signor barone, con tutto il rispetto, è un grande intenditore che ha bevuto tutti i vini più famosi e saporiti, ma questo non l’aveva tastato mai, vero? – fece Tano con un sorriso soddisfatto.
– Gullì, ora mi fai la tiritera? Che vino è questo?
– Questo è il vino di giugno, quando si miete il grano e non si può bere acqua, sennò se ne va tutta in sudore e non si riesce a lavorare più. – rispose Tano. – Vossia l’ha mietuto mai il grano sutta ‘u suli a lliuni?
– Gullì, mi stai prendendo per il culo? Te lo ricordi chi sono, vero? Sono il padrone della terra che tu hai a mezzadria, quello che ti permette di lavorare e campare la famiglia. Te lo scordasti?
– No, signor barone, u’mmu scurdai.
– E ora me lo spieghi dove hai preso questo vino? – riprese il barone, buttando giù un’altra sorsata e pulendosi la bocca con la manica della giacca.
– Bivissi, bivissi, signor barone. Buono, vero? Questo è il vino d’jnnaru, quando si potano gli olivi e serve qualcosa di caldo nne vini per riscaldare le mani che tengono serra e accetta.
– Ancora, Gullì!… Non è che te ne devi approfittare solo perché hai capito che sono curioso di una cosa che sai solo tu. Che vino è questo?
Altra sorsata.
– Questo è il vino ddu vaccaru che si alza ogni mattina alla quattro per badare alle vacche del barone, e pure prima quando devono sgravare, mentre ‘u baruni dorme in città perché è andato a una festa e una vacca non l’ha vista sgravare mai.
– Ho capito Gullì, ti sei parlato anche tu con quel comunista che lavorava nella zolfara. Come si chiama?… ah, Saro Puglisi. Va bene, siccome prima o poi capirai con chi stai parlando e mi dirai da dove minchia hai preso questo vino, io intanto mi siedo qui, – e si sedette per terra, all’ombra della ruota del trattore – che, tra l’altro, ‘sto vino deve pure essere bello forte, perché mi sta facendo girare la testa, – ruttò mentre si stringeva il fiasco in grembo – e tu mi reciti tutto il papello che t’ha insegnato Puglisi. Ti prometto che non t’interrompo e me l’ascolto fino all’ultima parola. Basta che alla fine mi dici dove hai preso ‘sto vino… – nuova sorsata – speciale.
– Ragione avete, signor barone, ché davvero speciale è. E’ il vino del mezzadro che raccoglie l’uva e resta nella vigna fino a tardi, mentre il barone sta seduto davanti alla tovaglia bianca racamata e si beve il vino dell’anno prima, che non è bbonu comu a chistu, però! Bivissi, bivissi, signor barone
– Non ti preoccupare, Gullì, che me lo bevo tutto il tuo vino.
– Bivissi, che questo è il vino del villano che s’innamorò della figlia del campiere ddo baruni, e si mise in testa di sposarsela, e tanto bramò che ci riuscì e ci fece pure tre figli. Bivissi stu vinu dilicatu, perché è fatto con la disperazione di chi ogni giorno lascia ‘a saluti ne campi mentre qualcuno si ci mancia u cori, e la moglie che lui ha amato e riverito come una madonna gli dice che l’ha sposato solo perché era incinta di uno che non se la poteva sposare e un fesso qualunque doveva trovarlo. Bivissi stu meli da vigna, signor barone, che un uomo cchiu orbu ddi l’orbi veri aveva preparato per berlo nei momenti cchiù bbeddi che non sono arrivati mai, e che ha sempre pensato che forse non se li meritava. Che quando tornava a casa la sera la moglie gli diceva di andarsene a dormire, perché di figli ne aveva già abbastanza. Che quando era proprio disperato è andato dal signor barone e quel…
– Accura, Gullì! Non esagerare, che ancora non sono ubriaco.
– … gran signore gli ha detto che ci avrebbe parlato lui ca mugghieri.
– E difatti ci ho parlato.
– Solo che si era fatto i conti male, perché anche se il signor barone gli aveva detto di andarsene a lavorare che ci pensava lui, stu poviru viddanu ha voluto ascoltare di nascosto le parole del signore, e ha scoperto che era lui quello che la moglie non s’era potuto sposare, e che, per giunta, ancora continuavano a ficcare di nascosto.
– Tano, ma che minchia stai dicendo? – disse allarmato il barone, con gli occhi lucidi di ebbrezza alcolica.
– Sto dicendo che un povero disgraziato, quando scopre che non ha più amore, non ha più casa, che l’hanno sempre imbrogliato supra i cosi cchiù sacri, solo una cosa gli resta di fare.
Il barone cercò di rimettersi in piedi, ma le gambe non lo ressero e ricascò a terra. Tese una mano con il palmo aperto in direzione di Tano, come per proteggersi da lui.
-Signor barone, che fa, si scanta? Non se lo ricorda che cosa ci disse quella volta a ma mugghieri? “Quello è un cretino preciso. Il bambino più grande havi già sei anni e non ci simigghia ppi nnenti; eppure lui ancora non s’è accorto ca nun è figghiu so’. Certo che te lo sei scartato proprio bene il minchione!”. Signor barone, avevate ragione: proprio un minchione sono! E che può fare uno così? Chi ci resta ‘i fari?
Il barone Valastro, ormai, lo guardava a bocca aperta. Tano continuò.
– S’ammazza! Signor barone, che altro può fare? Però, siccome è un viddano e no n’omu di panza, si scanta di sentìri duluri e si procura il vino più dolce delle vigne della provincia, il veleno meno amaro che c’è, e se ne va da solo n’menzu ai campi. Solo che nemmeno in mezzo ai campi u baruni può lasciarlo in pace. Allora, signor barone, non ci potevate stare mezza giornata senza farmi n’angaria, senza rubarmi quarchiccosa? Pure questo vino che m’ero preparato apposta dovevate prendervi?
Racconto di Mauro Mirci