di Carlo Formenti
[Questo intervento è apparso su Quinto Stato. Ringraziamo la redazione del blog nato “per riavviare la net economy” per il permesso di pubblicarlo su Carmilla]
Scritto nel 1997, Impero di Antonio Negri e Michael Hardt è senza dubbio, assieme a La nascita della società in rete di Manuel Castells, il più organico e strutturato tentativo di dare sistemazione teorica al concetto di globalizzazione capitalista. Ancorché poderose, entrambe le opere scontano gli effetti dell’accelerazione che il tempo storico ha subito in questo passaggio di millennio. Ecco perché, a pochi anni dall’uscita della prima edizione americana, Negri ha deciso di aggiornare e difendere dalle molte critiche le tesi sostenute in Impero. Ne è sortito questo Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni che Raffello Cortina ha appena mandato in libreria. Anticipiamo subito a chi si aspettasse ripensamenti critici che resterà deluso: benché in forma rapsodica (le lezioni sono inframmezzate da articoli e dialoghi che aggrediscono i problemi da diverse angolazioni), il libro ripropone in blocco gli argomenti di sei anni fa, radicalizzando il carattere neomarxista dell’impianto metodologico. Rispettando i vincoli di spazio imposti dal media, mi limiterò a evidenziare alcuni nodi di fondo.
La prima constatazione è che gli eventi successivi all’11 settembre non hanno spostato di una virgola il punto di vista di Negri sulla “delocalizzazione” del potere imperiale. Troviamo solo una piccola traccia di dubbio laddove l’autore, ribadito l’assunto (ormai quasi universalmente condiviso) che la sovranità abbandona lo stato nazione, scrive che essa “va da qualche altra parte” e aggiunge che definire il dove “è un problema che resta aperto”. Il luogo della sovranità è insomma un non luogo, un’entità fantasmatica in cui si concentrano le funzioni che garantiscono lo sviluppo capitalistico globale (lo stato non c’è più , ma da qualche parte c’è ancora qualcuno-qualcosa che svolge il ruolo di “comitato d’affari della borghesia”). Al poderoso plesso di potenza politica e militare americano, viene concesso solo il ruolo di polizia globale. Se da un lato è vero che, non essendoci più un “fuori” dall’Impero, ogni guerra è per definizione guerra civile, dall’altro è altrettanto vero gli Usa sono solo un segmento, anche se poderoso, del mercato mondiale, mentre la politica di Bush resta “fortemente minoritaria all’interno dell’aristocrazia mondiale del capitalismo multinazionale”.
Vista la pesantezza di certe recenti operazioni di polizia globale, sorge una domanda: siamo sicuri che la lotta per la vita e per la morte ingaggiata dallo stato nazione americano non sia in grado di cambiare le regole del gioco? Non si rischia di sottovalutare il ruolo di una soggettività politica che trascende le “leggi” del mercato? Del resto lo stesso Negri, parlando di metodo, non ammette forse che “lo sviluppo storico non è prefigurabile ma dipende sempre dall’azione dei soggetti all’interno del processo”? Il problema è che questa dichiarazione di metodo viene puntualmente disattesa dall’impianto dialettico neomarxista che – in barba ai riferimenti al post strutturalismo francese – continua a governare l’intera argomentazione. Già perché l’Impero, “non si capisce se non lo si legge all’interno del rapporto col capitale” (a decidere quale direzione imboccherà la storia saranno, sempre in ultima istanza, i “rapporti di produzione”).
E qui veniamo agli argomenti che ci toccano più da vicino, vale a dire al ruolo della rivoluzione informatica e della Rete. Sono i temi che stanno a cuore ai lettori di Quinto Stato: Internet come luogo che ospita lo sviluppo di pratiche e valori cooperativi, sul piano produttivo come su quello politico (dal movimento del free software alle reti di controinformazione e mobilitazione), il lavoro cognitivo come soggetto di pratiche di riappropriazione del sapere tecnologico e scientifico, la riappropriazione di massa di “ciò che è comune” (le reti di file sharing e la resistenza contro le leggi sul copyright imposte dai monopoli dell’industria culturale), ecc. Peccato che queste tematiche vengano inquadrate nella cornice teorica della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Una cornice che – nemmeno mobilitando la geniale anticipazione marxiana del Frammento sulle macchine – riesce a rendere conto della natura articolata e complessa del blocco sociale che può essere mobilitato contro il capitale “parassitario” di cui parla Negri (la generica opposizione capitale-lavoro, per esempio, regala all’avversario l’arcipelago delle startup e delle piccole medie imprese innovative).
Del resto l’autore è consapevole della difficoltà, tanto è vero che respinge l’accusa di voler restaurare lo schema dialettico dell’antagonismo di classe, negando l’esistenza di qualsiasi rapporto fra il concetto marxista di classe e la moltitudine, il nuovo soggetto collettivo cui attribuisce il ruolo di costruire una democrazia “assoluta, senza confini, senza misura”, cioè la sola forma di democrazia all’altezza dell’era imperiale. Non ho qui lo spazio di entrare nel merito di questa categoria. Mi limito a notare come si tratti di un concetto squisitamente filosofico, ispirato alla metafisica materialista di Spinoza (la moltitudine è, di volta in volta: “costituzione ontologica di un nuovo mondo, costruito dal basso”; “molteplicità di singolarità”; “attore attivo di autorganizzazione”; “la comune sostanza vivente in cui il corporeo e l’intellettuale coincidono e sono indistinguibili”). Ma non appena si tratta di tradurre la metafisica in politica, il concetto implode e diventa impossibile definirlo se non in relazione a ciò che esso non è: non è classe, non è massa, non è popolo…
Concludo con un’ultima considerazione, relativa allo sfrenato ottimismo che sorregge la visione negriana. Per Negri quella imperiale è un’era compiutamente postmoderna, che tuttavia – contrariamente alla diagnosi di Jean-François Lyotard – riapre la possibilità di una grande narrazione: la teoria è potenza dell’immaginario, produzione di un virtuale che si presenta più reale del reale (“nominare” la moltitudine significa già evocarne il “potere costituente”). Ma soprattutto Negri è convinto dell’ineluttabile trionfo della moltitudine: “mentre la moltitudine è limite dello Stato, lo Stato è solo un ostacolo per la moltitudine”. Questo ottimismo della volontà – più leninista che gramsciano – è l’aspetto più arrischiato dell’intera costruzione: pur avendo pagato di persona, Negri sembra avere dimenticato quanto costa scambiare per realtà il proprio desiderio.